L’indomani mattina ripartii di buon'ora. Giunsi presto ad Atene e non mi ci fermai: era troppo grande, chiassosa di empi mercati e rumorosa di motori dal fumo profano per potermi raccogliere e pregare gli dèi.
Quindi mi misi sulla strada che porta a Corinto. Feci sosta però per pregare nella piccola Eleusi. Demetra vi aveva fondato i sui sacri misteri quando cercava Kore, la figlia ragazza rapita dalla brama smodata dello zio signore dell’Ade, il sovrano del regno dei morti. Anche io cercavo una giovane donna che desse uno scopo alla mia vita randagia. Al tramonto del sole arrivai sul canale. Ero stanco e sporco di nuovo. Chiesi una camera in un motel che sorge subito dopo il ponte, sulla destra per chi viene da Atene. Ma il dio scuotiterra mi aveva tolto il favore: non c’era posto lì né in tutta Corinto, mi dissero.
Sconsolato pensai: “gli dèi mi dicono che devo penare quanto Demetra per trovare la kore”.
Dopo avere mangiato un panino con del fomaggio sfatto dal caldo nel self service del grande motel e avere guardato a lungo la televisione per mancanza di alloggio, andai a sedermi su una poltrona dell’atrio aspettando l’aurora per mettermi in viaggio. Mancavano diverse putride ore. Trascorsi una notte insonne e con pena, tormentato da punture continue di zanzare, mosconi e altri insetti assillanti a me sconosciuti
Appena il cielo schiarì, ripresi la via dirigendo la bici verso l’antico teatro di Epidauro. Credevo che fosse vicino e che vi sarei arrivato in un paio d’ore. Invece ce ne vollero cinque o sei, non ricordo bene. In effetti i chilometri non sono più di cinquanta ma il sonno mi fece sbagliare strada e mi fuorviò su salite impervie, infuocate, deserte. Oltre che assonnato e sporco ero assetato e ostacolato dal vento che mi gettava polvere aguzza negli occhi dai quali gocciava un umore giallastro, denso, appiccicoso.
Per giunta, a un tratto scoppiò un tubolare: non caddi ma per sosttiuirlo mi sporcai ulteriormente buona parte del corpo e del viso con l’atra sugna della catena e con il masticione rossiccio, tenace.
Poi ripresi a pedalare.
Ogni volta che concludevo una discesa di quei saliscendi e pulendomi gli occhi con le nocche vedevo iniziare una nuova, ripida ascesa, dovevo darmi ordini perentori, duri spietati: “Avanti-gridavo- non puoi fermarti, anche se è una fatica tremenda. Devi acuistare meriti presso gli dèi se vuoi salvarti la vita. Devi forzare il corpo sfinito, carente di tutto, costringerlo seguire lo spirito bisognoso di ascesi”. Arrivai a recitare, un verso e mezzo degli Eraclidi di Euripide: “-to; ga;r qanei'n-kakw'n mevgiston favrmakon nomivzetai (595-596). Certo, per scaramanzia, come quando otto anni prima nel collegio di Debecen, mentre spengevo la luce a notte fonda, dicevo ad alta voce: “Domani mi uccido!” per sentire i miei contubernali che reagivano ordinandomi di farlo subito in modo da lasciarli dormire. Reazione che mi metteva di buon umore più di una buona notte insignificante.
In questo frangente assetato e desolato invece dovetti reagire da solo, con lo spirito mio, e alzai la voce nel deserto, imitando l’onesto Giovanni da cui traggo il nome, seppure con tutt’altre parole: “No, il farmaco mio sarà una bella ragazza. Avanti, sbrigati, ché prima per lo meno devi lavarti, mangiare e domire”.
Bologna 4 marzo 2021 ore 20 e otto minuti
giovanni ghiselli
p. s
E’ ora di andare a correre. Devo guadagnarmi la cena. La corsa sarà il suo condimento
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