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Come la Medea di Euripide anche quella di Seneca afferma la propria identità contro tutti.
Nella tragedia latina la nipote del Sole si attribuisce una dimensione grandiosa, addirittura cosmica.
La nutrice le fa notare: "Abiere Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi" (vv. 164-165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente.
A queste parole la donna abbandonata ribatte: "Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque et ignes et deos et fulmina " (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
Altrettanto il Giulio Cesare di Shakespeare che non teme Cassio anche se Cassio è da temere: I rather tell thee what is feared- than I fear; for always I am Caesar (Giulio Cesare, I, 2, 210-211), io dico quello che è temuto piuttosto che quello che dico io , dato che sono sempre Cesare
Anche Antonio cerca di conservare la propria identità: “Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche...Antonio dice "Sono ancora Antonio " e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[1]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest[2] ?"[3].
I am Antony yet " (Shakespeare, Antonio e Cleopatra III, 13, 92.)
Lo dice a Tyreus mandato da Ottaviano per chiedere a Cleopatra di abbandonare Antonio alla sua sorte disgraziata.
La difesa dell'identità a tutti i costi assimila Medea agli eroi omerici, che non cedono, e a quelli sofoclei: preferiscono tutti morire piuttosto che piegarsi alla pressione della norma.
L'autopossesso è l'unico punto fermo nei periodi e nei momenti critici:"Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi meus sum" (Seneca, Ep. 62, 1), sono libero, Lucilio, sono libero, e dovunque mi trovi sono padrone di me stesso.
Un’altra Epistola si chiude con queste parole: "Qui se habet nihil perdidit: sed quoto cuique habere se contigit? Vale" ( 42, 10), chi possiede se stesso non ha perduto nulla ma a quanto pochi tocca questo possesso! Stammi bene.
Nella Praefatio al III libro delle Naturales quaestiones Seneca afferma che la vittoria più grande di tutte e quella sui vizi, quindi aggiunge:"innumerabiles sunt qui populos, qui urbes habuerunt in potestate, paucissimi qui se" (10), sono innumerevoli quelli che tennero in loro potere popoli e città, pochissimi quelli che se stessi.
La libertà assoluta è questa:"non homines timere, non deos; nec turpia velle nec nimia; in se ipsum habere maximam potestatem: inestimabile bonum est suum fieri" (Ep. 75, 18), non temere gli uomini né gli dèi; non volere cose turpi né eccessive; avere il pieno dominio su di sé: è un bene inestimabile appartenere a se stessi.
Si può applicare a tali personaggi questa affermazione della Zambrano:"Vivere nell'identità significa essere al riparo dall'inferno del vedersi nell'altro e di essere l'altro che imita l'uno (…) Dalla mancata identità della vita umana sorge la visione frammentaria, incompleta, distorta"[4].
Non trovare la propria identità significa assumerne una gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla massa. Medea è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi, è fiera della sua diversità. Per lei è inconcepibile che ci sia gente pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero, per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio"[5].
E' con la difesa dell'identità, anche se criminale, che Medea evita l'orrore di essere canzonata e di sentirsi al di sotto di se stessa. Così fa Achille che sceglie la vita breve e gloriosa dicendo : "ouj lhvxw "( Iliade , XIX, 423), non cederò, in risposta alla predizione di morte del cavallo fatato Xanto.
Così fanno anche Antigone e l'Elettra di Sofocle:"ejgw; me;n ou\n oujk a[n pot' …touvtoi" uJpekavqoimi[6]" ( Elettra, v. 359 e v. 361), io certo non potrei piegarmi a questi. La sorella Crisotemi viceversa vorrebbe indurla a cedere ai forti (toi'" kratou'si d'' eijkaqei'n, v. 396).
Compiendo il delitto più atroce questa donna pensa di diventare quello che è:"Medea " la chiama la nutrice; ed ella risponde "fiam " (Seneca, Medea, v. 171), lo diventerò.
"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[7].
Questo vuole l'imperatore Adriano della Yourcenar:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[8].
Il motivo del Medea superest (v. 166) rinnovato da questo fiam (171) è quasi un Leitmotiv nella Médée di Anouilh (del 1953):"Je me retrouve…C'est moi, c'est Médée…je suis redevenue Médée…je suis Médée[9] "(ben 5 volte…); e ancora, alle articolate perplessità della nutrice, Medea risponde sempre epigraficamente."Mais qu' est-ce que tu veux dans cette i^le ennemie? Colchos me^me tu est chassée. Et Jason nous laisse aussi maintenant. Que te reste-t'il donc?:: Moi [10] Si vedano anche:"c'est maintenant Médée qu'il faut e^tre toime^me"; e" est…je suis Médée, enfin, pour toujours[11]"[12].
Medea è pure una donna insanguinata, e anche lei potrebbe dire le parole di Macbeth: "io sono andato tanto oltre nel sangue che, se non volessi andare avanti nel guado, tornare indietro per me sarebbe rischioso quanto procedere" (III, 5).
Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”[13].
Quando è che l’uomo smette di essere una cosa gradevole? Quando non assomiglia a se stesso. Sconcio, scoveniente in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~, oggetto neutro non somigliante, non somigliante a se stesso.
"Quando è privo di ogni charis , l'essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte….Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si dice aeikizein , rendere aeikes o aeikelios , non simile"[14].
Torna ancora a proposito un'affermazione di Iacopo Ortis nutrito da Plutarco, il biografo degli eroi:"io mi reputo meno brutto degli altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch'io mi sia, ho la generosità, o dì pure la sfrontatezza, di presentarmi nudo, e quasi quasi come sono uscito dalle mani della Natura[15]".
In conclusione La Medea di Euripide alla fine trionfa poiché accetta del tutto quella sua diversità della quale in un primo tempo aveva solo preso coscienza:"h\ polla; polloi'" eijmi diavforo" brotw'n" (v. 579), davvero in molte cose io sono diversa da molti. Sembra che la donna barbara abbia infine attuato il precetto che costituisce "La somma di tutto il pensiero educativo di Pindaro"[16]: "gevnoio oi'Jo" ejssiv" (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
Bologna 18 febbraio 2021, ore 19, 27
giovanni ghiselli
p. s
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[1] Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580-1625).
[2] Seneca, Medea, v. 166.
[3]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , p. 800..
[4] L'uomo e il divino , pp. 268-269.
[5]E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea , p. 68.
[6] Ottativo aoristo secondo di uJpeivkw, "cedo".
[7] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[8] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, pp. 84-85.
[9] Io mi ritrovo…sono io, sono Medea…sono ridiventata Medea
[10] "Ma che puoi tu in quest'isola nemica? Colco è lontana e anche da Colco tu sei cacciata. E Giasone pure ci lascia, ora. Che ti resta dunque?:: Me stessa!"
[11] Ecco, è adesso che devi essere te stessa…Io sono Medea, infine, per sempre.
[12]F Citti, C. Neri, Seneca nel Novecento , p. 104.
[13] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 198 e p 199.
[14]J. P. Vernant, Tra mito e politica , pp. 210-211.
[15] U. Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis ,11 dicembre, 1797.
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