NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 1 ottobre 2021

La storia di Päivi intera

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La storia di Päivi 1. Prologo

 

Nel 1974, ottenuto il trasferimento a Bologna e concluso l’ultimo anno di insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, tornai a Debrecen dove la sera dell’Ismerkedési este[1] ebbi un’esperienza erotica poco significativa con una tedesca ventiduenne, Cornelia, una donna che cinque anni più tardi, nell’anno di Ifigenia, mi avrebbe detto frasi [2], piene di educazione attiva, tanto che mi avrebbero lasciato un segno più forte, profondo e positivo dell’insulsa, precipitosa avventura di quell’estate già allora lontana. Le parole belle danno luce al pensiero e alla vita.
Ma nel luglio del ‘74, due giorni dopo avere conosciuto Cornelia, una tedesca di Berlino est, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi piaceva di più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai persona di grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi un amore grande, tra i più significativi e denso di conseguenze in questa mia vita mortale, comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso ancora non definita bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Era finnica pure lei: la terza della serie iperborea. Era la persona di cui avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di pensieri miei. Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non senza bevute e mangiate, sebbene, almeno queste, smaltite con corse a piedi e scalate di montagne in bicicletta.

Arrivato all’età virile, sentivo l’esigenza di iniziare un’altra vita, più impegnativa, più mia. L’estrema delle mie finniche, l’ultima tra queste donne arrivate dall’ultima Tule[3], da psicologa brava qual era, mi rese manifesto questo sentire latente. Se sono diventato una persona desiderosa e capace di apprendere, se ora sono in grado di insegnare qualcosa a chi mi ascolta e a voi che mi leggete, lo devo in buona parte a quella donna. Oltre ai genitori che mi hanno dato la vita beninteso, e a me stesso che ho saputo valorizzarla, agli studenti che mi ascoltavano con attenzione .


L’estate del ’74 fu l’estrema e definitiva in cui amai una finnica a Debrecen, dopo averla vista e riconosciuta come simile a me, o creduta tale, nel grande cortile d’onore dell’Università. Con questa storia concludo dunque la trilogia finlandese.

 In maniera capovolta rispetto alla terza tragedia dell’Orestea di Eschilo però: nel finale ci sarà una metamorfosi negativa e l’Eumenide prima benefica e buona diventerà poi un’Erinni ostile, feroce.

 

[1] Festa della conoscenza

[2] Le racconterò in un capitolo successivo, se Dio vorrà.

[3] Cfr. Virgilio Georgica I, 30

 

La storia di Päivi 2

La studiosa seria che mi ha motivato a studiare sul serio


Anche con questa ragazza andavo a passeggiare nel bosco, tra le antiche querce giganti che ombreggiano i prati fioriti e nella radura del piccolo lago varcato dal ponticello di legno che lieto risuona; oppure ci recavamo nel centro della città sul tram numero uno che gira senza fretta sopra i binari circolanti tra l’università e la stazione, quindi tra la stazione e l’università, e passa in mezzo alle ombre fitte della foresta, poi circola nel corso assolato davanti all’Aranybika, dove ci fermavamo per bere una palinka all’albicocca, giallina, oppure una birra densa e amara, o un bicchiere di aspro sangue di toro di Eger. Talvolta non prendevamo il tram numero uno, l’unico tram, di colore giallo, ma salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci recavamo a Hortobágy attraverso la puszta polverosa, o fangosa, dove le oche protendevano il collo e giubilavano roche[4], e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il grugno ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a cercare in qualsiasi cibo una qualche gioia, o una parziale consolazione della loro voracità che mai sazia chiedeva sempre di riempire il vuoto interno. Come l’ingordigia di certi uomini. Tra loro c’era del resto un cucciolo carino: un porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora grazioso verso gli adulti . Ma sarebbe diventato come gli altri al pari di tanti bambini dai genitori entrambi obesi.
Nella csárda gli zigani dai volti gialli come limoni suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte
[5]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui non conoscevo l’idioma agglutinante privo di radici a noi note. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov
[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe cresciuta negli anni fino a perfezionarsi grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.

Giunto sul limitare della trentina inquietante
[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da osceno e ributtante quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto.

Caivrete gunai'keς, tanti saluti donne! Vi ho mancato. Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi. Se non è morta, arrivata a 71 anni, si chiama ancora così.

 Era bello e utile conversare con lei, era bello assai e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo, e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi compiva ventiquattro anni in quei giorni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä. Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha gettato un fascio del suo faro luminoso sul cammino che dovevo affrontare al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo. Dovevo attraversare il sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."
[8].

La disciplina che ho dovuto impormi, non senza fatica grande, con il volgere delle stagioni è diventata una necessità voluta e piacevole.

 

 

 4] Cfr. G. Gozzano, La differenza, v. 4.

[5] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente in questo blog

[6] Riporto qui in nota alcune parole di Oblomov all’amico Stolz: "Sai, Andrej, nella mia vita nessun fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende, poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi, sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera. No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine; contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo, senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in sciocchezze la vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p. 240.

7 Ed ecco la trentina-inquietante, torbida d’istinti-moribondi (Guido Gozzano, I colloqui, vv. 9-11.

8 Antico Testamento, Siracide, La sapienza educatrice

 

La storia di Päivi 3. La conversione dal sapere alla sapienza

 

Fino a Päivi, con i libri avevo avuto un rapporto di sottomissione, senza simpatia, se avevo dovuto studiarli a memoria per degli esami da sostenere davanti a inquisitori spesso privi di visione d’insieme della materia, non poche volte cooptati e sussunti per vari motivi estranei alle capacità e a meriti veri; oppure con gli autori avevo avuto relazioni simpatiche ma prive di metodo, cioè di una via (ojdov") che procedesse verso una meta. Avevo avuto il trasferimento dalle medie alle superiori per l’autunno seguente.

 Dovevo sottomettermi a lunghi orari di studio, ma dopo Päivi l’avrei anche voluto con forza, per trarre dalle letture quanto poteva servire a migliorare me stesso, a potenziare la natura mia e dei discepoli miei. Lo studio se non potenzia la natura non è cultura. Questo mi ha insegnato Päivi, la luminosa, la Fedra, durante quel mese, passato il quale del resto diventerà una Medea, quando il parto travagliava le viscere sue, e anche i nostri cervelli, come vedremo nell’esito tragico della vicenda. Resta comunque il fatto che l’ultima delle Finniche mie con la sua intelligenza seppe chiarirmi il caos da dove pullulavano ancora angosce deformi, antichi dolori, desideri cattivi, soffocati ma sempre malignamente attivi, bramosi di ostacolare il mio progresso verso la felicità. Dopo le belle esperienze con Elena e Kaisa ero regredito a relazioni ordinarie e volevo purificarmi, diventare quello che sono davvero, trovare il coraggio di apprezzare e valorizzare la mia estraneità dalle mode dal “si deve pensare, dire e fare così”. Nell’insegnamento non dovevo fare quello che avevano fatto a me, fatto di me, un disgraziato e un ignorante.

Päivi autorizzò queste mie aspirazioni e mi avviò su questa strada indicandomi un metodo appunto.

 

La storia di Päivi 4. Decadenza e morte dell’ethos politico dei primi anni Settanta.

 

La vidi nell’ombroso cortile dell’Università il giorno del ricevimento del rettore, giovedì 25 luglio, verso le quattro del pomeriggio.
Nell’estate del ’74 Fulvio non c’era poiché stava vivendo la sua esperienza di marito e di padre a Parma da dove poco poteva muoversi; Claudio non c’era siccome in maggio l’avevano messo in galera, a San Vittore, incolpato di infamie su infamie; Luigino non c’era poiché aveva seguito su un traghetto, diretto chissà dove, un mozzo turco - cipriota, l’uomo e l’amore della sua vita.
Invece erano tornati là, nella puszta con me, oramai per la decima volta, Danilo, Ezio, Alfredo, Fausto, Silvano, e Bruno già sacro alla morte vicina [1
] Ora siamo nell’agosto del 2021 e nel frattempo sono morti anche Alfredo Silvano e Fulvio il più caro di tutti.

Quel pomeriggio di luglio, noi Italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane come i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre in rilievo. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri ingrassati; insomma noi eravamo ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen, così ci salutò il rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è proprio vero che noi mortali siamo come le foglie [2].


Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale, presentava personaggi ancora giovani, eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione. Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi, e nel frattempo il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a commercio, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Da cinque anni oramai le stragi facevano i loro massacri di vite umane e di simpatia, di fiducia tra gli umani.

Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali. 

 

1 Cfr. Virgilio, Eneide I, 712

2 Cfr. Iliade VI, 146

 

La storia di Päivi 5 . Il coro dei reduci da una guerra persa. L’apparizione


Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, Antonella, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia.

Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire.


Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante. Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva.

La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio, come la voglio!”.

Duravo fatica a trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a suggere, a proporre la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei. 
Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.

 

La storia di Päivi. Capitolo 6. L’approccio meditato

 

Presi un bicchiere, ci versai della birra chiara, poi mi appoggiai con la schiena al muro di sostegno della scalea per cui si scende nel megaron e di lì si risale, vincitori o sconfitti. Quindi diedi inizio alla prova guardandola intensamente e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti interiori dai quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non mi ingannavo nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al mio, anche se, forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione con lei, che a quello di allora.

Sebbene la ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda intorno per farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi notasse e si incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur sempre una femmina umana giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva di anelli quali ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e magari pure desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io del resto mi sentivo, e forse anche ero, nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del resto non ancora compiuti, non mi avevano incanutito nemmeno un poco, né spelacchiato, né ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano dato al mio viso molto abbronzato e un poco segnato da rughe, leggeri solchi seminati di vita dal Sole, il dio che nutre appunto la vita, e un’espressione consapevole che potenziava la forza attrattiva dell’insieme.

In quel pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona riuscita del mio intento, un poco ricordando i successi[1] del ’71[2] e del ’72[3] in circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di preciso da dire, da chiedere e offrire, a una donna probabilmente dotata e ricca di anima, quale pareva quella creatura dai capelli lunghi, dall’aria intelligente, vestita di velluto purpureo. Allora non sapevo che la porpora può essere sinistramente ominosa e annunciare la morte vicina[4].

 

Non lo immaginavo neppure, e aspettavo agognando il momento opportuno, l’occasione che mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul campo fiorente del suo seno, del suo ombelico che identificavo già con quello del mondo. Volevo andare a pregare pure su quello come avevo fatto a Delfi, dove più di una volta Dio mi aveva esaudito.

 

“Dio, come mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che possa piacere a lei. Se mi dai quella donna, Dio, e se è come appare, ti prometto che d’ora in avanti farò di tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte.

 “Tu sei piena di spirito” pensavo poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale mio incarnato in tale femmina umana.

E cercavo di farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non ordinaria, lanciando occhiate piene di pathos intelligente.

Lei però, con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva visto. Parlava con un’altra, finnica probabilmente, senza guardarsi intorno come fanno gli eterni cercatori di amore.

“Stai a vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque un ostacolo insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà scoraggia il fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né l’altro. Commisura le possibilità di successo alle tue forze e alla necessità dell’amore. E all’esperienza che ti ritrovi. Non contare i tuoi anni, ma le non poche donne che hai conosciuto, alcune anche meravigliosamente”.

Vero è che le due conoscenze più belle erano state interrotte dopo un solo mese di gioia, e tale sarebbe stata anche questa con ogni probabilità, ma non era il momento di lasciarsi frenare da questo pensiero.

Me ne sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale la distingueva da tutte, e accresceva in ogni momento la prima impressione che quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime.

Ogni minuto che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate dalla luce già meno alta si allungavano rapidamente tutte le ombre, la necessità dalle mani d’acciaio mi spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con quella che mi appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano.

“Tu sei nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari e capisci, creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna traccia di posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te.

Cerca di capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che, ispirato da te, riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno della tua nobiltà”.

 

Mentre pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo significarle la mia profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore, dell’amore di lei.

Ma nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque minuti di quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il bersaglio soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di intelligenza e luminosi di pathos, poiché lei non mi prestava attenzione; forse nemmeno si era accorta di me. Capii che dovevo andare a parlarle. Dovevo andarci, anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo proprio, dato che la splendidissima rossa vestita del colore di fiamma viva, con gli occhiali da vista e l’aria pensosa, poteva essere proprio colei che mi avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a voi lettori cari[5]

Le arrivai vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse un’occhiata, e quando, come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in inglese ovviamente, con calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che ero diverso dal coro della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e che non mi presentavo per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una straniera nordica e pure orientale, presumibilmente più libera in cose erotiche di un’italiana ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una relazione profonda proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità, ossia con il destino buono che doveva essere il mio.

 

[1] Cfr. quanto dice Giuliano Augusto quando si prepara ad attaccare Costanzo e parla ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21, 5, 6).

[2] Cfr. la storia di Helena .

[3] Questa è la storia di Kaisa .

[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circostanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.

[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui.

 

La storia di Päivi 7. L’approccio riuscito. Ne ringrazio ancora gli dèi

 

Dissi: “Senti, scusa, io non ti conosco, ma ti trovo interessante”.

“Proprio me?” domandò con straordinaria, elegante modestia.

L’abito letterario mi fece pensare alla Chauchat di Thomas Mann.

