lunedì 22 marzo 2021

Viaggio in Grecia, 1981. Capitolo VII. L’insalata greca e il sogno sulla nave

scena da Gli uccelli di Hitchock
Ifigenia si alzò e iniziò a camminare intorno alla mia sdraia con passo furibondo, vesano gradu, come Medea[1].

Stavo per rispondere alla sua imprecazione replicando: “all’inferno ci sono già qui e ora con te!”, ma trattenni la voce, conscio che quando si trasfigurava in Megera, non sentiva altro che la sua ira.  Si trascolorava anche: mentre i capelli le si rizzavano come serpenti infuriati, gli occhi stillavano gocce di sangue.

Sicché mi alzai e mi allontanai verso la prua della nave. Il vento vespertino e la situazione dove mi ero cacciato mi facevano rabbrividire. Osservavo il sole che calava nel mare. Mi sembrò che soffrisse per una ferita che ne insanguinava la luce. Aveva bisogno di riposo e di cure anche lui.

Dopo una decina di minuti, Ifigenia mi raggiunse, rabbonita, e mi diede un’occhiata. Lasciata sola, aveva smaltito la rabbia. Andammo a mangiare l’insalata greca nel self sevice, poi tornammo a dormire nella cabina rollante. Non facemmo sesso che sarebbe stato un’offesa all’amore.

 

Mentre la nave varcava i flutti dell’abisso salato, feci un sogno angoscioso pieno di significati. Forse può scandalizzare alcuni tra i miei lettori, ma vale la pena che lo racconti. Sono immagini oniriche che occultano segni profondi:

Io e ifigenia ci amavano fisicamente con molta passione. Durante una fellatio, un attimo prima di avere l’orgasmo estrassi il pene da dove uscì uno schizzo di calce viva che in breve bruciò gli occhi della ragazza lasciandole due buchi dentro tutta la faccia. Ifigenia mi rimproverava con un singhiozzo, poi, senza ascoltare le mie preghiere, si allontanava incamminandosi per una strada deserta ma sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano con fragore cattivo, e sembravano preparare un assalto violento contro la mia creatura. Infatti ben presto molti di loro si lanciarono addosso alla giovane donna già orbata e si diedero a beccarla sulla testa, su quello che restava del volto, sulle piccole mani protese in un tentativo vano di protezione. Intanto altri uccellacci si diedero a duellare squarciandosi i petti a vicenda, altri si laceravano con il becco aguzzo da soli oppure scaglandosi violentemente contro rocce appuntite. Dopo qualche minuto, Ifigenia non potendo difendersi dai rostri furenti, si mise a correre con tutte le forze residue: allora il mantello scivolò dal suo corpo e la carne splendida apparve più luminosa che mai sotto la testa iriconoscibile tanto era stata sconciata da quelle bestie pazze e crudeli.

 

giovanni ghiselli continua

 

 



[1] Seneca, Medea, 738:

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