Epidauro |
Il luogo ne è costellato per via del festival estivo. La locandiera, o fantesca che fosse, interpellata e andata a informarsi, tardava a tornare. Forse voleva darsi importanza come il portiere della prima notte di Debrecen, o sospettava un accattonaggio, dato il mio aspetto conciato male. Aspettavo il suo ritorno e la risposta con il terrore che non fosse ospitale: quasi una sentenza di morte. Passavano atrocemente i minuti e oramai deliravo. Gli dèi avevano ridotto il mio corpo a uno straccio sottoponendolo a durissime prove, debilitandolo con il sonno, la fame, la sete, il sudiciume, e dopo tanta tribolazione sentivo sia la sofferenza fisica sia quella non meno grave della perdita del bene dell’intelletto. Non capivo più niente: non accettavo il mio destino e diventavo empio verso gli dèi senza tenere conto che spesso mettono in croce proprio quelli che amano. Oltre tutto temevo di perdere un occhio la cui sanie giallastra insudiciava la lente a contatto e mi orbava di metà della visione del mondo. Vedevo solo la parte più brutta: montagne di spazzatura stipata dentro i bidoni e accumulata fuori, un po’ dappertutto.
Finalmente la donna tornò con la chiave dell’agognata camera dotata di bagno per giuunta, la salvezza del corpo e della mente. Per toglierle ogni sospetto pagai immediatamente
Mi lavai e dormìi fino a tarda sera. Al risveglio ero tornato in me.
Mi sentivo bene e ringraziai gli dèi di avere annientato la montagna di stanchezza che gravandomi sopra il cervello con un carico più pesante delle rupi dell’Etna, aveva oscurato la vista tanto fisica quanto mentale e sconvolto i pensieri tutti. Mi alzai rinfrancato e giurai che avrei scalato con la bicicletta quel vulcano gigante nell’isola grande, bella quanto il Peloponneso, quindi entrai di nuovo nel bagno che avevo allagato facendo la doccia.
Mi vidi riflesso in uno specchio murale e riconobbi la mia forma migliore: quella dei diciotto anni persa poco dopo e recuperata sui venticinque, nell’estate del 1970.
Nell’agosto del ’ 78 ne avevo già quasi trentaquattro. Ammiravo la mia snellezza muscolosa e mi dissi: “Hai ripreso con mani d’acciaio l’aspetto piacente e la fierezza mentale che ti si addicono. In questi anni non ti sono mancati i successi. Con venti mesi di studio sei diventato uno degli insegnanti più egregi, a detta degli studenti, del liceo classico Marco Minghetti. Adesso meriti il premio, la borsa di studio costituita dalla femmina umana più bella di Bologna”. Ne ero convinto. Ringrazia ciascuno degli dèi del mio pantheon con una orazione piccola ma speciale, quindi andai a vedere il teatro che a dire il vero non mi commosse. Forse presentivo che la giovane collega incontrata a scuola in autunno, dico l’auspicata e meritatatissima borsa di studio, nel giugno del 1981 mi avrebbe lasciato per passare una notte con un attore molto famoso.
Crocifisso di nuovo per il mio
bene. Ero maturato dell’altro e la mattina seguente arrivai sulla Futa in
bicicletta.
Giunto al cimitero di guerra mi dissi: “sarà un’altra provvida sventura”. Quindi, per darmi altro conforto, aggiunsi: “marcet sine adversario virtus” [1]. Poi, a dire il vero, l’avversario era degno di me: era un istrione già mezzo vecchio ma bravo.
Ma soprattutto, l'Eros tra me e quella donna era diventato arrythmos: avevamo perduto la concordia del ritmo.
Nell’agosto del 1978, quel quindici agosto, non prevedevo invece che a Epidauro sarei tornato più di una volta in bicicletta con gli amici più buoni, più intelligenti e cari: Maddalena, Fulvio e Alessandro, per assistere alle rappresentazioni dei drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane nel teatro greco.
Lo studio del dramma antico, le traduzioni delle tragedie e i commenti scritti per diversi editori, le conferenze e lezioni tenute in molti luoghi d’Italia sarebbe stato il mio opus maximum nel campo scolastico.
Per quanto riguarda gli aspetti e gli eventi della mia vita li avrei sistemati metodicamente in un ordine di progresso e di crescita.
Bologna 6 marzo 2021, ore 19, 34.
giovanni ghiselli
p. s.
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