“Sì, appunto, proprio te, e mi piacerebbe se tu volessi parlare con me. Mi chiamo Gianni”.

Mi osservò senza sdegno né compiacimento. Era rimasta seria e sembrava incuriosita.

Infatti mi chiese: “Per quale ragione vuoi parlare con me?”.

“Perché in te c’è qualcosa di bello, di fine, di molto attraente. Penso che non conoscerti sarebbe un’occasione perduta. Per me di sicuro e forse anche per te. Considera che questo momento cruciale potrebbe non tornare mai più se mi mandi via. Per me sarebbe una perdita grande. Hai un bello stile. Come ti chiami e da dove vieni?”

Il mio destino che, come il suo d’altra parte, conteneva il nostro vicendevole amore, mi fece dire tali parole comuni, banali, con l’aria della sicurezza e la forza della persuasione.

Päivi mi osservò di nuovo per un momento, poi, da par sua, cioè senza posare né gesticolare, molto semplicemente e direttamente, rispose: “Tu credi davvero che in me ci sia qualche cosa di buono? Forse ti sbagli. Comunque mi chiamo Päivi. Sono finlandese. D’accordo, parliamo, se vuoi. Anche tu non sembri ordinario. Forse quello speciale tra noi due sei proprio tu”.

Pensai che potesse parlare con un velo di ironia. Decisi di non tenerne conto.

“Quello che ho di speciale me lo suggerisci tu. E’ per la volontà di parlare con te e di piacerti che cerco di tirare fuori il meglio di me.”

“ In effetti hai un modo di proporti che non mi dispiace. Sei un uomo per lo meno educato. Di che cosa vuoi parlare con me?”

“Di molte cose allegre e di alcune serie. Da questa festa della nostra conoscenza alla tragedia greca se vuoi. Ma prima di me e di te”.

“Sei greco? L’aria mediterranea ce l’hai. La conosco e non mi dispiace. Mio fratello è fidanzato con una greca”.

“No, non sono greco, sono italiano. Però ci hai quasi preso. A parte che amo la cultura greca e ne sono stato formato, i Greci quando vedono noi italiani ci dicono ‘ italiano una razza, una faccia’. Sono italiano di Pesaro sulla costa adriatica, ma ho studiato greco antico e latino all’Università di Bologna, e da quest’anno li insegnerò in un liceo di quella città. Può interessarti?”

 “ Come no? I Greci classici, entrano nei miei studi e nei miei interessi, soprattutto Sofocle in particolare. Freud gli è debitore. Anche a Empedocle deve non poco. Vedo che possiamo parlare. Non da eruditi pedanti, spero”.

“No di certo. Non sono il tipo della talpa filologica stigmatizzata da Nietzsche [6]. Studio parecchio ma faccio anche dello sport e qualche volta scendo per strada a tamburellare ditirambi oppure indago me stesso per diventare quello che sono: apollineo e dionisiaco.

Guardarti, starti vicino mi vivacizza, realizza e mi riempie di gioia”.

 “ Va bene - fece lei allora - Aspetta solo un momento: mi scuso con gli altri finnici, prendo un bicchiere di birra, poi ci sediamo insieme da qualche parte, dove vuoi tu”.

“Ce l’ho fatta - pensai, quasi lacrimando di gioia - ce l’ho fatta Dio, grazie a te e alla mamma mia santa. Il sole fra tre ore tramonta, poi il cielo sereno si arrossa, torma azzurro, si annera. Poi si schiarisce al biancheggiar della luna. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci siamo noi due, insieme. E’ questa la femmina umana, la Salvatrice, la Redentrice dovuta alla mia umanità. Con lei, nel suo prato fiorente, voglio celebrare un’orgia tanto santa che verrà benedetta anche dai preti".

 


[6] Per i filologi come talpe cfr. la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde, del 20 novembre 1868: “Quella brulicante genia di filologi dei giorni nostri, quell’affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferente verso i veri, urgenti problemi della vita”.


La storia di Päivi 8. Il dialogo della conoscenza

Ero felice. Piacere a una donna di aspetto gradevole e di stile nobile significa fare centro nella natura, entrarci trionfalmente, non essere rinnegati e respinti dal mondo dove siamo finiti, ma diventare partecipi del suo ordine bello. Quando una creatura siffatta ti dice di sì, la vita stessa ti dà la sua approvazione e ti infonde il coraggio necessario a procedere per la salita erta che porta alla pianura della verità
[1], il luogo nel cui prato dal verde brillante risplendono immagini integre, semplici, prive di crepe, beate, le idee che costituiscono il nutrimento per la parte migliore della persona, quel cibo spirituale che fa spuntare e potenzia le ali dell’anima.

 

Ci sedemmo a un tavolino libero con i bicchieri di birra in mano e ci conoscemmo a vicenda con una conversazione di cui ricordo alcune frasi davvero dette, o, dove non le ricordo, integro le parole che due persone della nostra levatura avrebbero potuto[2] dire in tale circostanza.

 

Päivi: “allora di che cosa vuoi parlare con me?”

Gianni: “mi piacerebbe sentirti parlare di te. Da dove ti viene questo tuo stile bello, sicuro, essenziale, come quello di un’opera d’arte?”

Päivi: “io non sono sicura. Lo stile comunque lo prendo dal mio temperamento e dalle esperienze che mi hanno formato il carattere negli anni della mia vita. Il 19 luglio ne ho compiuti 24”.

“E’ del cancro” pensai. “Anche zodiacalmente mi si addice”. Ma non lo dissi: mi sembrava troppo razionale e logica quella donna per approvare un’affermazione del genere. Tuttavia, nel mio essere scorpione con ascendente scorpione, per il poco che sapevo di astrologia vidi nel suo essere del Cancro un altro segno del fatto che noi due eravamo predestinati a un amore grande, facente epoca e storico se non eterno.

Ripresi a farle domande e ad ascoltarla con attenzione piena.

Gianni: “Un filosofo greco, Eraclito, afferma che il carattere è il destino dell’uomo[3]. Il tuo a cosa tende?”

Päivi: “A imparare. Io amo imparare, ne sono assetata. E il tuo?

Gianni: “Anche a me piace imparare. Dalla vita e dai libri. Amo apprendere per insegnare. Insegno da cinque anni. Tu per quale motivo vuoi imparare, per chi, oltre che per te stessa?”

Päivi: “ Per curare i nevrotici. Ho appena finito di studiare psicologia all’Università. Ho fatto molti test, ho letto parecchi libri, ho cominciato a scrivere articoli. So già qualcosa ma davvero poco: voglio sapere molto di più. Io ho imparato soprattutto dai libri finora. Tu hai detto dalla vita. Cioè?

Gianni: “Dalle donne innanzi tutto. Quelle di casa mia, poi le amanti, le amiche, le allieve, le colleghe. Per me le donne sono la fonte primaria non solo della vita ma anche della conoscenza. Sono loro che gestiscono il fuso di Ananche[4], l’asse del mondo, il cardine sul quale tutto gira.

 Poi imparo dai libri. In questa strada sono ancora ai rudimenti. Però da qualche tempo ho capito che devo procedere metodicamente sulla via[5] dell’imparare leggendo, non per gli esami universitari, quelli li ho finiti da tempo, ma per me e per i miei studenti.

In autunno comincerò a insegnare al liceo dopo cinque anni di scuola media dove ultimamente non avevo più stimoli.

Ora che sono qui con te, ne ricevo osservandoti. Guardarti mi rende attento e anche contento. Mi aspetto cose buone dalla vita. Ne ho una visione piuttosto ottimistica. Tante volte sono addirittura felice. Quando faccio una bella lezione dalla quale imparo io stesso mentre insegno[6]; quando scalo una salita dura in bicicletta lasciando indietro gli altri agonisti; quando corro i cinquemila metri illuminato dalla luce sfarzosa del sole estivo, lo faccio ogni giorno anche qui a Debrecen, nella pista dello stadio; quando osservo i lunghi tramonti all’inizio dell’estate; quando parlo con i miei amici più cari. Ma soprattutto quando incontro persone del mio stampo, come credo sia tu. Io sono molto curioso della vita. La amo e qualche volta, anzi spesso, lei mi contraccambia. Tu sei felice?”

Päivi: “Meno di te. Non ho fatto molte esperienze buone”.

Gianni “Sei anche molto più giovane. Io il 14 novembre compirò trent’anni”.

Päivi.

“Li porti bene. Devi avere una grande vitalità. L’ambito dei miei interessi è più ristretto del tuo. Io imparo quasi esclusivamente dai libri e dai test sui nevrotici. Anche io del resto sono nevrotica, siccome sono molto egocentrica e chiusa in me stessa. Se ci conosceremo meglio, se entreremo in confidenza, ti dirò dell’altro a questo proposito, ora non me la sento. Comunque sì, condivido la tua voglia di parlare tra noi, di conoscerci meglio. Tu non mi sembri banale. Scusa, ripetimi il tuo nome: non ci ho fatto caso prima, quando ti sei presentato. Dimmi anche da quale parte dell’Italia vieni. Il tuo naso è tipicamente italiano. Mi piace. Mio fratello ha una compagna greca. Si vede che in famiglia siamo predisposti a incontrare i Mediterranei. Anche il tuo modo di guardare mi piace”.

Gianni:

“Mi chiamo Gianni, vengo da Pesaro ab antiquo, poi da Bologna e ora da Padova. Ma in autunno tornerò a Bologna. Piacerti mi rende felice per tanti e vari motivi, prima di tutti perché mi piaci molto. In te vedo il mio ideale di donna. Anche io, scusa, non ho notato il tuo nome. E dimmi da quale parte della Finlandia vieni”.

Päivi: “Il mio nome non te l’ho ancora detto. Mi chiamo Päivi. Significa “luce”. I miei parenti vivono a Oulu nella Finlandia settentrionale, vicino al circolo polare artico, ma io ho studiato e ora vivo a Yväskylä, una città universitaria della Finlandia centrale.

Gianni: “So dov’è. Ne ho sentito parlare da un’amica conosciuta qui a Debrecen, tre anni fa, Si chiama Helena[7]”.

Päivi: “L’hai più vista da allora?”

Gianni: “No, è tornata lassù, tra i boschi e i laghi. E non si è più fatta viva”[8].

Päivi: “ti dispiace?

Gianni: “No. La funzione storica della nostra amicizia era finita”.

Päivi (con un sorriso e un pizzico di ironia): “Oggi magari troverai una ‘funzione storica’ nel nostro incontro”.

Gianni: “Certo, la troveremo insieme”.

 

Pesaro 28 agosto 2021 ore 10. Si appressa l’umido equinozio che offusca l’oro delle sabbie salse (cfr. d’Annunzio La sabbia del tempo).

Tornerò presto a Bologna dove lunghi, freddi e buoi sono gli inverni. Ma senza mio scontento siccome mi aspettano tante conferenze e molte altre cose buone che illuminano e riscaldano la vita invece del sole (solis vicem).

 

1 Cfr. Platone, Fedro, 247b: to; ajlhqeiva~ pedivon.

2 Cfr. Tucidide I, 22, 1 “ Quanto a ciò che ciascuno disse con un discorso (…) era difficile sia per me ricordare la precisione alla lettera delle parole dette che io stesso ascoltai, sia per quelli che me le riferivano da qualche altro luogo, ma come mi sembrava che ciascuno avrebbe potuto dire nella maniera più plausibile le parole dovute sulle circostanze via via presenti, attenendomi il più vicino possibile al senso generale delle parole veramente dette, così sono state riportate".

3 h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn, fr. 119 Diels - Kranz.

4 Cfr. Platone, Repubblica, 616d. j Anavgkh~ a[trakton.

5 Procedere metodicamente sulla via è una tautologia poiché “metodicamente” significa già sulla via (greco oJdov~) . Ma allora ero appunto rudimentale e non lo sapevo.

6 “homines, dum docent discunt "Seneca, Epist., 7, 8., gli uomini, mentre insegnano, imparano.

7 Elena per cui cfr. un’altra storia contenuta in questo blog.

8 Cfr "Thou hast … committed fornication but that was in another country, - and besides, the wench is dead " "tu hai…” "fornicato; ma fu in un altro paese e oltretutto la ragazza è morta. The jew of Malta , IV, 1. T. S. Eliot utilizza queste parole del frate e di Barabba come epigrafe a Portrait of a Lady, Ritratto di signora. Del resto io non avevo fornicato con Helena: ci eravamo amati. La storia è presente nel blog ed è bella.

 

La storia di Päivi 8. La difformità dai luoghi comuni ordinari non è deformità, anzi

La incoraggiai a parlarmi ancora di sé, a fidarsi.

Le dissi che sentivo tra noi un’empatia alta e profonda: era lei la donna che io, spezzone di essere umano, cercavo da sempre.

Le tradussi in qualche modo in inglese il meglio di quanto avevo pensato sul conto suo da quando l’avevo vista entrare raggiante di spirito.

 Päivi volle mettermi in guardia dicendo di non essere una persona lieta; anzi precisò che era piuttosto infelice poiché si sentiva chiusa nel cerchio dell’io: al pari di un bambino o di un narcisista che vede il mondo e la gente soltanto in relazione ai propri bisogni e desideri.

 “Ecco perché non sono ottimista, come cerchi di essere tu”, disse, “temo che non potrò aprire mai la gabbia dell’io e farne uscire la mia libido introversa”.

