domenica 21 marzo 2021

La presenza degli autori classici nelle tragedie di Shakespeare. IV. Sotto un re buono il popolo prospera, sotto uno cattivo crepa

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Sotto un re buono il popolo prospera, sotto uno cattivo crepa

Tovpo" della connessione organica tra il re e la sua terra, anzi tutto il suo mondo, cielo compreso.
 
Segue un elenco di citazioni, troppo lungo forse, nonostante abbia tralasciato diverse testimonianze. Ma ne ho lasciate molte nella speranza di interessare a questi testi, da Omero a Ibsen, chi mi legge. Nel presentare questi appunti parlandone durante li corso, li commenterò.  
 
Sappiamo da Omero, da Esiodo, da Solone da Isocrate, e pure dalle tragedie greche e da quelle di Seneca, che i costumi, le virtù, i vizi, e perfino le malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.
 
Un re buono, dice Ulisse nel XIX canto parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui"(Odissea, XIX, vv. 108-114).
 
L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo  uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244: "Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d& oujranovqen meg& ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi'jkoi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono".
 
L’ Eunomia (fr. 4 West) di Solone esprime in distici elegiaci la medesima concezione:"e ingiusta è la mente dei capi del popolo cui è destinato/ soffrire molti dolori in seguito alla gran prepotenza (u{brio" ejk megavlh")... Ma si arricchiscono fidando in opere ingiuste, non risparmiando le ricchezze sacre né alcuna di quelle/pubbliche, rubano per arraffare chi da una parte chi dall'altra/né osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,/che, pur mentre tace, conosce il passato e il presente,/e con il tempo in ogni caso arriva a far pagare....questi precetti l'animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi/ che il Malgoverno (Dusnomivh) procura moltissimi mali alla città/mentre il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata (Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei, v.32) /e spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:/leviga le asperità, fa cessare l'arroganza, oscura la prepotenza,/dissecca i fiori nascenti dell'accecamento,/raddrizza i giudizi tortuosi, mitiga le azioni/ superbe, fa cessare le opere della discordia,/e fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui/tutte le cose umane armonizzate e assennate"(vv. 7-8, 11-16, 30-39).
 
Nell' Encomio di Elena Isocrate chiama i despoti che cercano di dominare con la forza sui concittadini, non capi ma pesti delle città (oujk a[rconta" ajlla; noshvmata tw'n povlewn,  34).
 
Il  re negativo, cattivo e malato dunque contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma.
Nell’Antigone di Sofocle, Tiresia dice al re di Tebe Creonte:  “ E la città è ammalata (nosei` povli")  per la tua disposizione mentale (th`" sh`" ejk frenov",  v. 1015)  ) .
Nell'Edipo re  il prptagonista eponimo  scopre di essere il miasma che ha contaminato la città appestandola e deve allontanarsi da Tebe.  
Da re si è capovolto in farmakov", una specie di medicina umana.
 
Del resto questa idea che il benessere di un popolo dipenda dalla giustizia e pietà religiosa del re non è limitata ai soli autori greci:"Nella nozione omerica della regalità sopravvivono rappresentazioni che si ritrovano più o meno in altre società indoeuropee. Si tratta soprattutto dell'idea che il re è l'autore e il garante della prosperità del suo popolo, se segue le regole della giustizia e i comandi divini. Si legge nell'Odissea  (XIX 110 sgg.) questo elogio del buon re (...) Questo passo ha avuto nella letteratura classica una lunga discendenza; gli autori si sono compiaciuti ad opporre la felicità dei popoli governati secondo la giustizia alle calamità che nascono dalla menzogna e dal crimine. Ma non si tratta in questo caso di un luogo comune morale. In realtà il poeta esalta la virtù mistica e produttiva del re la cui funzione è quella di incrementare la fecondità intorno a sé, negli esseri e nella natura. Questa concezione si ritrova, molto più tardi, è vero, nella società germanica, attestata quasi negli stessi termini. Presso gli Scandinavi, il re assicura la prosperità per terra e per mare; il suo regno è caratterizzato dall'abbondanza dei prodotti naturali, dalla fecondità delle donne. Gli si chiede, secondo una formula consacrata, ar ok fridr ' l'abbondanza della pace', come ad Atena, durante le Bufonie, si sacrificava 'per la pace e la ricchezza'. Non si tratta di formule vane. Ammiano Marcellino ci dice che i Burgundi, dopo una disfatta o una calamità, mettevano a morte ritualmente il loro re, perché non aveva saputo far prosperare né dare successo al suo popolo"[1].
Anche i ragazzi sanno che il rex deve agire recte: infatti, quando giocano, dicono:  sarai re se farai bene:  "at pueri ludentes  'Rex eris ' aiunt/ 'si recte facies" [2].
 Insomma il rex deve dirigere sulla retta via. Il re allora non può essere contorto.
Nemmeno la virtù può esserlo: “et haec recta est, flexuram non recipit” (Seneca, Ep. 71, 20), anche questa è diritta, non ammette piegatura.
 
