Nell’agosto
del 1978 dopo l’esame di maturità partìì in bicicletta da solo diretto al porto
di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento
in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi
recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se
fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio delle famiglie
borghesi emiliane: gente civile, per carità, ma io ero andato in Grecia in
bicicletta in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare e la strada che mi
avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava.
Volevo trovare quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle
persone ma è molto più forte di quella visibile ai piùGrecia, 2012
Il 9 agosto salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali avevo poco da dire: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen ricordati più volte. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi solcati dal veicolo marino. Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa fatta fluttuare dal vento sonoro.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza pensare con retrogusti non tanto gradevoli ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo.
Dopo due giorni passati così volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata, calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni , pieni di luce, promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo i raggi del sole danzare tripudi vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano gli innumerevoli cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di moltiplicare quel dono del cielo che assentiva alla vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso. Mi viene in mente che una volta dissi a un collega e amico di Ragusa che la Sicilia è un paradiso. Tano mi corresse: no, caro, la Sicilia è il paradiso. Non replicai ma continuo a credere che il paradiso sulla terra è proprio la Grecia.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel paradiso così ben fatto dall’artista divino.
Assaporavo gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Il mondo era bello, variopinto, caldo luminoso e mi rendeva felice.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, già maturata dal calore che favorisce la vita.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza tanto santa.
Ringraziavo la madre terra generosa e felice, poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano al dio sole; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria sulla pelle abbronzata sentendomi armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.
giovanni ghiselli
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