Pensieri di un cervello stanco eppure lucido
Mi fermai su un dosso
per osservare il torrente che scorre circa un chilometro sotto. Notai un
piccolo ponte di legno che una volta non c'era. Vi giunsero alcuni bambini che
cominciarono a giocare: gettavano palle di neve e pezzi di ghiaccio nell'acqua
corrente che li trascinava verso l'Avisio; gridavano con voci liete alcune parole che di lassù non potevo capire.
Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto.
Mi trovavo sullo stesso sentiero, e osservavo dall'alto lo scorrere eterno del
rio San Pellegrino. Quand'ecco che sul greto vidi arrivare un gruppetto di
bambini della mia età che subito dopo si misero a giocare con l'acqua, con dei
rami e con i sassi. Mentre li guardavo, mi accorsi che uno di loro era
Gianluca, un mio amico dell'anno prima. Insieme eravamo scesi giù per i prati
con una slitta di legno, avevamo seguito le partite di bocce, e avevamo parlato
non solo bene dei nostri parenti in un giorno di pioggia, riparati sotto un castagno
dalle foglie grandi, lucide, scure, simili a ombrelli. Mi piaceva passare il
tempo con lui. Quell'estate però, poteva essere l’anno 1955, sebbene fosse già
la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato. Come lo vidi, provai gioia.
Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi ad agitare le braccia,
mentre gridavo il suo nome con tutta la mia esile e acuta voce di bimbo. Ero
troppo lontano, troppo in alto, e Gianluca non guardava in su siccome
tutto impegnato a giocare con gli altri
e con i ciottoli del greto. Dopo alcuni
tentativi, fui certo che di lì non
potevo attirare la sua attenzione; allora mi precipitai giù per il pendìo.
Correvo, saltavo, mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più
punti. Finché arrivai nel fondo.
Desideravo tanto parlare con quell'unico amico, e conoscerne altri. Ma quando
fui giunto, non c'era più nessuno. Mi trovai solo, a fissare l’acqua che con la
corrente lamentosa tormentava le pietre. Girai per tutta la zona, poi per l'intero
paese cercandoli: invano. Ne fui addolorato: dovetti passare in solitudine
anche quel pomeriggio e gli altri che rimanevano.
"Sono stato molto solo a Moena", pensavo il sei
marzo del 1981 ricordando l'episodio antico. "In quelle estati lontane,
tra questi monti, si prefigurava la mia vita adulta". Volli riprovare a
percorrere l'erto pendio per avvicinarmi ai bambini, per ascoltarli e
raccogliere segni del volere divino attraverso le loro voci, casuali, eppure
forse profetiche. Mentre scendevo, continuavo a guardarli. Ebbene, quando fui a
metà, i fanciulli
andarono via di corsa. Allora mi dissi: "Che cosa
significa questo?"
"La mia tendenza a giungere tardi".
Mi vennero in mente alcuni versi di un poeta magiaro ,
Juhàsz Gjula, morto suicida nel 1937:
"Perché tardi son giunto.
So già il peso della mia sorte,
la segreta tristezza e perché non v'è speranza,
perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio destino
e presto viene la notte. Perché tardi son giunto...
Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi... perché tardi
son
giunto
Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle
un cuore a me devoto... Perché tardi son giunto"
Juhàsz si era ammazzato con il veronal, diceva il manuale di
storia della letteratura ungherese, in quanto non era riuscito a rompere il cerchio
della solitudine.
"Devo farlo anche io?" Mi domandai.
"No", mi risposi. "Dal mio arrivare tardi posso trarre un senso
positivo. Significa, è vero, restare solo, dolorosamente, ma questo mi porta anche a riflettere sulla
mia stranezza, sulle mie sofferenze, fino a farne mezzi di crescita personale e
di solidarietà umana. Se negli anni Cinquanta a Moena non fossi stato tanto
solo, non mi sarei abituato fino da allora a indagare me stesso, ed ora non
avrei coscienza di me: sarei un'altra persona, e non credo migliore.
Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è
ripetuto. Helena era incinta di un altro. Päivi abortì, poi disse che non
voleva vedermi. Ifigenia, se l'avessi incontrata con qualche mese di anticipo,
forse avrebbe cambiato la mia vita solitaria. Aveva detto che quando mi vide la
prima volta, nel novembre del '75 , le ero piaciuto assai, ma lei allora era
fidanzata. Poi si era sposata e lo era ancora quando il nostro amore funzionava meravigliosamente. D'altra parte,
se mi fossi ammogliato con lei, o se Päivi avesse fatto nascere la nostra
bambina, non sarei andato avanti con tutte le forze che ho su questa strada mia
che mi porta a educare i giovani parlando e scrivendo, siccome avrei dovuto affrontare
problemi più pratici. Il ritardare
dunque, lo stare in solitudine a riflettere, a fantasticare, a ricordare, sono
parti essenziali del mio destino e del mio carattere: mi sono state indispensabili
per comprendere e valorizzare il meglio di me. Di una vita privata, famigliare,
non sono mai stato capace né desideroso. Anche per questo sono comunista.
Comunque per intervalla solitudinis , grazie a Dio, non mi
sono mancate le donne le quali se mi amavano avevano certo il loro perché. Perciò
non suicidio, ma accettazione del fato dove è insita una giustizia profonda
eppure perscrutabile. Ifigenia, certamente non è la pessima della ghirlanda, e
con i problemi di cui mi onera, mi fa scoprire nuovi burroni di solitudine e di
sofferenza, però mi apre anche sublimi varchi di luce sopra la testa. Adesso
sono inquieto come una tartaruga rovesciata [1] poiché anche io, al pari di
quella creatura, non ho trovato la mia posizione naturale”
Terminato questo pensiero, camminando lungo il torrente, ero
arrivato a recuperare l'automobile.
Bologna 3 giugno 2021 ore 17, 54
giovanni ghiselli
p. s.
Sempre1142544
Oggi308
Ieri349
Questo mese968
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[1] Cfr.Seneca, Ep., 121, 8
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