La vedevo correre nuda, veloce, e speravo che, perduta la testa, potesse tuttavia salvare il corpo splendente. Ma ecco che, invece, la carne delle braccia tornite, del florido seno, delle natiche belle, delle cosce lunghe e forti, comincia a liquefarsi, a gocciolare come grasso opaco e denso, che scivolando nel suolo lo impregna. In poco tempo la carne si riduce a misera buccia. Tutto l’aspetto della ragazza già bella si era ridotto a facies lurida. Dalle gocce del corpo però spuntavano piccole rose rosse sorrette da gambi diritti e sottili, umide di fresca rugiada, illuminate da un sole primaverile e mattutino che faceva ammirare la loro verginale bellezza.
Cercai di coglierne una per tenderla alla mia compagna così sciupata. Volevo consolarla col dirle: tu sei simile a questa. Ma non riuscivo a spezzare il gambo che era probabilmente di ferro. Intanto Ifigenia, diventata uno scheletro si era fermata in mezzo alla vegetazione viva e variopinta nata dalla sua carne. Finalmente rivolse il teschio dalla mia parte e mi fissò con le orbite vuote manifestando rimpianto del corpo suo liquefatto e del nostro amore quando non era sconciato.
Mi avvicinai alla miseranda creatura per consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare i pochi capelli rimasti sul povero teschio, con la sinistra indicavo le rose immortali nate dal suo struggimento, ma Ifigenia, prima che potessi toccarla, tirò fuori una voce sepolcrale e disse: “gianni, non vedi che sono già morta?”
Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il signore di Delfi, l’ombelico del mondo dove eravamo diretti, mi aveva mandato un sogno dal contenuto latente facile da svelare: desideravo la morte di Ifigenia, magari come preludio di una sua palingenesi. Così com’era non potevo più sopportarla.
Posi gli occhiali sul naso e iniziai a trascrivere la visione notturna mentre l’amata e odiata compagna di viaggio dormiva ancora.
Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi le lenti a contatto che migliorano il mio aspetto: in quel tempo non mettermi davanti a lei al massimo di me stesso mi sembrava il peccato più brutto, peggiore della volgarità. Difatti come si sveglià e mi vide con gli occhi invetriati , capì che non stavo annotando riflessioni fauste e propizie.
Mi guardò un momento, poi inarcò le sopracciglia e disse che non dovevo illudemi: lei non avrebbe mai più fatto l’amore con me siccome le confondevo le idee”.
“Io sono rassegnato alla castità - risposi - già da bambino monachello mi fecero far”.
Bologna 22 marzo 2021 ore 21, 26 giovanni ghiselli
p. s.
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