“Con me puoi renderla estroversa quando vuoi”, sussurrai con un sorriso. Poi aggiunsi: “insieme possiamo dare una spinta al destino. Io l’ho già fatto una volta aiutato da un amico[1]”.

Non ci fece caso e aggiunse che le nostre strutture mentali da un lato si assomigliavano, siccome eravamo entrambi cercatori eterni di qualche cosa, però, d’altra parte, differivano, in quanto lei disperava di uscire dal pozzo cupo del suo egocentrismo, mentre io potevo ancora trovare la felicità che mi aspettavo, e, probabilmente, mi spettava: “tu non sei infelice né sfiduciato” fece guardandomi mentre la osservavo attentissimamente “sei nervoso perché non sai bene quello che vuoi: tu hai solo bisogno di tempo. Devi rafforzare l’Io, la tua parte cosciente, renderla autonoma rispetto all’autoritarismo del Super io e metterlo in grado di conquistare e annettersi nuove zone dell’Es. Sei sulla strada giusta, gianni”.

Fiam Ioannes, diventerò quel gianni che prevedi. Ancora in effetti non lo sono abbastanza”. Il ricordo di quanto mi ha detto questa donna mi ha motivato a fare quanto devo a me stesso anche a costo di sacrifici grandi. Non ho ancora compiuto questa impresa. Voglio completarla prima di morire. Non troppo presto, spero.

Mentre continuava a parlare, Päivi mi dava sempre più la sensazione che avevo incontrato una creatura della mia specie spirituale, del mio stampo, della mia levatura qualunque essa fosse.

Verso le sei le proposi la gita, per me rituale, a Hortobágy: avrei gradito la presenza di Fulvio, e di un’altra finnica, come nel ’71 quando tutto era filato liscio con Helena, ma l’amico purtroppo non c’era, e dovetti accontentarmi di Bruno e Silvano che stavano invitando due tedesche.

Päivi li definì subito “persone qualunque”, autorizzando la mia radicale diversità dalla gente usuale. Quella ragazza con la forza della sua intelligenza e cultura, come già Fulvio con la sua saggezza nobile e antica, come poi Ifigenia con la potenza della sua bellezza, hanno incoraggiato la mia difformità dalle persone ordinarie, gli indistinti, gli amorfi che ripetono e praticano i luoghi comuni.

 

Le righe seguenti possono non essere lette poiché non fanno parte di questa storia.

 

Faccio qualche esempio di mia difformità, o, secondo i malevoli, deformità. Io comunque ne vado fiero.

 Una volta si “doveva” fumare, o ci si “doveva” sposare; ora si “deve” avere il telefonino e ci si “deve” far credere ricchi, importanti, di grande conto e peso.

Io non ho mai fumato uno spinello né una sigaretta, non ho mai voluto e non voglio il telefonino, baso le mie spese sulla pensione di insegnante, pago tutte le tasse dovute e non mi lesino niente. Certo non i libri, i film e il teatro.

Semplicemente non spreco.

"Non esse emacem vectigal est"[2]

 Quando un ex boss dell’edilizia pesarese mi offrì molto denaro per della terra che, data in affitto a un coltivatore diretto, mi rende poco ma viene coltivata bene, lo rifiutai.

Mi pregio di nominarmi “il poverello di Pesaro”, il mendicante della bellezza, l’accattone degli affetti e così via. Mi ripugna la gente che sfoggia il denaro e ancora di più quelli che fingono, risibilmente, di averlo. Mi disgusta ogni forma di affettazione. Trovo disgustoso chi va in televisione o altrove mettendo in mostra i propri libri e dicendo o facendo dire “comprateli!”. Io in passato ne ho prodotti e pure venduti bene con Loffredo, ma ora, da persona matura e meglio cosciente, dico: non comprateli, ho tutto nel computer, li ho resi più belli da allora e ve li mando gratis attraverso la posta elettronica. Mi sembra più elegante, degno di me e del mio comunismo aristocratico.

Anzi, cito un poeta addirittura fascista con il quale condivido l’amore per la cultura e l’odio per l’usura:

 

For I am homesick after my own kind

And ordinary people touch me not.

And I am homesick

After my own kind that know, and feel

And have some breath for beauty and the arts (Ezra Pound, In Durance, 1907)

  

1 Cfr. Eneide, I, 712. Si tratta di Didone infelix pesti devota futurae, infelice sacra alla rovina futura

2 Cicerone nel Somnium Scipionis, chiama il sole"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del cosmo e forza regolatrice ( De Republica, VI, 17).

 

La storia di Päivi 9. La preghiera urinando nella puszta

 

Andavamo dunque verso la puszta. Sulla destra c’era il sole già piuttosto vicino al tramonto. Eravamo tre coppie in due automobili: noi viaggiavamo soli e concordi nella nera Volkswagen; gli altri quattro ci seguivano nella Renault blu di Bruno, lo sfortunato ragazzo pesti devotus futurae [1]. Con il senno di adesso le due automobili scure potevano evocare, addirittura anticipare il corteo tetro verso l’ultimo viaggio.

La bambina frutto del nostro amore sarebbe stata soppressa in autunno,

Bruno sarebbe morto l’estate successiva in un incidente stradale in Africa e Silvano si trova tra i defunti, quelli che hanno compiuto la vita, da un paio di anni.

 

A un tratto Päivi mi chiese di fermare la macchina e lasciar passare gli altri: doveva scendere per un bisogno; lo sentivo anche io dopo le due birre bevute nell’ombroso cortile. Ci separammo, ovviamente. Io camminai verso occidente finché giunsi a una siepe oltre la quale vedevo l’immergersi lento del sole nella pianura infinita.

Mentre con gettito lungo, non frenato da una prostata grossa come quella di Marlon Brando nell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, urinavo le birre contro i raggi lucenti della sera estiva, piena di voli, rivolgevo tale preghiera al dio che scalda e nutre la vita: “Signore del mondo, ti prego, dammi la forza di amare questa ragazza dal volto che irradia ricchezza spirituale; fai che io possa trarre da lei, dalle sue fessure tartare, luce di comprensione; fai che Päivi a sua volta possa ricavare a sua volta da me la volontà di uscire dalla caverna dell’egoismo dove non giungono i tuoi raggi pieni d’amore. Se in vita mia qualche volta ho fatto del bene, se talora ho venerato debitamente il tuo nume, Mente dell’Universo [2], se ho meritato di te assai o poco, ti prego esaudisci questa preghiera devota”.

Ero un poco ebbro.

Il primo fra tutti gli dèi calava grande, non oscurato da caligine né ombreggiato dalle nuvole dei moscerini; l’aria era calda, ma viva e trasparente; al di là del cespuglio, su un campo di granoturco volavano a gara i passeri frullando rapidamente e tripudiavano a gara altri uccelli contenti; a destra, i cani paravano greggi di pecore intente a brucare l’erba dove andavano e venivano pure grosse oche bianche dai colli stirati, e neri maiali dalle zanne candide e aguzze. In quel tramonto tutto era santo, tutto era sacro. C’erano mito, c’era poesia e c’era amore. I solchi arati spiravano promesse di nascite nuove e i venti esalavano soffi pieni di vita.

Mi sentivo in armonia con la terra, con gli animali pascenti e di guardia, con gli uccelli che li sorvolavano allegramente salutando la luce, con la mia donna che più in là urinava anche lei impastando la terra con il proprio liquido organico, nondimeno era molto dotata di anima, e, mentre sentivo il benessere delle radici nella grande madre di tutti, mi prefiguravo la spinta che io e Päivi ci saremmo dati a vicenda verso le altezze sublimi dello spirito e della cultura. Ci sarebbe stata una calda unione di corpi ma anche la fusione di due anime che, intimamente unite, sarebbero volate insieme nel regno della bellezza eterna. Questi sono i momenti epifanici della vita. Ne avrai avuti alcuni anche tu, lettore. Bisogna notarli e farne tesoro.

 

La storia di Päivi 10. La comunione bizzarra

 

Ero un poco ubriaco e molto felice.

Intanto alcuni piccoli uccelli si erano posati sopra i dorsi bianchi e villosi delle pecore chine a brucare, e il sole spariva salutato dal primo strimpellìo tremante dei grilli e dall’ultimo verso stridente delle cicale assonnate.

A un tratto, la pecora più originale alzò di scatto la testa; subito dopo sobbalzarono tutte le altre, e gli uccelli volarono via.

Osservavo il cielo maestro di umana sapienza [3].

 

Un salto nel passato di tre estati prima, quella di Helena.

Consiglio di leggerlo.

Mi venne in mente un’aurora serena dell’agosto del ’71, quando, dopo un prolungato banchetto e l’insana dulcedo perpotandi et pervigilandi [4] invece di andare a dormire, io con Fulvio, Ezio, Claudio, Danilo e Alfredo, giovanilmente scherzando, uscimmo dal collegio calandoci dalla finestra, siccome l’uscio di sotto era chiavato a quell’ora, intorno alle tre della notte, o del mattino che dire si voglia.

Andammo a Hortobágy per vedere sorgere il sole. Nella luce attiva del crepuscolo mattutino eravamo contenti. Io per Elena, Fulvio era felice pensando al suo futuro con Bruna: dipingeva lieti pensieri nuziali [5].

Gli altri erano contenti di essere giovani, di essere a Debrecen con tanti coetanei curiosi di conoscersi a vicenda. Era un bel posto quello ed erano belli i primi anni Settanta per quanto riguarda i rapporti umani. Nel ’74, come abbiamo visto e vedremo, i tempi e i costumi erano già peggiorati, e noi, reduci del ’68, eravamo prossimi al disincanto.

 Nl ’71 era ancora diffuso tra gli umani simpatizzare, perfino volersi bene. Una moda presto defunta come molti di quei cari compagni dell’età mia nova. Io non ho rinnegato quei mores oramai antichi, non li ho scordati, anzi, passata la moda, mi sono rimasti dentro del tutto accordati con il mio carattere, quale struttura della mia formazione e li tengo in vita e li pratico con chi me lo permette senza prendermi per deficiente, o per sognatore, o per pazzo.

Arrivati, si saliva sui gradini di legno di un teatro aperto - locus Phoebo Bromioque sacer - da dove si poteva osservare l’oriente infiammato e il fiume verde, popoloso di pesci, folto di canne, sonoro di uccelli che salutavano il giorno. Sentivamo, amavamo la vita che ci contraccambiava. Parlavamo di donne, di amori, di lavoro, facevamo progetti, eravamo contenti. Sul ponte a nove arcate situato davanti alla csárda, transitavano carri stracolmi tirati da grossi cavalli rossicci: portavano i prodotti della puszta al mercato di Debrecen.

Danilo aprì lo spettacolo con un canto popolare trevigiano della prima guerra mondiale. Una canzone di guerra, lenta, lenta, che celebrava gli eroi morti e infondeva desiderio di pace. Ammaliato da quell’elegia di stampo tirtaico, Fulvio assecondò l’aedo di Bassano del Grappa e, sceso nell’ acqua bassa del fiume con il pigiama arrotolato sopra i polpacci muscolosi, da oplita, eseguì alcuni passi di una danza pirrica, quindi intonò un canto di guerra simile a quelli eseguiti dalla forte gioventù spartana prima delle battaglie. Seguì un’ovazione. Quindi Danilo tirò fuori l’amica bottiglia, cara compagna di colazioni, pasti merende e cene, poi disse che in quella circostanza felice la cosa migliore era riprendere dal punto in cui ci eravamo interrotti in collegio. Quel vino, aggiunse, rendeva servigi migliori dell’acqua di seltz.

Quando il gaudente l’ebbe svuotata, gridai: “tra un poco apriranno la csárda; che ne dite se entriamo per colazione e ce ne facciamo stappare altre due?”. “Sicuro, e che tu sia benedetto, compagno pesarese, caro da Dio!”, rispose l’amico grato della proposta inopinata.

Intanto Fulvio, Claudio, Ezio e Alfredo, riuniti in una comunione bizzarra, si spartivano un grosso salame, due enormi cipolle, tre cetrioli e due peperoni. Quando invitarono me e Danilo, nemmeno noi potemmo astenerci da tali prelibatezze. Sicché facemmo questo banchetto aurorale. Eravamo contenti e ci sembrava di vedere gioie maggiori che ammiccavano a noi, ci facevano segni d’intesa. Io pensavo che se ero piaciuto a Elena sarei piaciuto per sempre, alla vita che amavo con tutto me stesso dopo che avevo smesso di sentirmi rinnegato da lei. 

 

Erano già trascorsi tre anni da quell’alba ricca di amici, di canti, di affetti. Nel 1974 la danza non era ancora diventata macabra ma il tempo della comunione tra noi mortali era già consumato in gran parte, quasi finito.

Da cinque anni oramai imperversavano le stragi e altre ce ne sarebbero state. Rimaneva l’amore per una donna. Con il senno di adesso dico che questo non può funzionare a lungo, se rimane isolato dal contesto sociale.

  

3 Cfr. Platone (Timeo 47 a). Lo ricorda Giuliano Augusto: oujrano;n fhsi Plavtwn hJmi'n genevsqai th'" sofiva" didavskalon (A Helios re 3, 38, 1)

4 Cfr. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni VI, 2, 2, il piacere malsano di bere e vegliare tutta la notte. Era uno dei vizi dell’eroe macedone.

5 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, secondo coro “Com’era allor che improvida/d’un avvenir fallace,/lievi pensier virginei/solo pingea.”

