Per far passare il tempo necessario, mi incamminai dalla parte di Someda, sopra il rio San Pellegrino che scorre in fondo alla convalle.
Dall’altra parte che emerge dal cupo fondo percorso dal torrente c’e la strada del passo San Pellegrino che porta a Belluno. Da bambino, appena la zia Giulia me ne dava il permesso, camminavo in direzione del valico. Passavo davanti a una cisterna d'acqua che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un deposito di armi degli austriaci, i nemici degli Italiani come mi insegnavano i maestri dell’epoca posfascista , invece di parlarmi di Mozart, di Musil, di Freud, o almeno dell'ottima amministrazione asburgica nel Lombardo-Veneto. Giravo con un ramo in mano, impugnandolo come un fucile, che tuttavia non bastava per conquistare l'armeria sorvegliata da un manipolo di quegli odiosi soldati in divisa bianca; allora pensavo di farla saltare con delle mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera così vigliacca degli uomini, sebbene coloro fossero nemici, crudeli oppressori della mia patria , mi ripugnava.
Allora proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla strada di fronte, poco dopo Someda. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del presidio, uscito per vessare il paese italiano, magari per insegnare alle ragazze tutt’altro che la nìmodestia come mi aveva avvertito un prete durante la confessione. Dovevo superare il vuoto compreso tra le due pareti della stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone ripido e tetro, tutto ombreggiato da fitti rami di abeti. Arrivato in fondo, guadavo il torrente saltando sui sassi emergenti dall'acqua gelida e cupa nel pomeriggio inoltrato di fine agosto, quindi risalivo su per l'altro pendio, altrettanto scosceso ma soleggiato poiché volto a occidente e privo di alberi. Però c'era l'erba alta, dove potevano stare nascosti in agguato scorpioni e serpenti: aspidi, basilischi e altri dei quali non conoscevo i nomi ma li temevo letali. Tutto questo mi faceva paura, mi emozionava, salvandomi dalla noia della gran solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie che mi volevano sottomesso a qualsiasi forma di autorità.
Quando arrivavo in alto, osservavo la valle di Fassa. Facevo attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che sovrasta la malga Panna: appena aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa con il cimitero, dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi prima del tramonto, se no telefonava al soccorso alpino che rintracciava i bambini dispersi, e li salvava dalla morte per freddo o per lupi, ma li picchiava anche, e con mano pesante. Ero stato avvertito. Andavo comunque di fretta fino al fortino austriaco per farlo saltare in aria e liberare intanto i Moenesi dall’odiosa vessazione di quegli occupanti di un territorio italiano.
Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi deluso: invece di mitragliatrici e cannoni, nel prato antistante c'erano pacifici arnesi da contadino, tanto sterco di mucca, e un cartello con la scritta "Proprietà privata ". Ad ogni buon conto io lo minavo e fuggivo a gambe levate finché la strada era piana. Poi ripercorrevo le due pareti della convalle: una scivolando sull'erba, l'altra inerpicandomi tra le ombre del bosco e della sera, semiterrorizzato. Quando arrivavo all’albergo La Campagnola, la zia diceva: "Dove sei stato per conciarti in quella maniera? Quando ti metterai tranquillo come i bambini normali? Oramai le vacanze sono finite! Non sei ancora sazio di correre, scalmanarti, azzardare? Non sei mai stato prudente!" Per fortuna non aspettava che rispondessi, ma continuava a rimproverarmi per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né una bugia. Quando si era un po’ rabbonita, tornavamo a casa, in via Damiano Chiesa. In agosto, alle sette di sera, dalle finestre del tinello, se non c'erano nuvole, si vedeva ancora un poco di luce solare sulle rocce più alte. Era fredda e leggera, come se vi fosse stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a lungo che altrove resisteva sulla cima del Sassolungo, in fondo al Catinaccio, verso nord.
Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette infreddolite, era come fruire di un secondo tramonto. La luce trascolorante tardava a scomparire tutta, e mentre assumeva le tonalità più delicate, sembrava intenerire le aspre pietraie dove i palpiti estremi del dì indugiavano come bambini che non vogliono andare a dormire, o come vecchi renitenti a morire. Tali ricordi dei primi anni Cinquata rimuginavo in quel giorno di marzo del 1981 mentre camminavo sopra il rio San Pellegrino. Qualche ora più tardi sarei andato alla stazione di Trento, a prendere Ifigenia.
Bologna 2 giugno 2021 ore 19, 18
giovanni ghiselli
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