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stazione di Affi |
Poco più tardi, viaggiando verso
Bologna, l'accordo tra i demoni nostri si ruppe, senza una causa precisa; forse
perché uno dei due non è buono, oppure perché sono cattivi entrambi, in maniera
diversa per giunta; fatto sta che litigammo di nuovo, e i benefici di quel
pomeriggio fatato andarono in fumo.
Mentre guidavo, pensavo alle prossime
lezioni nella quarta ginnasio, con scarso entusiasmo invero; quindi, per
necessaria compensazione, meditavo sull'opera letteraria che avrei iniziato
presto: un dramma, o un romanzo con due
amanti tragicamente travagliati e ostacolati da iniquità sociali, nevrosi e
contraddizioni personali, ma alla fine trionfanti nel sole dell'Amore e della
Giustizia.
Mi compiacevo di tale disegno e di tanto
ottimismo. Bisognava però trovare le forme e antivedere in modo non vano
l'esito della nostra esperienza: in quale maniera avremmo dovuto stimolarci noi
due per arrivare allo scopo grandioso di spingere un popolo intero al bello
morale? La comes, da compagna di viaggio poco presente, sonnecchiava sebbene
non fosse tardi.
Di sua iniziativa non diceva parola, e,
quando le domandavo qualcosa, rispondeva, or sì or no, a monosillabi. Alla
lunga mi diede fastidio, e un poco alla volta i sentimenti amorosi si
dileguarono. Mi venne in mente un altro viaggio, fatto in tempi meno malsani:
allora la ragazza mi aveva raccontato che sua madre, durante le ore di guida
del marito sui lunghi percorsi autostradali, invece di aiutarlo a vincere il
sonno nemico parlando con lui, dormiva, o fingeva di farlo, poiché non aveva
niente da dirgli. La stessa scappatoia prendeva mia madre quando vedeva mio
padre, vago di ciance, protendere un braccio con gesto elocutorio. Al pensiero
che tale situazione parentale si ripetesse tra noi, mi venne l'angoscia. Volli
provare se questa fosse scaturita solo dagli antichi dolori miei, o se avesse
una causa nella realtà che stavo vivendo. Domandai a bassa voce: "Dormi
tesoro?"
"No - rispose con aria stanchissima
e pigra - ma ho tanto sonno".
"Ho sonno anche io - ribattei,
quasi polemicamente - ci facciamo compagnia per un poco?".
"No: ho troppo sonno. Ti prego,
lasciami dormire".
Non le chiesi altro; avevo già provato a
me stesso che la pena mia era stata causata dal solito suo atteggiamento
parassitario: se eravamo entrambi assonnati, non capivo perché io dovessi
sgobbare e lei dormire, o fingere di dormire. La necessaria Musa, davanti a me
si toglieva ancora le mutande odorose di spezie profumatissime generate dal
ventre suo, grazie a Gesù, però con me non voleva parlare più, poiché non mi
amava.
Questo pensiero, dopo le radiose
speranze del pomeriggio, mi rodeva di nuovo come un tarlo dentro il cervello. "E'
il suo egoismo colossale, schifoso, a guastarmi l'umore, a darmi l'angoscia, a
corrompere ogni gioia mia che non condivide, come non vuole collaborare a
niente di serio e impegnativo".
Ero pieno di risentimento. Alla stazione
Affi, lago di Garda sud , mi fermai per un caffé, senza invitarla. Quando fui
tornato ed ebbi ripreso a guidare, Ifigenia doveva avere capito qualche cosa del
mio stato d'animo, e preoccupata, per sé
naturalmente, alzò la testa e mi chiese: "Allora di cosa vuoi che
parliamo?"
"Del mio capolavoro", dissi
con tono secco e astioso. Poi tacqui.
Ma dopo qualche secondo, siccome la Musa
nemica non sembrava intenzionata a fare altre domande, aggiunsi una
provocazione che era anche una mezza dichiarazione di guerra.
"Voglio scrivere un'opera d'arte
sulla nostra storia; così quando, assai presto,
sarà finita del tutto ne resterà il
ricordo".
A questo punto la ragazza si svegliò
completamente e domandò irritata: "Dunque? Che cosa posso fare per te?"
Allora io, per bilanciare i toni della
conversazione che speravo continuasse almeno fino a Mantova est, con voce
addolcita risposi: "Tu potresti leggere gli appunti di questi ultimi due
anni, non sono molti, e sottolinearne, magari commentarne le parti degne di
entrare, rielaborate, nel nostro capolavoro".
Speravo in una risposta conciliante,
invece avevo scatenato anche il risentimento
suo, e il demone funesto della nostra competizione cattiva. Infatti rispose: "Se
avrò tempo, li leggerò dopo l’ esame di recitazione. Fino a tutto luglio non
posso: devo pensare ai compiti verso me stessa, prima di assecondare la tua
volontà di successo".
"Senti come ha imparato la parte
della Nora di Ibsen ", pensai [1].
"Ho capito", risposi, e non le
rivolsi più la parola. Mi ripugnava tanto parassitismo, il suo recitare
evidente e continuo, la volontà di sfruttamento di quel rospo velenoso
rivestito del corpo di Venere. Da me aveva appreso e preso tutto quanto le era
stato possibile, e in cambio non voleva darmi più niente. Eppure anche dai suoi
rifiuti potevo imparare, almeno finché la sofferenza del precipitare indietro,
nella brutalità del risentimento ferino, non fosse diventata inutilmente
deleteria.
Allora mi sarei fatto lasciare e avrei
cominciato a scrivere.
Arrivati a Bologna, la scaricai davanti
al cancello, senza aiutarla a portare i bagagli davanti alla porta del suo
appartamento: la salutai freddamente dall'automobile. Imparare soffrendo, sì;
ma farsi calpestare, no, nemmeno dall'aurea Afrodite. La odiavo. Tornai a casa
mia dove sentii di essere del tutto solo nel mondo.
Quando si è giovani fa una brutta
impressione, poi ci si abitua.
Alla mia età di oggi l’unico amore è
quello della sopravvivenza cum dignitate.
Non mi lamento.
[1] Cfr. Casa di bambola, ultima scena.