Il re malato rende malato il suo popolo, la sua terra e perfino il cielo.
 
Diversamente dall'Edipo  di Sofocle che nel prologo della tragedia si addossa soltanto il dolore del suo popolo, quello di Seneca, fin dai primi versi, si  sobbarca tutte le colpe:"Fecimus coelum nocens" (v. 36),  io ho reso colpevole il cielo[3].
 
Un'eco di questa autodenuncia si trova nell'Amleto di Shakespeare, quando il re assassino del fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven" (III, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo. Poco dopo Amleto, parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria (III, 4).
 
Più avanti del resto Oedipus tirerà indietro la mano che ha indicato il colpevole in se stesso, e accuserà Creonte  di avere congiurato con Tiresia per togliergli il potere (vv. 666 e sgg.).
 
Il cielo avvelenato dai delitti umani può fornire a sua volta veleni per nuovi delitti: Medea non si accontenta dei malefici terreni:"Parva sunt-inquit-mala,/et vile telum est, ima quod tellus creat:/coelo petam venena. Iamiam tempus est/aliquid movere fraude vulgari altius " ( Seneca, Medea, vv. 691-694), sono piccoli malefici-dice- e vale poco l'arma che la bassa terra produce: al cielo chiederò i veleni. Oramai è già tempo di scuotere qualche cosa di più alto che un artificio volgare.
 
L'ambiente, cielo compreso, è stato contaminato dall'uomo empio, i valori forti (fas, fides, ius)  cadono, e non rimangono nemmeno nel cielo: nel Tieste di Seneca, Megera aizza l'ombra di Tantalo dicendo:" et fas et fides/iusque omne pereat. Non sit a vestris malis/immune coelum " (vv. 47-49), le norme divine e la lealtà e ogni diritto vadano in malora. Il cielo non sia immune dalle vostre malattie.
 
Nella Medea di Euripide, viceversa, il Coro delle donne corinzie lamenta la fuga del pudore dalla terra al cielo: “Se n'è andato il rispetto dei giuramenti-, né più il pudore (aijdwv") nell'Ellade grande rimane, ma in aria è volato” (vv. 439-440).
 
Anche Medea vuole abolire i valori forti di fas e pudor:fas omne cedat, abeat expulsus pudor” (Seneca, Medea, v. 900), ogni legge divina sparisca, se ne vada cacciato via il ritegno.
 
Nella Medea di Euripide il coro lamenta la fuga dell’aijdwv" dalla terra al cielo (vv. 339-340).
 
La nutrice di Fedra afferma che il pudor è incompatibile con il servizio al potere: “malus est minister regii imperii pudor” (Seneca, Fedra, v. 430), il pudore è un cattivo ministro del potere regio.
 
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Nel  Macbeth[4], un nobile scozzese, Lennox  preannuncia l’assassino del re quanto si dice:"some say the earth was feverous, and did shake" (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato. 
Poco dopo un altro nobleman of Scotland, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo (the heavens), quasi sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man's act), minaccia la sua scena sanguinosa (threaten his bloody stage), e il giorno è buio[5] come la notte.
Infatti, risponde l'old man:" 'Tis unnatural, Even like the deed that ' s done" (II, 4), è innaturale, come l'azione che è stata perpetrata.
 
La terra contaminata e desolata, la Scozia, è diventata tutta una tomba :"poor country…it cannot be called our mother, but our grave; where nothing, but who knows nothing, is once seen to smile; where sighs, and groans, and shrieks that rend the air, are made, not marked " ( Macbeth, IV, 3), povera terra!…non può essere chiamata nostra madre ma nostra tomba; dove niente, se non chi non conosce niente, si vede sorridere, dove sospiri e gemiti e grida che lacerano l'aria, sono emessi, ma nessuno ci fa caso. E'  il nobile Ross che parla.
 