 

  

La storia di Päivi 11. I buoni segni vocali. Silvano e il camionista.

 

Risalii nella nera Volkswagen dove Päivi mi stava aspettando.

“Questa sera - le dissi a bruciapelo - vorrei fare l’amore con te”.

Mi osservò in silenzio, poi sorrise e rispose: “ Lo sapevo. Può essere”. Non ero sicuro che non fosse un may be formulare, magari un segno di cortesia come è talora l’ottativo greco; era un intercalare che avevo già sentito più di una volta da lei. Tatticamente discreto, non insistetti, abbassai pudicamente gli occhi che sprizzavano desiderio e rimisi in moto la nera Volkswagen.

Dopo pochi chilometri arrivammo a Hortobágy ed entrammo nell’osteria. Ci sedemmo tutti al tavolo grande, il solito, quello vicino alla stufa bianca e azzurra.

Päivi mi parlava di sé: io la ascoltavo e la guardavo ammirandola, rilanciando ogni argomento suo con una o più domande e alcune osservazioni.

Mi interessava ascoltare e osservare quella ragazza dai lunghi capelli rossi che donavano indicibilmente al suo seno, al suo eloquio e potenziavano il mio mentre li osservavo. Da allora le rosse mi attirano molto, quanto le brune dopo Helena, Kaisa e Ifigenia.

Per le bionde non ho in testa un paradigma mitico e mi piacciono meno intensamente. Non che siano da buttare via, per carità, ma i loro capelli non evocano l’erba del paradiso, della felicità.

Silvano e Bruno parlavano piuttosto tra loro che con le tedesche.

A un tratto ci osservarono, e Silvano disse: “guarda quei due come comunicano volentieri tra loro. Secondo me ci scappa un grande amore”.

Bruno confermò.

Tradussi l’ottimo auspicio a Päivi, quindi le domandai: “It signs well, does it not? [1] E lei: “Yes, of course, very well”.

Sono ancora grato a Silvano per quella osservazione benevola, che mi incoraggiò. Aveva capito la situazione osservata dal suo punto di vista che confermava il mio sguardo meno obiettivo per mancanza di prospettiva.

Né lui né Bruno erano solo “persone qualunque”, come aveva sentenziato Päivi. Bruno aveva individuato la degradazione della bellissima era di solidarietà culminata nei primissimi anni Settanta. Quella sera i due amici furono profeti delle mie nozze vicine. Avevano dato voce al destino che le benediceva.

Tante volte non ci rendiamo conto di quanto basti poco ad aiutare il prossimo. Non costa niente fare del bene: guardare chi incontriamo con un sorriso non artefatto, dire una parola buona, amichevole, incoraggiante.

Faccio altri due esempi. Il maximum è stato quello di Fulvio che contribuì a salvarmi la vita nel 1966, come ho già rammentato. Ora ne ricordo uno minore ma comunque importante e significativo. Questo risale alla metà circa degli anni Cinquanta.

Ogni volta che pedalo su per una salita situata tra Pesaro e Cattolica, detta la Siligata, mi viene in mente l’evento che riferisco. Avrò avuto appena dieci anni, e pedalavo forse per la prima volta su quella strada.

Dovevo farlo di nascosto e potevo farlo da solo. I miei amici non ne avevano voglia, o la forza, o il coraggio. Io mi impegnavo ballando in piedi sui pedali di una biciclettina rossa, senza cambio. Era un’impresa eroica per un bambino della mia età. Ma non ne avevo coscienza. Ebbene, un uomo in canottiera, probabilmente veneto, si sporse dal finestrino di un camion che mi superava e mi gridò “Sei in gamba bocia!”. Non so se lui ne avesse idea, ma queste poche parole sue, pauca sed bona dicta, mi hanno aiutato a prendere coscienza di me, di un mio talento e ne ho fatto tesoro. E sono ancora grato a quel signore profetico, chiunque egli fosse. Anche lui aveva dato voce al mio destino, al mio demone buono, forse a Dio stesso. Che Dio, chiunque egli sia, faccia del bene a quell’uomo, dovunque sia ora, un camionista che tanti decenni fa sulla salita della Siligata dove danzavo sui pedali mi ha incoraggiato e mi fatto del bene. Tanto bene che lo ricordo ancora dopo quasi settanta anni. 

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1 Cfr. Shakespeare, Antonio e Cleopatra IV, 3. E’ un buon segno, non ti pare?

 

La storia di Päivi 12. Il corteggiamento un poco pedante nella csárda di Hortobágy.

 

Mi domandò: “Tu sei un uomo in cerca di segni?”

“No, Päivi, non li cerco, sono loro che trovano me, nel senso che attirano la mia attenzione”.

“Quali sono i segni che ti colpiscono?”

Da persona educata e ben disposta nei miei confronti, tendeva a rilanciare i miei argomenti con delle domande.

Questo comportamento nel dialogo è, in generale, un ottimo segno, quasi un richiamo erotico.

“Il sole prima di tutti, il sole, che è l’immagine della mente divina e dà indicazioni di cui tengo conto. Quando compare tra le nuvole mi conforta e mi sprona. It is the best omen, aggiunsi.

Very nice. You are nice “, fece.

And you are wonderful, qaumasto;n ti crh'ma” risposi.

 

E continuai: “Le belle facce intelligenti, come la tua, mi spingono a dare il meglio di me, ad aprire l’anima. Tu sei il “rimedio dal bel volto” che, ricordando l’Edipo re di Sofocle, chiedo ad Atena, figlia di Zeus nei momenti difficili della mia vita: eujw`pa pevmyon ajlkavn[1] . Come vedi, ce la sto mettendo tutta con te: voglio piacerti”.

“Ci stai riuscendo”, mi incoraggiò.

Poi domandò: “e io cosa devo fare per piacere a te?”

“Essere te stessa. Di te mi piace il fatto che non assumi pose, non ripeti luoghi comuni, non hai pregiudizi, anche se hai gusti precisi e, grazie al cielo, simili ai miei. Continua a essere così priva di affettazione, così come sei: elegante con semplicità”.

“Non mi costa fatica. Parlami ancora dei segni”

“I segni possono venire dagli uccelli. Non che i volatili conoscano il futuro, ma il loro volo è diretto da dio, volatus avium dirigit deus [2], scrive Ammiano Marcellino, uno storiografo del paganesimo morente, lo storico di Giuliano Augusto calunniato quale “Apostata” da Gregorio Nazianzeno, suo compagno di scuola ad Atene.

Poi ci sono i segni vocali che si possono cogliere al volo dalle parole dei vicini, come ho fatto ora da Bruno e Silvano. 

 

Ti racconto una storia per farti capire meglio:

Crasso, un duce romano del tempo di Giulio Cesare, non riuscì a comprendere che un venditore di fichi Cari, il quale gridava ripetutamente “Cauneas!” sulla banchina del porto di Brindisi, non stava solo cercando di vendere la propria merce, dicendo “fichi di Cauno!”, ma, nel suo grido, un qualche dio aveva messo pure un secondo senso più profondo che diffidava il proconsole dal prendere il mare verso la morte. Le parole urlate dal fruttivendolo infatti, interpretate nel senso giusto per Crasso dovevano significargli cau’ n(e) eas! “non andare!”, secondo la pronunzia apocopata dell’imperativo caue (cave) che si usava nel latino parlato[3].

Ma Crasso, in preda alla smania di combattere, uccidere, vincere, acquistare potere, non se ne accorse. Il fatto era che non faceva attenzione ai segni. Quindi Assyrias Latio maculavit sanguine Carrhas [4], macchiò di sangue latino Carre di Assiria.

 Costui, come la generazione malvagia e adultera biasimata da Cristo[5], notava cose insignificanti ed era cieco e sordo ai moniti che lo riguardavano e lo mettevano in guardia.

Crasso si stava imbarcando per portare guerra ai Parti, in Oriente: si metteva in movimento per conquistare terre, per massacrare popoli interi e un dio cercò di trattenerlo. Anche per il suo bene.

Il Romano infatti finì sconfitto e ucciso.

Gli tagliarono la testa, e un attore, Giasone di Tralle, si avvalse di quel trofeo macabro per recitare realisticamente i versi delle Baccanti di Euripide nei quali Agave impazzita palleggia la testa del proprio figliolo Penteo, ucciso e decapitato da lei stessa e dalle sorelle sue.

Tutto questo tra gli applausi feroci dei Parti. Che ne dici?”

 

“Che dobbiamo fare grande attenzione ai segni vocali”, rispose Päivi con un sorriso forse non privo di ironia rivolta al mio sfoggio piuttosto pretenzioso e pure pedante.

“C’è poco da scherzare, proseguii” - stando al gioco - il segno che abbiamo sentito noi due poco fa equivale a hodie amet qui numquam amavit, quique amavit hodie amet [6].

 Voglio andare presto a Delfi per interrogare l’oracolo. Mi piacerebbe che tu venissi con me. Ci sei mai stata?”

“No, ma ho letto che i Greci lo consideravano nientemeno che l’ombelico del mondo”.

“Infatti. Senti questa di Eraclito, un presocratico”.

“Grazie, so chi è Eraclito. Lo conosco attraverso Nietzsche. Ma citami il frammento che riguarda i segni”

“Il signore, di cui c’è l’oracolo a Delfi, non dice e non nasconde: ma dà segni”

“Dimmelo in greco, se ce la fai”, mi chiese, credo per compiacermi. “Altrimenti, posso vincere la curiosità” aggiunse, con ironia e anche per giustificarmi nel caso che non ce l’avessi fatta a ricordare le parole greche.

Ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei”.

“Suona bene. Dunque?”

“Dunque torniamo all’ottimo segno colto qui, poco fa. I miei amici hanno notato un’intesa grande e profonda tra noi, e non lo hanno fatto per assumere il ruolo di paraninfi: nemmeno sapevano che avrei sentito le loro parole. Ma un dio me le ha fatte ascoltare, e io, assecondandolo, le ho riferite a te. Ora ti puoi immaginare, non c’è bisogno che te lo dica, a che cosa ci incoraggiano gli dèi buoni e giusti. Dante era completamente pazzo quando li squalificava come falsi e bugiardi[7]”.

 

 

[1] Edipo re, v. 189. Manda un rimedio dal bel volto.

[2] Storie, XXI, 1, 9. Questa nota è per te, lettore.

[3] Questo celebre caso di omen è riportato da Cicerone, De divinatione, 2, 84. Anche questa nota è per il lettore cui possa interessare.

[4] Lucano, Pharsalia, I, 105

[5] " Generatio mala et adultera signum requirit, et signum non dabitur ei nisi signum Ionae prophetae " ( Vangelo di Matteo, 12, 39), la generazione malvagia e adultera reclama un segno, e non le sarà dato un segno se non quello di Giona profeta. Così nel Gerontion di Eliot leggiamo: "Signs are taken for wonders. 'We would see a sign!'/The word within a word, unable to speak a word,/Swaddled with darkness. In the juvescence of the year/Came Christ the Tiger " (vv. 17 - 20), i segni sono presi per miracoli'Vogliamo vedere un segno!'/La parola dentro una parola, incapace di dire una parola,/fasciata di tenebre. Nella giovinezza dell'anno/ venne Cristo la tigre.

Ma gli uomini non lo riconobbero.

[6] Cfr. Pervigilium Veneris

[7] In Inferno, I, 72. Né è rinsavito quando arrivò a scrivere il Paradiso dove si legge un’altra bestemmia:

“Solea creder lo mondo in suo periclo

che la bella Ciprigna il folle amore

raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei facevano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche nell’antico errore,

ma Dione onoravano e Cupido,

questa per madre sua, questo per figlio;

e dicean ch’ei sedette in grembo a Dido” (VIII, I, 9).

 

 

La storia di Päivi 13. Il latino come lingua del pudore


Mi osservò per qualche secondo, poi fece: “Italian alsways arrange, e tu sei il principe degli arrangiamenti retorici. Io apprezzo i tuoi racconti, mi piacciono molto il tuo greco e il tuo latino, ma non ho bisogno di tante lusinghe, né di altrettanta cultura esibita per risponderti che mi piaci e che farò l’amore con te, Gianni. Probabilmente questa sera stessa”.

Feci un segno di approvazione entusiastica, con gli occhi.

Päivi continuò: “Sempre che non arrivi qualche segno contrario, un uccellaccio di malaugurio, malamente ominoso diresti tu, oppure, che so io, addirittura una cornacchia decrepita, guercia, grassa, zoppa e ributtante”. 

“Non ci saranno cornacchie, ma passeri agili e bene auguranti con il frullare veloce delle loro ali. Ci saranno anche Venere, Cupido e Priapo. Venerem iungemus per mille figuras[1] e la più ovvia di queste renderemo bella come un’opera d’arte, come sei tu, al punto che i sacerdoti santi benediranno la nostra lussuria”

“Vedo che ti piace molto usare il latino oltre il greco. Ogni tanto utilizzi anche Shakespeare.”

“Sì quel bardo geniale è uno dei miei autori - accrescitori. Il latino lo uso non solo per piacere ma anche per evitare le parolacce: infatti questa madre della mia lingua madre, la mia lingua nonna potrei dire assai banalmente, mi aiuta a rispettare il pudore: non potrei mai parlati di fellare in inglese o in italiano. Tanto meno proportelo. Mi vergognerei come un ladro”.

