La notte di Galaxidion. Prima parteGalaxidion
Al tramonto pieno di voli ci fermammo in un borgo bello del golfo di i Crisa. Galaxidion si chiama. Prendemmo una camera con letto matrimoniale e cenammo non senza averla meritata pedalando per ore.
La giornata ventosa diventò una notte calma e assai bella di fine estate. Dopo cena, levata la fame, andammo a sederci sulla riva del mare calmo, calmi anche noi.
In lei non c’erano i capricci e le bizze fastidiose della bambina scontentà, né l’estasi della martire santa, né la pompa mal dissimulata e il sussiego sgradevole della prima donna sdegnosa siccome portata a mangiare e a dormire chissà con quali cattive intenzioni, in posti modesti oltretutto.
Si vedevano cadere le stelle. Non esprimemmo desderi siccome eravamo contenti quella sera fatata.
Ifigenia mi domandò se il cielo si stesse togliesse i gioielli spogliandosi per andare a dormire nudo.
“Buon segno - pensai - ottimo segno”.
Poi risposi: “No tesoro, vedi che questo sfavillare si immilla. Donando si acquista”.
Anche il golfo era pieno di luci. Sul mare si muovevano lenti i lumi delle barche uscite a pescare. Un gradino più sopra si vedevano le luci di Itea, più sopra ancora quella di Crisa, poi la luce santa di Delfi, la meta già raggiunta del nostro pellegtinaggio devoto. Più in alto, un faro segnava, forse, la vetta suprema del grande Parnaso.
Giurai a tutti gli dèi che l’avrei scalato tutto con la bicicletta le prossime volte, se mi avessero conservato la vita e la salute. Ipse valere opto. Non chiedevo di più.
Sopra il Parnaso solo il cielo. Prima di salire lassù c’era tempo. tutto il tempo per le egregie cose che dovevo a me stesso.
La via Lattea era molto evidente. Ifigenia disse che il nome del borgo che ci ospitava era dovuto al fatto che di lì la Galassia si vede brillare come da nessuna altra parte del mondo. Bellina, era contenta. Brillava, brillava anche lei.
Quando era in buona, e deponeva la maschera tragica della strega tremenda, mi faceva pensare che la sua anima bella cresceva, lievitava ancora come una pasta preziosa. Finalmente non c’erano cagnare né infingimnti tra noi. Al massimo, una volta sdraiati nel letto, per qualche minuto avrebbe fatto la finta ritrosa, come le femmine dei piccioni, e “le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio”[1].
Ma io ci avrei saputo fare, come con Elena
"Quid agi oporteat bonis successibus instructus”[2]
Da un locale venivano le note di un valzer di Strauss: Storie del bosco viennese. Dalla campagna il canto dei grilli.
“Tutto questo non può essere solo caso e materia” dicemmo.
Ci venne in mente la morte del re di Baviera amato da noi quanto nessun altro sovrano per la sua volontà di bellezza e di arte contro una società sconciata, già allora, da industrie commerci e cannoni.
Ci ricordammo del nostro pellegrinaggio di Pasqua ai castelli teatrali del re, al cupo lago increspato dove un cigno segnava di bianco il punto della morte per acqua di Ludwig.
giovanni ghiselli
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