Anche in La duchessa di Amalfi (del 1613) di John Webster il quale “was much possessed by death[6] viene affermato il principio della connessione organica tra il capo e la sua terra da Antonio, il maggiordomo e l'amore della duchessa, contrastato dai fratelli di lei:"Nel tentativo di ridurre all'ordine entrambi, lo Stato e il popolo suo, quel re assennato inizia l'opera fin dalla sua stessa casa e libera per prima cosa il suo palazzo reale dai sicofanti adulatori, da tutte le persone perverse e dissolute (…) da che ritiene giustamente che una corte principesca sia simile a una pubblica fonte dalla quale dovrebbero sgorgare pure,  stille d’argento, ma se avviene che un malaugurato caso ne intorbidi la sorgente, morte e malsania si diffondono per tutto il paese" (I, 1).
"Il gusto del sensazionale e dell'orrido è, nel Webster, preponderante"[7].
 
L'immagine della sorgente inquinata è ripresa da Ibsen in Un nemico del popolo[8], il dottor Stockmann che dice:"tutta la nostra vita spirituale è inquinata e marcia alla base. Non soltanto le Terme, no, è tutta la nostra bella società borghese che è costruita su una cloaca, su un pantano, sulla menzogna!" (IV). In questo caso è il potere della maggioranza che porta "lo scorbuto spirituale" poiché "la maggioranza ha la forza, sì, per nostra sciagura, ma non ha la ragione (…) è la minoranza, sono i pochi che hanno ragione!" 
 
E' tradizionale e molto antica dunque l'idea della connessione organica tra il capo e la comunità.
Erasmo da Rotterdam ripete questo locus nell'Elogio della follia[9]:" aliorum vitia neque perinde sentiri neque tam late manare; principem eo loco esse, ut si quid vel leviter ab honesto deflexerit, gravis protinus ad quam plurimos homines vitae pestis serpat" (55), i vizi degli altri né si sentono allo stesso modo né si diffondono così ampiamente; il principe si trova in tale posizione che se in qualche maniera perfino di poco egli si scosta dalla rettitudine, subito una grave peste della vita si espande su un numero enorme di persone. La vita del principe insomma è emblematica. 
 
La povli" di Edipo è la città malata per antonomasia: Dante chiama Pisa  "vituperio delle genti"[10] e "novella Tebe"[11] per la crudeltà della pena inflitta ai figli innocenti del conte Ugolino.
“C’è da domandarsi se tutto il resto del mondo possegga una sola città che abbia una preistoria così ricca e fatale come quella di Tebe”[12].
 
  Dante ripropone questa idea che il benessere di un popolo dipenda dalla giustizia e pietà religiosa delle guide e fa derivare la malvagità del mondo dal malgoverno di quelli che furono i "due soli":"Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta./Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,/due soli aver, che l'una e l'altra strada/facean vedere , e del mondo e di Deo./L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada/col pasturale, e l'un con l'altro inseme/per viva forza mal convien che vada"[13]. Spada e pastorale congiunti sono un aspetto di quella confusione che troveremo anche nell'incesto, nella peste e nella guerra civile.
 
 Nelle Historiae di Tacito c’è un popolo intero, quello iudaicus che infetta la terra egiziana con una pestilenza e per questo viene cacciato dal faraone: “Plurimi auctores consentiunt orta per Aegyptum tabe quae corpora foedaret, regem Bocchorim, adito Hammonis oraculo, remedium petentem, purgare regnum et id genus hominum, ut invisum deis, alias in terras avehere iussum” (5, 3, 1), moltissimi storici sostengono concordemente che, scoppiata attraverso l’Egitto una pestilenza che sconciava la popolazione, il re Boccori, recatosi all’oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ricevette l’ordine di purgare il regno e di deportare quella razza di uomini, in quanto odiosa agli dèi, in altre terre. Quindi l’autore spiega che Mosè introdusse tra loro  riti mai visti e contrari a quelli degli altri uomini: “Profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum concessa apud illos quae nobis incesta” (4, 1), empio è là tutto quello che da noi è sacro, e viceversa è lecito da loro quello che da noi è sacrilegio.
 
 
giovanni ghiselli





[1]Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee , pp. 304-305.
[2] Orazio, Epistulae  I, 1, 59-60.
[3] In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd  il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).
[4] 1605-1606.
[5] Cfr. Oedipus: Titan dubius (v. 1).
[6] T. S. Eliot, Whispers of immortality, v. 1,  fu molto ossessionato dalla morte
[7] C. Izzo, Storia della letteratura inglese, p. 439.
[8] Del 1882.
[9] Del 1510.
[10] Inferno, XXXIII, 79.
113 Inferno XXXIII, 89.
[12] . Jacob Burckhardt, Storia della civiltà greca (1902), vol II, p. 214.
[13]Purgatorio  XVI, 103-111.

2 commenti:

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