“Non c’è bisogno che tu lo traduca. Fellatio è un termine invalso in psicologia”.

 “Anche io credo che faremo l’amore oggi, Päivi mia. Lo stiamo già facendo con le parole e con gli occhi. Mi sembra che ci specchiamo l’uno nell’altro. Noi siamo uno l’ego dell’alter o l’alter dell’ego, come preferisci.

“Scegli tu”

“E’ lo stesso: nam et tu es Ioannes , et ego Päivi sum [2].

In noi due che ci amiamo, anzi, c’è del narcisismo. Non sei narcisista tu sola”.

“Lo vedo”.

“Nel nostro caso comunque, essere narcisisti non è male. Abbiamo motivi seri per piacerci. Ci scambieremo gioia, conoscenza preziosa, e virtù.”

“Che cosa è la virtù, secondo te?”

“ E’ una delle cose diritte: et haec recta est, flexuram non recipit” secondo Seneca[3]. E’ una capacità ascetica. Non intendo l’ascesi della rinuncia ma quella del rafforzamento della propria persona.

Diventare se stessi, realizzarsi completamente e aiutare gli altri, questa è virtù. Virtù non senza morale. Noi due ci aiutiamo a vicenda, e questo non è un sofisma. La felicità che provo nel comunicare con te tutto il bene che sento solo a guardarti, è un aiuto grande per me, per la mia crescita, e per la tua. Tu sei mia accrescitrice quanto e più degli auctores. Ne ho la certezza già ora. Fra quarant’anni magari ne riparleremo”.

“Ci tieni a vivere tanto a lungo?”

“Io sì, anche più a lungo, finché posso imparare”.

 “Come Solone[4], vero? Ti capisco: anche per me imparare è lo scopo più grande della vita”.

“Il mio è fare l’amore con te”.

“Sei carino, davvero. Io però non ho da raccontarti storie interessanti come quella dei fichi malintesi da Crasso.”

“ Tu hai di meglio. Tu hai molto di più di quei fichi incompresi. Tu incarni uno stile esemplare per me. Con te posso essere me stesso al livello più alto, poiché ti piace ciò che è bello e fine, come sei tu”. 

 

[1] Ovidio, Ars amatoria II, 679

[2] Cfr. “non errasti - inquit - mater nam et hic Alexander est” in Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni 3 12, 17 - Non hai sbagliato, madre, disse, infatti anche questo è Alessandro. Lo disse Alessandro Magno di Efestione quando, dopo la battaglia di Isso, la madre di Dario, fatta prigioniera, aveva creduto che Efestione, più prestante, fosse il re vincitore, ossia Alessandro.

[3] Ep. 71, 20. Questo è per te, lettore

[4] Päivi qui allude a ghravskw d’ aijei; polla; didaskovmeno~, invecchio imparando sempre molte cose

 

  

La storia di Päivi 14. Le tre coppie. Inconditi ioci e mia supponenza pretenziosa

 

Intanto Bruno e Silvano facevano lazzi e frizzi con le due tedesche: sembravano allegri e senza pensiero; a noi non badavano più.

Credo che considerassero noiosi i nostri discorsi, e soprattutto inutili ai fini erotici con le loro compagne. Invece per noi due, persone non ordinarie, eccentriche e stravaganti, le parole alquanto libresche erano pure erotizzanti. Per me e Päivi sarebbe stato del tutto antierotico il comportamento assunto dai nostri compagni di tavolo.

“Guardate che bel tovagliolo” diceva Silvano, per esempio, in una lingua franca mista di italiano, inglese e francese, non senza accento modenese.

Una delle ragazze leggeva ad alta voce le lettere ricamate in rosso, poi siccome su quel tessuto c’era anche la figura di un toro scarlatto, l’altra fanciulla faceva un muggito lungo. Quindi ridevano tutti a crepapelle, con le lacrime agli occhi.

Io e Päivi li guardavamo con meraviglia cupa.

“Neanche avessero davanti agli occhi la mantiglia rosa della toreadora di Manet”, bisbigliai con sarcasmo pretenzioso ricordando Nabokov.

Bruno si accorse di essere osservato con supponenza maligna, e disse con un forte accento romanesco: “A Gia’, non fare tanti discorsi seri con quella finnica, ché non ne vale la pena. Le donne vogliono stare allegre e afferrare il concreto, il solido priapesco [1] “l’omo ha da esse omo, lo sai bene anche tu: non siamo pupi nato l’altro ieri”.

“Può essere, Bruno. Priapo lo venero anche io: tutte le mattine quando mi sveglio, e tutte le sere prima di andare a dormire, gli rivolgo ringraziamenti per i suoi lauti favori, ma questa ragazza non sa e non vuole comunicare a muggiti”.

Confesso che usai un tono acido, da professorino pedante, mentre nel richiamo del povero Bruno non c’era alcuna avversione per me, anzi, voleva comunicare, scuotermi dal mio presuntuoso narcisismo, invitarmi a giocare con loro.

La mors immatura di quel ragazzo con cui ebbi qualche attrito, pur piccolo, mi dà ancora un vago senso di colpa.

Devo confessare che quando mi trovavo da solo con loro, con i maschi italiani, mi lasciavo andare io pure ad atti goliardici, a giochi insensati, infantilmente, e lo faccio ancora nonostante l’età.

Ma quando c’erano donne come Helena, o Kaisa di cui ho già raccontato o come Päivi di cui ti sto raccontando, lettore, allora facevo come un onesto uccello in amore: riassettavo tutte le mie piume e mettevo in mostra gli atti, i versi e le parole migliori tra quelle che avevo a disposizione. Insomma con le donne che mi piacevano assai e mi intimidivano, mettevo la maschera cui volevo uniformare il mio volto: quella del giovanotto riflessivo, riservato, buono, studioso, sportivo e pure, o se preferisci eppure, geniale. Mi pregiavo anche di essere un comunista colto, aristocratico: lo consideravo elegante oltre che morale. Volevo apparire, per poi diventarlo, uno studioso, un atleta e un artista.

Prima di identificarmi del tutto in quel ruolo e di recitarlo bene, potevo assumerne altri. All’epoca ero abbastanza camaleontico e in questo il mio modello poteva essere Alcibiade [2], o Andrea Sperelli [3] di D’Annunzio. Non voglio dire che mi prendevo gioco delle mie donne migliori: ero davvero innamorato di loro, o piuttosto lo ero del progresso e del raffinamento identitario che ricavavo dalle pose assunte, dal ruolo che dovevo recitare molto bene, se volevo piacere a queste Beatrici che mi rendevano felice siccome attraenti molto, intelligenti assai e poco caste per fortuna mia e loro. Ma per ora basta di questo.

Dopo la mia risposta per niente amichevole, si ruppero i contatti verbali tra noi due e gli altri quattro.

Non ne fui contento, poiché quando esco in compagnia mi piace scambiare impressioni, idee, sguardi di intesa e gesti cordiali con tutti i compagni.

Tra me e Päivi del resto niente mancava. Mi domandò chi fosse Priapo.

“E’ uno dei miei protettori, il dio dell’erezione. Un altro è Giovanni Battista, il santo delinquente [4] politico, il provdromo", precursore del Nazareno crocifisso, il decollato che “per salti fu tratto al martiro” [5] come ricorda Dante, il grande profeta di cui Gesù disse: “Non surrexit inter natos mulierum maior Ioanne Baptista” [6].

Päivi mi fece una carezza sul volto e disse: “Hai un bel naso romano”. “Magari anche da ebreo”, risposi. “Può essere” fece lei.

Mi venne in mente un complimento analogo che mi aveva già fatto Helena nel 1971. Da allora il mio naso, sebbene piuttosto pronunciato e un poco ricurvo, da uccello rapace, piace molto anche a me.

Una donna ci dà la vita, diverse donne ce la fanno amare, qualche donna pulirà il nostro corpo e piangerà nell’ora estrema. Dopo però le ritroverò tutte, ridenti.

Il più tardi possibile, per carità.

 

 

1 Priapo è il dio dell’erezione.

2 Plutarco aveva scritto di Alcibiade che era capace di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte ("ojxutevra" (...) tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non provato:" jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h'jn ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton": a Sparta faceva sport (gumnastikov"), viveva sobriamente (eujtelhv"), teneva un' espressione austera (skuqrwpov"); in Ionia faceva il raffinato (clidanov"), il gaudente (ejpiterphv"), l'indolente (rJav/qumo"); in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e nel lusso la magnificenza persiana("uJperevballen o[gkw/ kai; poluteleiva/ th;n Persikh;n megaloprevpeian" Plutarco, Vita di Alcibiade., 23, 5.). Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o per dirla con Cornelio Nepote era "temporibus callidissime serviens Cornelio Nepote, Vite, 7, 4, abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.

3 Quanto al personaggio di D’Annunzio, Sperelli stesso pensa di sé: "Io sono camaleontico , chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC . Sia fatta la volontà della legge" - D'Annunzio, Il Piacere , p. 278.

4 Ossimoro simile si trova nell’Antigone dove l’eroina di Sofocle dice alla sorella Ismene a proposito della sepoltura del loro fratello Polinice: “io amata, giacerò con lui, con l'amato,/dopo avere compiuto un'illegalità santa (o{sia panourghvsa" j) poiché è più lungo il tempo/nel quale bisogna che piaccia a quelli di sotto che a questi qua sopra" vv.73 - 75

5 Dante, Paradiso, XVIII, 135

NT, Matteo, 11, 11

 

  

La storia di Päivi 15. La trasfusione delle anime

 

Päivi continuava a spronarmi e incoraggiarmi perché trovassi il mio metodo cioè la mia strada, e diventassi quello che ero secondo lei

 “Tu Gianni mi piaci: sei entusiasta come un adolescente, hai buon gusto e hai del genio. Coltìvati ancora e vedrai che uomo diventi! Devi solo utilizzare il tempo tuo nella maniera migliore: continua a studiare, fai altre esperienze che ti interessano, poi sarai una persona realizzata e felice perché l’intelligenza, la volontà e l’ottimismo li hai!

Vorrei averlo io il tuo entusiasmo!”

“Voglio comunicartelo. Tu sei una donna ricca di spirito e sei molto attraente: io sento il desiderio, anzi il bisogno, di trasfondere la mia anima nella tua e la tua nella mia”, risposi accarezzandole i capelli rosso castani, lunghi fino al seno, all’angelico seno[1]Et Transfudemus hinc et hinc labellis errantes animas [2] aggiunsi. Non ero sicuro che avesse compreso.

Quindi le dissi in inglese che la mia anima aveva bisogno di assorbire i sentimenti della sua, di assimilarli per restituirglieli fecondati.

Sotto la giacca di velluto rosso aveva una maglietta di colore bianchissimo dove appariva con piena chiarezza, in alto rilievo, la bella forma del petto cospicuo e compatto, molto eccitante in quel contesto di donna intelligente e colta. Arrivai ad accarezzarle l’estremità superiore della mammella sinistra.

Päivi non si scostò, ma io fermai la mano blanda e lasciva, temendo che fosse non del tutto opportuna. Non in quel luogo.

Poi, guardandola negli occhi con un sorriso di gioia, dissi: “un giorno vorrei avere una figlia simile a te!”

Quella sera, tornati in collegio, facemmo l’amore.

Non era possibile, non farlo, nemmeno pensabile.

Mi apparve tutto intero il bel sembiante senza nubi e senza veli.

Le nostre complessioni umane sobbalzarono sbattute e trascinate da ondate di piacere e di gioia, pungolate dall’attrazione e forse ancora più dall’intesa verificata con il lungo dialogo preparatorio.

Erompeva tutto il fuoco accumulato nel cuore e nelle viscere e non c’erano freni a trattenerlo né acqua a smorzarlo, né barriere a ostacolarlo.

Nel momento supremo nemmeno il tempo ebbe più ostacoli: tutta la mia vita amorosa compendiata in quell’istante mi venne davanti in un’immagine sola e anche il futuro cercava di venire alla luce.

I corpi non erano estranei all’apertura generale: dalle bocche ansimanti uscivano la schiuma di Eros e mormorii amorosi vicendevolmente soffiati

Fu come se il cosmo mi spalancasse le porte.

Io non so quanto senza volere, fatto sta che senza averlo deciso coscientemente, quella sera, o poco più avanti, la misi incinta.

Forse il vino bevuto aveva contribuito a farci obliare, nel culmine, tutto, tranne il piacere e l’amore di quel momento.

Non è successo mai più nel resto della mia vita. L’ho sempre evitato con cura estrema. Non ho più stimato nessuna donna quanto Päivi, né volevo diventare un funzionario della specie con una che non mi avesse convinto del tutto. Magari mi eccitavano le flessuosità di quei corpi, ma non si è mai più ripetuta la trasfusione delle anime che ho raccontato in questo capitolo.

Non ho messo al mondo figlioli di carne perché i rapporti umani, fra stragi, guerre e crimini vari, sono diventati sempre più gravidi di ostilità. Anche quelli personali. Visto il calo demografico, credo che non poche persone di questo mondo occidentale davvero all’occaso si siano astenute dal procreare per siffatti motivi.

Così si estinse anche la classe colta dell’impero romano. 

 

[1] Cfr. Francesco Petrarca, Canzone XIV, Chiare fresche e dolci acque, v. 9.

[2] Cfr. Satyricon, 79, 8. Il nostro, però, fu un amore eterosessuale.

