lunedì 1 marzo 2021

Estate 1978. Capitolo II. La Grecia in bicicletta estate 1978

La piana di Maratona oggi
Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. I tre ceffi feroci. Agamennone e Ifigenia


La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide  e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo fondo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre  zolle nere a imbiancarsi di luce.

Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del  destino, quello che solo era il mio.

 

Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai suoni rumorosi e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali osceni per dare sfogo alle loro protese passioni. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.

 

Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era dato trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della dea casta:  Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzate le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo e pur seduttore di femmine umane, alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente nferocire dalla fame e da un addestramento omicida  sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di  carne e di sangue. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano zanne da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato da dietro. Giunto sul crinale della morte  correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe viventi costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.

 Pedalavo con tutta la forza coltivata  fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino,, sullo Stelvio da Bormio e da Prato, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imaparato  che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque.


Finalmente mi trassi in salvo dai morsi  dei tre maledetti ceffi bestiali, i cani infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte.

Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliorava il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano la partenza dall’Aulide. Ricordavo con memoria incorrotta, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo aveva chiesto al capo supremo.

Quindi mi identificavo con Agamennone cercando di cambiare il destino: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi padre . In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire al destino2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata.


giovanni ghiselli

 

 



1 Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).

2 Cfr. Eschilo,  Prometeo incatenato, 518

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