giovedì 25 marzo 2021

L’anniversario della morte di Dante

Di mille voci al sonito
mista la mia non ho
 
Oggi tutti fanno elogi sperticati di Dante. Non c’è un barlume di critica.
Ci provo io pur sapendo bene che attirerò sentimenti e giudizi, non senza pregiudizi, tutt’altro che buoni.
Premetto che del padre della lingua italiana conosco bene solo la Commedia.
Allora partiamo da questo riconoscimento di paternità della nostra lingua madre che condivido per ragioni culturali e pure affettive.
Diversi termini caduti in disuso dall’italiano moderno venivano invece usati in casa mia dove parlavano la bella lingua toscana. Credevo fossero parole del dialetto di Sansepolcro, poi invece le trovavo nel poema di Dante: cuticagna per esempio nominata dalla madre mia quando mi lavava la testa e il collo.
Ora dato che muoverò alcune critiche a questo padre, temo di venire accusato di parricidio come lo straniero di Elea che confuta Parmenide nel Sofista di Platone[1].
Riconosco la grandezza di Dante. Quello che mi piace di lui sopra tutto è la potenza espressiva. Chi vuole scrivere con efficacia deve sfogliare la sua Commedia con mano diurna e anche notturna, come suggerisce Orazio a proposito degli exemplaria graeca[2].
Questo vale anche per Dante.
 
Le sue parole sono immagini perspicue: si fanno vedere con evidenza e con forza. Questo è scrivere bene e posso dirlo senza riserve di pochi altri poeti. Tra questi  c’è Virgilio autore di chiarezza translucida e di suono più dolce.
Eppure ai due sommi scrittori, il maestro latino e l’allievo italiano, ho l’ardire di muovere critiche sul piano del contenuto
 
Virgilio è asservito ai suoi protettori, a partire da Augusto di cui è il panegirista, e celebra la pietas di un uomo di fatto spietato come aveva già notato Ovidio.
 
Nel proemio dell'Eneide  Virgilio domanda con meraviglia:"Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,/quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?" (vv, 8-11), o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a passare per tante peripezie, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
 Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine:  dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più spesso delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta  aggiunge Enea al duetto dei seduttori  perfidi,  il fallax Iaso  (Ars, III, 33) e Teseo: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
In A midsummer-night’s dream Hermia accoglie questa interpretazione di Enea e lo menziona come amante infido: “when the false Troyan under sail was seen” (I, 1), quando il Troiano falso fu visto alzare la vela.
 
 
Dante è un dogmatico. Non presenta quasi mai i fatti in maniera problematica e se pure personalmente e scusandosi umilmente lo fa, poi chiede lumi e  dogmi ai suoi maestri autorevoli e autoritari.
A me tale dogmatismo autoritario e spesso superstizioso venne in mente per contrasto già al liceo studiando Lucrezio che più di dieci secoli prima aveva denunciato quali malattie dello spirito o strumenti di sopraffazione la menzogna delle pene infernali.
Nel III libro del De rerum natura il poeta afferma che i tormenti  presunti infernali  di fatto sono qui sulla terra
Tantalo rappresenta la paura degli dèi, Tizio significa la sofferenza amorosa, Sisifo l’ambizione del potere, le Danaidi l’insaziabilità.
La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita (III, 1023), qui diventa infernale la vita degli stolti.
 
Su Lucrezio sentiamo infine Nietzsche
“Si legga Lucrezio, per capire che cosa ha combattuto Epicuro: non il paganesimo, ma il “cristianesimo”, intendo dire la corruzione delle anime per mezzo dei concetti di colpa, pena e immortalità.-Egli combatteva i culti sotterranei, l’intero cristianesimo latente (…) Ed Epicuro avrebbe vinto (…) in quella apparve Paolo (…) il cristianesimo come formula per superare-e per assommare-i culti sotterranei d’ogni sorta, quelli di Osiride, della gran Madre, di Mitra, per esempio: in questa intuizione sta il genio di Paolo (…) la croce quale segno di riconoscimento per la più sotterranea congiura mai esistita-contro salute, bellezza, costituzione bennata, coraggio, spirito, bontà dell’anima, contro la vita medesima[3]”.  
Bologna 25 marzo 2021 ore 18, 19 giovanni ghiselli
p. s
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[1] Nel Sofista di  Platone lo straniero di Elea chiede a Teeteto di non credere che  sia diventato quasi un parricida  (241d) se dovrà sostenere, contro il padre Parmenide, che ciò che non è, in un certo senso, è esso pure, e ciò che è, a sua volta in un certo senso non è.Il senso è che il genere dell’essere  si specifica con il genere del non essere.
 
 
[2] Il poeta di Venosa nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
 

[3] F. Nietzsche, L’Anticristo (del 1895) passim.

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