 

  

La storia di Päivi 16. L’amabile stile del rispetto

 

Il nostro pur troppo breve tempo in Ungheria passò tra le parole e gli atti d’amore; di sera andavamo all’Aranybika o in un altro locale a sentir musica e a bere l’egri bika vér [1], oppure a ballare sulla terrazza della casetta contigua allo stadio dove verso il tramonto correvo i 5000 metri senza di lei; in piscina invece riuscivo a portarla dopo le lezioni della mattina, a mezzo il giorno [2], quando l’aria estuava[3].

 

 Päivi mi seguiva nonostante soffrisse il sole e il caldo, dato che era una creatura del nord lacustre e boscoso. Questa discrepanza tra noi comunque mi impensieriva.

Nel mio corpo avvertivo una ventina di gradi in meno rispetto a quelli sentiti da Päivi nel suo. A lei davano noia grande 30 già gradi, io provai un leggero fastidio per il calore una volta sola: a Efeso quando il termometro segnò 51 gradi e giravo con la testa scoperta tra le rovine prive di alberi. Quando il termometro scese a 47 in riva al mare, mi ristorai con quel fresco.

Il determinismo climatico e geografico toglieva parte del nostro essere reciprocamente congeniali. Era un segno che la grande distanza dei luoghi di vita ci avrebbe probabilmente divisi. Ne ebbi una stretta al cuore. Presoffrivo già quasi tutto e reagii pensando che dovevamo avvalerci al massimo del nostro stare insieme, finché durava.

Ci frequentavamo soprattutto per parlare e fare l’amore. In queste due situazioni funzionavamo alla perfezione. Io l’amavo perché mi rendeva evidenti diversi aspetti dell’anima umana e dell’anima mia con frasi sintetiche e incisive tanto che lasciavano in me impronte profonde.

Poi mi piaceva il suo stile, alto e nobile. Faccio un esempio.

Una sera, un sabato sera di agosto, le dissi che il giorno dopo sarei andato a Szeged con altri studenti del corso estivo per la Carmen di Bizet cantata nella piazza di quella città trasandata. “Assomiglia a una piazza davanti alla stazione”[3]. Le chiesi se volesse venirci.

 Rispose che si sentiva stanca e pensava di non essere troppo interessata a sentire di nuovo cantare la storia della zingara e dei suoi amori malati a morte. La cosa mi spiacque non poco, siccome non avevamo ancora molti giorni di quell’estate precipitosa da vivere insieme, e sapevo che, finita Debrecen, non avremmo avuto tante altre occasioni, anzi probabilmente sarebbe finito tutto il nostro periodo felice. Ancora di più però mi spiacque il suo disinteresse per il melodramma, uno dei miei preferiti oltretutto.

Allora, per provocarla, quasi per ripicca, le chiesi che cosa avrebbe fatto se, durante la gita, io l’avessi tradita.

“Mi dispiacerebbe molto”, rispose.

“Sì - la incalzai - ma tu come reagiresti?”

“Non lo so, forse ti lascerei. In ogni caso non ti tradirei. Perché io ti rispetto”.

Disse I respect you con un filo di voce, senza aspettarsi una risposta, perché sentiva il rispetto come un’esigenza sua. O almeno così credetti in quel momento e per qualche settimana successiva, fino a quando me lo lasciò credere.

Quella sera, poi, con voce angelica aggiunse: “so che il tradimento adesso è di gran moda, it is a deed in fashion, ma io non seguo le mode”.

“Fai bene - le dissi - la moda infatti è sorella della morte[5] e le mode di questa età scolorita sono plumbee, fanno affondare. Anche io ti rispetto, non dubitarne, e perdona la mia ipotesi stupida assai, e volgare. Non venendo a Szeged mi dai un dispiacere, ma con la tua risposta mi hai donato una grande e bella lezione di stile e dignità, mi hai reso migliore. Io non posso tradirti. Io ti amo”.

Allora Päivi mi accarezzò il viso dicendo: “sei aquilino come il tuo naso, sai volare, non sei camuso e tellurico”. Già le risposi “come il cavallo nobile del cocchio alato di Platone: ejpivgrupoς, non simoprovswpoς[6]”. Quindi le raccontai il Fedro e le dissi che il nostro amore mi faceva spuntare le ali.

“Anche a me” fece lei.

 

 

p. s. la prima redazione risale al 1984 più o meno dieci anni dopo l’evento, la seconda al 2016.

Nel frattempo alcuni falsi amici mi hanno abbandonato perché si vergognano della mia povertà, disprezzano il mio fare le vacanze in bicicletta, il mio dormire negli ostelli dalle cui terrazze non ho la veduta tronca a guardar le stelle e il mare, insomma tutta la mia vita da mendico. In verità sono prima di tutto un accattone della bellezza, dell’amore, degli affetti che gli adoratori del vitello d’oro non possono darmi.

Intanto il mio blog è arrivato a 462740 in 1453 giorni alla media di 318 letture al giorno. Di questo sono ricco e felice.

Giovedì terrò una conferenza sul mito del tutto sine pecunia nella biblioteca Scandellara di Bologna.

 

Riveduto e migliorato il 26 settembre 2018

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Riveduto e perfezionato il 4 agosto 1919

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Oggi 20 aprile 2020 questo blog è arrivato a 930461 letture alla media di 353 al giorno da 2635 giorni. Senza alcuna raccomandazione se non la ricchezza di significati delle mie pagine cioè la mia ricchezza di mendicante.

Siamo arrivati al 4 settembre del 2021. E’ già pomeriggio avanzato, quasi notte. Sento presagi di inverno. E’ comunque cosa bellissima e ottima esserci ancora con tanta voglia di fare. Come quando ero bambino.

 

 

1 Sangue di toro di Eger, è un vino rosso già menzionato in capitoli precedenti su Helena e Kaisa.

2 Cfr. D’Annunzio, Meriggio, v. 1.

3 Cfr. D’Annunzio, Stabat nuda aestas, v. 3.

4 Claudio Magris, Danubio, p. 303.

5 Cfr. l’operetta morale di Leopardi Dialogo della moda e della morte del 1824

 Moda: Io sono la Moda, tua sorella.

Morte: mia sorella?

Moda: Sì, non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

6 Cfr. Platone, Fedro, 253d - e.

 

 

La storia di Päivi 17. La delicatezza di Päivi. Le dimissioni di Nixon

 

Ricordo un altro episodio.

Päivi ed io eravamo seduti a un tavolo sulla terrazza della casetta[1] di fianco allo stadio. Alcuni ballavano, altri scherzavano, altri, come Danilo, seguitavano a bere.

Accanto a noi c’era Bruno con il quale facevo una discussione animata, quasi polemica, in italiano, pronunciato per giunta da me con la cantilena pesarese che allunga le vocali, mentre le parole della lingua nostra venivano apocopate alla romana dall’amico dell’Urbe. L’argomento non era importante, tanto che non lo ricordo. A ciascuno di noi due importava solo prevalere sull’altro. Con insensatezza giovanile.

A Päivi traducevo l’essenziale, ma la mia compagna rimaneva comunque esclusa dalla discussione concitata.

A un tratto venne a parlarle in finlandese e invitarla a ballare, il suo insegnante di ungherese, un uomo di qualche valore, mi aveva detto lei stessa, poiché la motivava a studiare una lingua che era sì imparentata con la sua, ma era pure inutilizzabile fuori dai confini delle loro terre.

Bello, per fortuna, il professore ungherese bello non era. Ma nemmeno tanto brutto da fare schifo a una donna.

Päivi mi chiese il permesso di seguirlo. Io ovviamente glielo diedi.

Come potevo non darglielo? Dimmelo tu lettore, come potevo?

I due ballarono a distanza rispettosa invero, dico rispettosa nei miei confronti, quindi sedettero a un tavolo non lontano e ben visibile dal nostro.

Ogni tanto lanciavo un’occhiata obliqua verso di loro, prima con curiosità, poi con una certa apprensione: mi sembrava che parlassero volentieri e non senza una certa intesa. Quasi come noi due la prima sera, povero me!

Di Päivi mi fidavo, poiché non mi dava l’idea dell’adultera: dopo tutto era la mia prima finnica di quattro che non commetteva adulterio facendo l’amore con me. Un valore che scarseggiava già allora, e forse da sempre nel mondo. La fedeltà dico.

Lei dunque non era tra le pregiudicate, seppur cristescamente perdonate quali infedeli, eppure la situazione che si stava creando, dal mio punto di vista non era simpatica: in fondo la compagna che amavo aveva lasciato il nostro tavolo dove stavamo uno accanto all’altra per andare a sedersi altrove, con uno che non le dispiaceva e quasi sicuramente le faceva la corte. Del resto non potevo chiederle di tornare seduta dove io e Bruno discutevamo in italiano e con una certa foga.

Päivi però si accorse che la sua assenza mi metteva in ansia, mi faceva soffrire, e dopo pochi minuti tornò. Disse che preferiva guardarmi mentre parlavo nella mia lingua, anche se non traducevo, piuttosto che dialogare nella sua con qualsiasi altra persona. Questa delicatezza, “poi che il sospecciar fu tutto spento” [1], mi motivò a fare del mio meglio per evitarle dispiaceri o apprensioni.

Io amo la delicatezza [2]. Ora più che mai c’è grande carenza di questa virtù, e mi manca.

 

Ricordo un’altra una sera di agosto, intorno al 10.

Päivi e io stavamo cenando con tanti altri nella mensa dell’Università di Debrecen. A in certo momento passò una voce che divenne presto un grido di giubilo: Nixon resigned! Ci fu un applauso scrosciante da parte di tutti noi: Europei, Sovietici d’Asia, Vietnamiti e altri orientali.

Io e Päivi ci alzammo come tutti gli altri. Ci abbracciammo, ci baciammo, e abbracciammo anche altri vicini a noi, ragazze e ragazzi di allora. Avevamo le lacrime agli occhi. Lacrime di gioia. E’ stata una delle sere belle di mia vita mortale. Il successivo abortimento della nostra bambina, le stragi di stato, l’egoismo, il capitalismo incontrollato e il conseguente virus globale con tutti gli altri orrori compresi nei 47 anni seguenti non potranno mai annientare la felicità di quella sera e di quel mese dell’estate del 1974 anche se già in autunno vidi la fine delle mie gioie

 

 

[1] Cfr. Dante, Inferno X, 57.

[2] "e[gw de; fivlhmmajbrosuvnan" Fa parte di un frammento di Saffo (58 Voigt) trasmesso dal Papiro di Ossirinco 1787

 

 

La storia di Päivi 18. Il Budaörsi kollegium di Budapest, mausoleo del nostro amore

 

Nel 1974, dopo il mese di Debrecen, il corso estivo ebbe un’appendice di qualche giorno a Budapest. Di lì facemmo una gita a Visegrád, situata su un’ansa del Danubio, dove il grande fiume divide l’Ungheria dalla Slovacchia. A Buda eravamo alloggiati nell’enorme Budaörsi kollegium dove potemmo avere una camera tutta per noi: la 717 del settimo piano. Il collegio era tutt’altro che bello; non era nemmeno vicino alle strade del centro dove la città sfoggia gli edifici venusti, come fa una donna vanitosa con i vestiti eleganti, i monili raffinati e le pietre preziose.

Eravamo dunque lontani da luoghi ameni, da posti eleganti e da ogni sfarzo costruito, scolpito o dipinto. Eravamo comunque felici. Ricordo un pomeriggio. Affacciati all’alta finestra, senza avere niente da fare, né compagni da frequentare siccome molti erano già partiti, né i nostri libri da leggere, aspettavamo la pioggia da una nuvola inquieta che prima aveva trasformato il sole splendente in un’ombra arancione, poi l’aveva cancellato del tutto, quindi si era allungata in un cono nero e vorticoso fino alla collina del Gellert, risucchiando con il suo turbinare le foglie già cadute da tempo e diventate secche nella polvere della lunga canicola già prossima al termine. La vacanza era quasi finita, finiva l’estate, probabilmente anche l’amore nostro era vicino all’ultimo giorno, e stavamo là senza far niente. Eppure tra noi non c’era angoscia né noia. La pena non c’era perché sentivamo che i doni reciproci sarebbero comunque rimasti a nutrire e arricchire per sempre gli spiriti nostri. Il tedio nemmeno siccome tra noi lo scambio di idee e sentimenti dettati dalla simpatia e dalla curiosità dell’uno per l’altra era ancora vivace e frequente.

Gioivamo di ogni istante spremendolo in bocca, con i denti, la lingua e il palato, come se quei minuti fossero un alimento prezioso che ci avrebbe nutrito per anni. A questo punto della parabola ne sono passati più di quarantasette. E ancora quel sapore rimane.

Le nostre parole, sebbene non dette nella lingua madre, sapevano sempre di vita, di lavoro, di umanità, donne bambini e uomini, di fatti reali o progettati. Insomma non erano chiacchiere né luoghi comuni. Vedevamo ogni cosa come problema, un ostacolo che ci faceva saltare e salire sempre più in alto.

