giovedì 25 marzo 2021

Viaggio in Grecia, 1981. Capitolo XII. La sera e la notte di Patrasso

Patrasso
Sbarcati a Patrasso di sera, prendemmo una camera per la notte, poi andammo a mangiare un’insalata greca con un poco di pane e mezzo litro di retzina in un’osteria. Ifigenia si mise in posa anche lì. Da borghesuccia qual era si atteggiava a gran signora fremente di sdegno per il locale modesto. In realtà un posto adatto ai miei mezzi. Un ubriaco ghignava osservando l’assurda, pomposa alterigia della ragazza.

Mi venne in mente un’altra mia compagna di viaggio che una sera a Patrasso, al ritorno da Delfi nel 1989, fece una scenata per la ragione opposta: l’avevo portata la domenica sera nell’unico locale aperto dove i prezzi erano leggermente più alti che nelle bettole. Non avevamo scelta perché il traghetto per Ancona partiva a mezzanotte con il self service chiuso.

Avevamo pedalato tutto il giorno, digiuni, ed era necessario mangiare.

Ma quella strillò che io sprecavo il denaro. “Si tratta solo del mio”, rispose. “Ora mi rinfacci anche le porcherie che mi fai mangiare in questo postaccio esoso oltre che lurido?”, gridò. Era vegetariana per giunta.

 Dopo le estati di Debrecen, potendo fare  i confronti, ho pensato che le donne italiane sono le meno simpatiche del mondo, siccome vengono viziate e maleducate da uomini imbecilli che si asserviscono ai loro vezzi e capricci. Oppure convivono con dei mascalzoni che le maltrattano e vengono riempite di botte e rancore. Quando non le ammazzano addiittura.

Le vittime vengono indicate come sante eroine, invece di insegnare alle ragazze a schivare i farabutti e da quali segni si riconoscono. Le femministe peggiori soffiano sulle fiamme infernali dell’odio tra i sessi rinfocolando l’incomprensione e le sue conseguenze. Gli  uomini opportunisti o imbecilli le assecondano scodinzolando.

Immagino che a queste parole seguiranno biasimi e accuse nei miei confronti. Ma come l’eroina Antigone so di essere armonizzato con quelli cui devo piacere.

 

Ora però torniamo all’agosto del 1981. Quando la cena frugale fu consumata e Ifigenia ebbe teminato la sua particina da attrice da avanspettacolo, tornammo nell’albergo da due soldi e ci stendemmo abbastanza distanti nel grande letto guardando il soffitto  e i fasci di luce intermittenti che  provenivano dal traffico della strada. Cercavo di farla parlare rivolgendole domande dirette, ma quella ribatteva con astio nervoso o con accuse offensive che mi inducevano a troncare il discorso. Il solito  capo di accusa è che l’avevo prima illusa con una simulata bontà, quindi delusa con la mia vera natura egoista e narcisista, sempre teso alla supremazia pur essendo un pezzente.

“Se non fossi stato bravo a scuola” replicai-“fin da bambino mi avrebbero schiacciato come uno scarafaggio. E se non mi avessero aiutato le donne di casa grazie ai miei successi scolastici ora vivrei sotto un ponte perché con il mio stipendio non potrei pagare l’affitto, comprare i libri, andare al cinema, a teatro  e mangiare.

 Voi donne non perdonate l’insuccesso dell’uomo e in fondo avete ragione. Allora io devo impiegare tutte  le forze che ho per primeggiare sempre. So che se non piaccio a me stesso, se  non mi amo per primo, tanto meno potrebbero amarmi gli altri”.

“Amati da solo dunque: io non posso amare un uomo come sei tu”

“Come sarei secondo te?”

“Immaturo, vanesio, incapace di amare. Di te non mi fido”

“C’è del vero” pensai-“ io mi sono meritata questa sfiducia, ma lei, poveretta, quali crimini ha commesso per ricevere tale castigo? Da giovane donna entusiasta, nel volgere di poche stagioni si è capovolta in un’istriona aggressiva, calcolatrice, bugiarda. Ora è molto infelice: non ha perduto fiducia soltanto nella mia persona oramai irrilevante per lei, ma non si fida più di se stessa, dell’amore, della vita”.

Questo pensiero però non potei manifestarglielo neppure in maniera coperta: non l’avrebbe capito e avrebbe fatto una scenata tremenda. Forse non sarebbe più venuta a Delfi. Invece, se il dio ci favoriva con un buon vento da ovest, la sera del giorno seguente saremmo già stati in grado di vedere la luce del santuario annidato sul pendio occidentale del Parnaso.

Pregare insieme sull’ombelico del mondo forse ci avrebbe schiarito la mente torbida di pensieri cupi e angosciosi.

Però pregare Apollo provando rancore per la donna distesa con il suo povero fianco mortale nel letto dove tardavo a prendere sonno, sarebbe stata una preghiera nera.

Sicché dissi: “Buona notte Ifigenia. Posso avere sbagliato. Ma ora ho capito, mi hai fatto capire. Non ho mai ripetuto lo stesso fallo. Se mi dai un’altra possibilità, non fallisco”

“Mi dispiace gianni. L’amore quando cade si sporca e non si raccatta, non si riscatta. Buona notte”.

Ricordava un verso di Eschilo: in questo almeno le ero servito.

“Buona notte Ifigenia. Prima di domire però ti dico un’ultima cosa. Non pensare male quando mi vedi prendere appunti. Tu sei la mia Musa: dunque non sospettare che scriva sempre male di te”.

Non dissi “lo farò ora sì ora no”, ma lei capì il contenuto latente nella reticenza.

Infatti non rispose e volse la faccia anch’essa mortale mortale verso il muro, come mastro don Gesualdo malato a morte.

Temetti che non sarebbe mai arrivata sull’ombelico del mondo: se lungo la costa settentrionale del golfo di Corinto da attraversare con un battello perché il ponte ancora non c’era, il vento fosse stato contrario inasprendo le parti in ascesa sui saliscendi continui da Antirrio a Itea, Ifigenia forse non ce l’avrebbe fatta a giungere sull’ombelico del mondo: allora il nostro viaggio nell’Ellade sarebbe stato soltanto un inutile, assurdo massacro mentale se non anche fisico.

 

Bologna 25 marzo 2021, 16, 40

giovanni ghiselli


p. s.

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