Dopo quei brevi giorni felici vissuti al Budaörsi, se passo davanti a quella tomba monumentale dove giacciono i nostri ricordi, situata come un guardiano alla porta occidentale di Budapest, a sinistra per chi proviene dall’Italia e dal Balaton, mi fermo a osservare l’alta facciata grigia, individuo la camera nostra, la 717 del settimo piano, la contemplo a lungo, ricordo la sera nuvolosa che segnò la fine dell’estate del 1974, e mi chiedo quando troverò di nuovo una donna dalla mente così lucida, dallo stile tanto elevato, e capace di non annoiarmi mai con la sua presenza, di non prosciugare né intorbidare le mie energie mentali, di non farmi sciupare il tempo prezioso, il tempo pur troppo breve di questa vita mortale che scorre a precipizio sulla nostra bellissima madre terra.

Il tempo è davvero l’unico bene che considero veramente mio: “omnia… aliena sunt, tempus tantum nostrum est”1. Tanta roba mi hanno rubato, ma il tempo non me lo sono mai lasciato portare via.

 

 

 [1] Seneca, Epistulae, I, 3.

 

  

La storia di Päivi 19. Il bagno catartico nel Danubio

 

Come epilogo dell’amore di Päivi in Ungheria, ricordo il tardo pomeriggio del 25 agosto, il giorno della “gita scolastica” a Visegrád dove il Danubio si incurva tra le colline.

Ero immerso nella corrente vicino alla riva con alcuni altri giovani del corso estivo: ricordo l’Austriaco cieco, quello che suonava il piano al ricevimento del Rettore [1], Antonella, la fanciulla claudicante di Roma, Fabrizia, una ragazza bruttina di Reggio Emilia, e Danilo.

Päivi era seduta sulla sabbia lucente alle mie spalle.

Il sole al tramonto, luminoso senza essere caldo, non le dava fastidio.

 Ricordo quell’ora, forse le sei di sera, come una delle più lucide di questa mia vita terrena: tanta chiarezza sentivo in me e proiettavo su tutte le persone e le cose, che intravvedevo l’esistente conciliato con l’Essere, con Dio. Come in un quadro di Raffaello Urbinate o di Piero della Francesca da Borgo Sansepolcro, il paese della madre mia, la bella mamma dai capelli bruni bruni, dal naso aquilino, dalle gambe perfette e dai preziosi occhi azzurri, gli zaffiri che non ho ereditato.

 

La mia donna seduta sulla riva indorata dal sole e dall’acqua sfavillante dei suoi lucidi raggi, Päivi, la luminosa, la Fedra, era buona, era attraente, era di stile elevato, e aspettava una bambina da me; con lei potevo avere progetti di amore e di vita; anzi la mia vita attraverso quella figlia sarebbe scorsa qui sulla terra, come la corrente del fiume nella luce del sole, ancora dopo la morte mia che non mi faceva paura perché sarebbe stato un ritorno nella divina armonia del cosmo; intanto Antonella, mentre nuotava, sembrava avvalersi di gambe aggiustate nell’acqua scintillante che appianava ogni ostacolo; il cieco sorrideva con gioia, ringraziando, forse, il dio onnipotente e misericordioso che gli aveva restituito il lume degli occhi: la vile gelatina [2], illuminata dai raggi risanatori del tramonto sereno pareva contemplare la bellezza del mondo con stupore riverente e commosso.

Di Fabrizia, quella sacra armonia aveva messo in risalto gli aspetti più belli: il florido seno, la bocca ridente, lo sguardo pulito, rendendola dolce e attraente.

Danilo, “sotto infino al ciglio” [3, finalmente beveva dell’acqua, sorseggiandola maesto cum murmure, rimpiangendo forse il succo dell’uva, senza sapere che l’ottimo liquido [4], il migliore di tutti, gli allungava la vita abbassandogli il tasso alcolico e purificando la corrente del sangue troppo scura e densa quia musto plena erat [5].

Così si sarebbe salvato, forse per sempre dall’ intemperantia bibendi di quell’altro liquido, dionisiaco quanto si vuole, ma oramai di dubbio effetto benefico per lui.

Stavamo facendo un bagno catartico che ci toglieva grinze e difetti, spianava ogni gibbosità, appulcrava miserie e brutture quae discors protulerat natura [6], prodotte dalla natura in discordia con se stessa. 

Mi mancavano alcuni amici, soprattutto Fulvio con il suo caos illuminato da lampi [7].

Eppure nel petto mi sentivo un cuore pieno di mitezza e di forza: ero certo di amare Päivi, credevo di volere un figlio, di poter aiutare il prossimo nostro; insomma mi sentivo in sintonia con il mondo pieno di luce e di bene, anzi mi pareva di assomigliare a dio, poiché ero uscito dal mio narcisismo, amavo una donna e avevo progetti di vita, di creazione con lei. Quel momento epifanico non sarebbe più tornato e la bambina non sarebbe nata mai. Eppure non mi sbagliavo del tutto. La creatura sarebbe stata questa storia che sto scrivendo e costituisce un figlio adottivo in sostituzione di quello in carne e ossa, che non abbiamo lasciato nascere. Questo mio scrivere è anche un’ammenda per impetrare perdono di tanto misfatto.

 

 

Cfr. Il primo capitolo di questa storia.

2 Cfr. Shakespeare, Re Lear III, 7. Il duca di Cornovaglia marito di Regana, strappa il secondo occhio a Gloster e dice: “out, vile jelly!” 

3 Dante, Inferno XII, 103.

4 Cfr. Pindaro: a[riston me;n u{dwrOlimpica I, 1, ottima è l'acqua

5 Cfr. Actus Apostolorum 2, 13

6 Cfr. Lucano, Pharsalia, 559 - 590

7 “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Prefazione, 5.

  

La storia di Päivi 20. La rosa bianca di Josiane

Dopo il tramonto salimmo, per cenare, al ristorante Silvanus alto cinquecento metri sui colli che sorgono sul gomito dell’Istro, il grande fiume verde di foglie e biondo di sabbie ancora memori della luce del sole.

Il Danubio incurvato tra i monti, da lassù sembra il lago di Como visto dalla Madonna del Ghisallo. Avrei voluto dare sfogo alla gioia scalando anche quella salita con la bicicletta. A occidente indugiava ancora la luce della giornata bella, ma la temperatura si era abbassata di non pochi gradi.

L’estate tremava sulle soglie dell’autunno che l’avrebbe calpestata [1] e annientata poco prima di venire a sua volta intorpidito e paralizzato dalla bruma invernale, quella che fa zittire gli uccelli [2], o li uccide [3].

D’altra parte se l’autunno già bussava alle porte, la primavera non poteva essere troppo lontana [4]. 

 Un vento fresco, quasi settembrino, muoveva adagio gli aghi dei pini che profumando e sussurrando, mi suggerivano ancora sensazioni e pensieri buoni. I lunghi capelli di Päivi, mossi e sollevati dall’aria, sembravano fili di seta protesi verso una realtà ultraterrena: il paradiso sperato del nostro amore.

Poco più tardi, mentre mangiavamo con moderazione, al nostro tavolo venne Josiane, l’ex ragazzina francese che una sera oramai già allora lontana [5] aveva ingelosito Elena, la bella finnica incinta del 1971.

In quel tempo la graziosa diciottenne mi sorrideva senza uno scopo preciso, come fanno spesso le adolescenti, e io la contraccambiavo con un sorriso da satiro invecchiato, già quasi un sileno [6], sebbene non avessi ancora compiuto ventisette anni. Il fatto è che avevo giurato il mio amore e avevo fatto l’amore con una donna che si era appena scoperta pregna di un altro uomo. Eppure quella deliziosa pulzella mi attirava parecchio.

Passati tre anni, tutto era diventato più chiaro e diritto. C’era più verità, c’era più stile in entrambi.

Sempre carina e gentile, e un poco più matura, come me d’altra parte, dopo cena, la ragazza mi porse una rosa bianca dicendo: Magister, tibi”. Presi il fiore e la ringraziai, contraccambiando la sua simpatia.

Le dissi, citando Thomas Mann: “une fois déjà, je t’ai demandé ton crayon, pour faire enfin ta conaissance mondaine”[7]. Poi mi alzai e la baciai sulla fronte. Josiane capì che la congedavo e se ne andò, questa volta forse per sempre. Dico forse perché non mi dispiacerebbe che leggesse queste righe e mi cercasse. Dovrebbe essere una matura signora, una donna attraente di circa sessantotto anni. Spero che non abbia smentito il bell’aspetto che aveva.

Noi, due graziosa adolescente del 1971, abbiamo vissuto nello spirito ciò che probabilmente non vivremo mai nella carne. Una omissione non peccaminosa in quel tempo.

Ancora una volta la matita rimase inutilizzata e non ci scambiammo gli indirizzi: non volli rompere l’equilibrio che avevo trovato con me stesso, con il mondo e con la donna che aspettava una bambina, o un bambino, da me. Quella sera sapevo vedere la bellezza coniugata con la giustizia dentro tutti gli aspetti del mondo e credevo di potere trasmettere tale connubio: mi sentivo un vero maestro e un artista educatore che nella nostra breve, talora tremendamente difficile esistenza mortale, discerne la santa armonia, sa indicarla ai suoi discepoli, e può renderla manifesta a un popolo intero.

Voi lettori avete superato un milione e 164mila elementi . Siete un’orchestra numerosissima, un popolo davvero eletto.

Infatti mi leggete senza alcuna pubblicità né alcuna mia visibilità televisiva e senza che io ripeta i luoghi comuni della volgarità.

 Di questo scritto e degli altri miei vi attirano la bellezza e la bontà della vita vissuta pienamente, la cultura, l’arte e l’amore, non le conoscenze, le aderenze, le raccomandazioni.

 

 

1 Cfr. Orazio, Odi IV, 7, 10 ver proterit aestas, l’estate calpesta la primavera.

2 Cfr. Lucano Pharsalia, I, 259 volucres cum bruma coercet (259) quando l’inverno chiude la gola agli uccelli.

 3 Cfr. Eschilo, Agamennone: “ceimw'na dj eij levgoi ti" oijwnoktovnon (563), e se qualcuno dicesse dell’inverno che uccide gli uccelli.

4 Cfr. Shelley, Ode to the West Wind: “If Winter comes, can Spring be far behind?”

5 Cfr. La storia di Elena.

6 Cfr. Lorenzo de’ Medici, Canzona di Bacco

Questa soma, che vien drieto

 sopra l’asino, è Sileno:
 così vecchio è ebbro e lieto,
 già di carne e d’anni pieno;
 se non può star ritto, almeno
 ride e gode tuttavia.

7 La montagna incantata, quinto capitolo, Notte di Valpurga

 

  

La storia di Päivi 21. Tragedia e commedia

Un Prometeo da dramma satiresco

Quella sera sulla collina sopra il Danubio fu la nostra ultima in Ungheria, il culmine dell’intesa amorosa.

Da questo momento la fiamma di Eros iniziò a intiepidirsi, il suo fulmine a perdere forza e velocità. Un poco alla volta, ma irreversibilmente, come succede spesso.

 Per non cadere nel patetico sul tipo di “il grande amore sta per finire con dolore e lacrime” voglio ricordare un particolare comico e mitico.

Ciò che finisce dopo tutto non ha nessuna ragione per continuare, e va bene che termini. La fine deve essere festeggiata quanto l’inizio. Sarebbero guai molto seri se la relazione continuasse tra noia e dolore.

L’amore sparisce solo quando non può durare più a lungo nella bellezza e nella pienezza.

Le cose ontologicamente belle restano eterne, e brillano come stelle nella notte, per sempre o quasi per sempre.

 

Ora ti faccio fare due risate, lettore, per contrastare la malinconia della decadenza di questo amore e, soprattutto, il terrore della nostra mortalità.

 

Comedy escapes , la commedia è evasione, fa dire Woody Allen a un personaggio del film Melinda e Melinda.

In un altro film del medesimo autore, Crimini e misfatti, un personaggio dice: “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo.

 

La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole rappresentare personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre la commedia è imitazione di uomini peggiori rispetto a quelli di ogni giorno (ceivrou" tw'n nu'n 1448a), ossia ancora più volgari, e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo.

 "Il ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato" (aJmavrthma , 1449a).

La commedia è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono poco per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il ridicolo è un errore ed è una bruttezza indolore e non è deleterio (aJmavrthmav ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la maschera comica è qualche cosa di brutto e stravolto ma senza dolore (Poetica, 1449a).

L'errore del resto viene menzionato dal filosofo di Stagira anche per i personaggi tragici (aJmartiva, Poetica, 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce dolore né compassione. Dunque ridiamoci su.

 

Ora comprendo - ajrti manqavnw - come dice Admeto[1] il quale chiese alla sposa Alcesti di morire al posto di lui - che continuare il nostro rapporto sarebbe stato un errore tragico o comico, e che, stando insieme altro tempo, non a noi due destinato, saremmo diventati peggiori di come eravamo in quel mese del 1974.

 

Prima di arrivare alla catastrofe dunque, prendiamo tempo con una brevissima commedia, o piuttosto un dramma satiresco, con un uomo come protagonista umano, un’aquila, l’uccello di Zeus, quale deuteragonista, e il coro formato da una brigata di avvinazzati.

 

Sulla terrazza del ristorante Silvanus dove mangiavamo, volteggiava l’uccel di Dio[2]. Da un tavolo non lontano dal nostro si faceva notare Danilo che l’insana dulcedo perpotandi[3] aveva spinto ad alzare il gomito innumerevoli volte.

Alla levata di ogni bicchiere gridava: “Chi non è vil, mi segua” come un condottiero che vuole arginare una rotta imminente.

Poi gli veniva in mente Francesco Redi e citava:

“Passavoga, arranca, arranca,
 ché la ciurma non si stanca,
 anzi lieta si rinfranca
 quando arranca inverso Brindisi:
 Arianna, brindisi, brindisi.
 E se a te brindisi io fo,
 perché a me faccia il buon pro,
 Ariannuccia vaguccia, belluccia,
 cantami un poco, e ricantami tu
 sulla mandola la cuccurucù,
 la cuccurucù
 la cuccurucù,
 sulla mandola la cuccurucù”.

 Poi tra un sorso e l’altro della computazione augurava salute a tutti, assenti e presenti, e da uomo colto qual è, recitava senza alcuno sforzo anche la parte di Eracle beone nell’Alcesti di Euripide: “eu[fraine sauto;n, pi'ne, to;n kaq j hJmevran - bivon logivzou so;n, ta; d j a[lla th'ς tuvchς”[4].

I suoi commensali già impregnati di aperitivi lo ascoltavano, probabilmente senza capirlo, poi ripetevano i due trimetri con storpiature puntualmente corrette dall’improvvisato capobanda che si sbracciava mimando le mosse di un direttore d’orchestra.

Ogni tre minuti qualcuno toglieva da una nuova bottiglia il tappo a forma di fungo, lo liberava dalla sua prigione di fil di ferro e versava il nobile liquido per elettrizzare lo stomaco con il suo gelido e profumato frizzare. Il vino scendeva rapido come un torrente montano nei gargarozzi profondi di questa brigata dall’aria allegra.

Il tripudio dionisiaco non poteva restare privo di danze: ogni tanto il corifeo gridava: “babai' coreu'sai parakalei' m j oJ bakcio"[5], quindi si metteva a danzare tra gli applausi frenetici del resto del coro e di noi spettatori.

Come ebbe smesso il ballerino, soddisfattissimo, disse: 

"Accedant capiti meo cornua Bacchus ero" 5bis 

 Dopo le libagioni a tutti gli dèi del cielo, della terra e del sottosuolo, il capo del tiaso, il dotto simposiarca giurò sull’ennesima coppa che non vi avrebbe mai versato dell’acqua[6], poi, oramai farfugliante si distese sopra la tovaglia. Ancora un goccio, un breve schiamazzo fatto di strani versi, e stramazzò. Le braccia e le mani non avevano più la forza di reggere nemmeno un bicchiere minuscolo. 

Aveva indosso calzoni corti e bretelle. Pochi minuti più tardi dormiva, o, forse, era svenuto.

Dopo avere salutato a gesti l’addormentato sul tavolo, i suoi compagni di canti, declamazioni e bevute, una masnada di grossi Russi inclini alla crapula, se ne erano andati. Un’aquila in cerca di cibo per sé e forse anche per gli aquilotti, visto l’uomo solo e resupino, probabilmente lo aveva scambiato per Prometeo legato sulla rupe scitica e voleva strappargli il fegato.

Calò un paio di volte su di lui, ma poi cambiò la direzione e l’intento: il grande rapace arrivato a pochi metri dalla sua preda, respinto e sconvolto dall’odore acre dell’alcol più volte esalato a soffioni , si impennò verso il cielo con una virata così repentina che una delle “sacre penne”[7] le cadde da un’ala e si posò sulla fronte dell’ebbro dormiente facendone una specie di alpino che sogna la libera uscita con la ragazza senza mutande, non senza, però, la bottiglia. 

Lo feci notare a Päivi e commentai la strana visione dicendo che il grande uccello, colpito dall’esalazione eruttata dall’amico imbevuto, non se l’era sentita di andare a frugare nelle sue viscere e aveva ripreso la via dell’etere puro.

 “Il cane alato di Zeus, l'aquila sanguinaria non aveva fatto a brani, voracemente, il grande straccio madido del suo corpo e tanto meno ne aveva inghiottito il fegato, nero pasto"[8].

Utilizzai opportunamente Eschilo non senza confessare il mio debito al grande maestro.

Päivi mi guardò con ammirazione e disse: “in te c’è qualche cosa di folle e pure di geniale”

“Ce la metto tutta per sembrarti geniale - risposi - è questa apparenza che ti ha attirata e spinta ad amarmi. Con questa cerco di trattenerti”.

May be[9] replicò senza scomporsi, anzi accentuando la sua solita aria da Sfinge.

Avrai notato, lettore, che quando l’amore è in fase calante si parla con scarsa chiarezza. Per non impegnarsi, perché si è già capito che il tempo concesso da Eros è scaduto. Lo stesso avviene nella fase incipiente quando non si è ancora giunti a decidere e tutto può essere: “may be” replicava pure alle mie prime proposte.

Intanto Danilo si era svegliato e non trovando i compagni si mise a gridare tra i fumi dell’alcol e quelli del sonno. “Dormite iam et requiescite? Sufficit, venit hora[10]. Basta l’ora è giunta”, tradusse. Quindi concluse: “Questo è tutto”. E si addormentò un’altra volta. Non lo incontreremo mai più. Tuttavia sono contento di farvi sapere che è ancora vivo.

  

[1] Euripide, Alcesti 940

[2] L’aquila in Dante, Paradiso, VI, 4.

[3] L’insano piacere di bere a dismisura. Era uno dei vizi di Alessandro Magno secondo Curzio Rufo ( Historiae Alexandri Magni, (VI, 2, 2)

[4] Alcesti, 778 - 779, rallegrati, bevi, conta come tua la vita di ogni giorno, il resto è della sorte.

[5] Euripide Ciclope, 156. oh, Bacco mi invita a danzare!

5 bis Cfr. Ovidio, Heroides, 15, 24. Si aggiungano le corna al mio capo, sarò Bacco.

[6] Cfr. Aristofane, Lisistrata, 197.

[7] Dante, Paradiso, VI, 7.

[8] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv, 1021 - 1025

[9] Può essere.

[10] N. T. Marco 14, 41).

 

 

La storia di Päivi 22. La partenza dalla Stazione orientale di Budapest

 

Il giorno dopo, lunedì 26 agosto, alle quattro del pomeriggio, Päivi partì dalla Keleti Pályaudvar, con il treno azzurro che la portava verso i laghi azzurri della sua terra.

Disse: “Gianni, mi mancherai tanto: ti penserò, ti sognerò, ti scriverò”.

E io: “Aspetterò notizie da te. Se le manderai, ti risponderò subito; se non lo farai, ti scriverò lo stesso. In ogni caso dentro di me conserverò, anzi farò crescere, tutto il Bene che ho ricevuto da questo nostro amore.

Non dimentichiamocene, Päivi. Non dimenticarmi. Io ti amo”

“Anche io” rispose, e salì sul treno, e questo partì.

In quel momento volevamo mantenere vivo l’amore che ci aveva reso migliori, forse pensavamo anche di lasciar nascere il nostro figliolo.

Infatti quasi sicuramente era incinta. Non aveva fatto il test di gravidanza, ma il ritardo era di tre settimane e Päivi diceva di sentirsi in attesa. Di una bambina, diceva. Io le avevo detto che a un maschio avrei preferito di molto una femmina simile a lei, a mia madre e a me.

Durante il viaggio tra Budapest e Danzica, mentre era seduta nel corridoio del treno gremito, scrisse che le mancavo, ma che il nostro “divorzio” poteva essere un bene, appunto perché le faceva capire quanto mi amava.

Di questo ero assolutamente felice, ma della nascita di una creatura nostra, quando fui rimasto solo pensandoci continuamente, avevo paura, per Päivi, per la creatura, e per me. Tra noi c’era un’enorme distanza spaziale e, per giunta, avevamo entrambi problemi di lavoro, di alloggio, di studio, anche vivendo ciascuno per conto proprio, figuriamoci insieme.

Questo pensavo, ma non glielo scrissi, poiché aspettavo una notizia sicura sulla gravidanza, vera o presunta che fosse, prima di affrontare direttamente il problema, e volevo sentire il parere di Päivi sull’argomento che riguardava sì entrambi, ma prima di tutto lei.

Amor matrissubjective and objective genitive [1].

Le scrissi soltanto che la amavo molto, fino a sentirmi spiritualmente impregnato di lei, come lei lo era di me.

Dalla stazione di Varsavia, il 27, mi spedì una cartolina con un volto: quello di una bambina simile a me nei colori scuri degli occhi, della pelle, dei capelli, e a lei nei lineamenti: il naso piccolo, gli zigomi sporgenti, le palpebre molto allungate verso le tempie. “Occhi da Kirghisa” [2].

La cittina [3] aveva una forma esotica e piena di carattere, come la sua.

Dietro, c’erano queste parole: “Vorrei che tu fossi qui presente, ma anche così ti sento vicino. Perciò, pur stando in disparte dagli altri finlandesi, non mi sento sola: non lo sono, perché ho sempre con me un forte sentimento e una forte memoria di te. E ne sono felice. “I am happy because I remember you and I feel now that you are away near me. I can be alone without feeling myself alone because I have so nice memory of you”.

Quando ricevetti questa cartolina ne fui felice, nonostante la grande paura di essere padre senza averlo deciso.

A mano a mano che si avvicinava alla Finlandia però, come se accogliesse nella mente e nel cuore la freddezza del cielo scolorito che le stava sopra la testa 4, Päivi inviava messaggi sempre meno calorosi.

  

1 Cfr. Joyce, Ulysse , p 26 

2 T. Mann, La momtagna incantata, vol I p. 163.

3 Toscanismo (per lo meno di Sansepolcro) per “bambina”. Così chiamavamo mia sorella Margherita in casa.

4 Cfr la Medea di Seneca che dice a se stessa: “inhospitalem Caucasum

mente indue" (Medea, v. 43) indossa mentalmente il Caucaso inospitale.

 

 

La storia di Päivi 23. La partenza per la Finlandia. Il nobile gesto di Alfredo


I visitatori del mio blog sono diventati 1164622, e io continuo a scrivere con maggior lena, siccome ho questa prospettiva sicura: una quantità e, credo, una qualità di lettori che mancano alla maggior parte degli scarabocchiatori pennivendoli i quali si elogiano o si beccano a vicenda in quella gabbia dei raccomandati e ripetitori di pubblicità, di banalità, di falsità che è la televisione.

Credo che siano davvero pochi i lettori dei luoghi comuni continuamente ripetuti dai tanti gazzettieri e pennivendoli. Più numerosi sono tali pseudoscrittori dei lettori reali.

 

Dice bene Leopardi: “Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[1].

Se non avessi avuto il vostro riscontro, lettori, giudici veri di queste righe, non avrei continuato.

 

Riprendo dunque con la storia di Päivi. Il vostro aedo, sebbene già vecchio, unisce le Grazie alle Muse, dolcissimo tiaso e fa risuonare la Memoria[2].

 

Dalla nave tra Danzica ed Helsinki, il 28 agosto, Päivi scrisse che soffriva la mia mancanza, tuttavia doveva prepararsi a passare un lungo periodo senza di me; il 30, appena sbarcata, aggiunse che la Finlandia fredda e semivuota non le piaceva, ma questo non la esentava dal dovere di lavorare e vivere nella terra che era comunque la sua e lei le apparteneva.

 Al messaggio che mi annunciava lo sbarco, seguirono due settimane di silenzio del quale non mi preoccupai troppo , siccome pensavo che la probabile pregnante avesse bisogno di tempo per sapere con certezza se davvero aspettava un figlio, e se lo voleva. 

Dalla sua decisione avrei fatto dipendere la mia.

La lettera fatale arrivò verso metà settembre a Pesaro, dove mi trovavo in attesa di notizie da Yväskylä, mentre aspettavo l’inizio del nuovo anno scolastico a Bologna dove avevo ottenuto il trasferimento dopo cinque anni di insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta. Un ciclo scolastico, e di vita, esaurito. Rimanevano e sarebbero rimasti alcuni affetti belli.

Päivi aveva scritto che il figlio presentito lo aspettava davvero, ma non sapeva se esserne felice o triste: voleva parlarne con me. Intanto lo stava facendo con il suo ex “boyfriend”, un certo Jussi un architetto, un uomo che lei, mi aveva detto a Debrecen, aveva lasciato nella primavera precedente poiché la annoiava, nonostante fosse una persona discretamente creativa. Aveva aggiunto che comunque non le piaceva. Questo ex compagno le aveva proposto di tornare con lui, da lui, anche con il figlio di un altro, se voleva tenerlo; ebbene, tanta devozione l’aveva commossa, ma lei aveva bisogno di me per parlare e decidere che cosa fare. Chiedeva il mio aiuto in quanto si sentiva come sdoppiata o divisa, e non poteva vedere da un solo punto di vista, cioè unitariamente, la sua situazione triste e felice.

In ogni caso era sicura di amarmi: la sera, andando a letto, sperava di ammirare il mio volto in qualche bel sogno; di giorno, aspettava il mio arrivo. D’altra parte era ben cosciente che l’amore per me e la nascita della nostra creatura, potevano diventare problemi seri, ossia ostacoli, alti e impervi come montagne, ai suoi studi che la interessavano sempre molto, probabilmente sopra ogni altra cosa al mondo.

Io volevo l’amore di Päivi, o piuttosto volevo continuare a pensare che Päivi mi amasse, e finché ne ebbi bisogno per accrescere la mia identità, e fino a quando non fu del tutto impossibile continuare a pensarlo, lo feci. Di fatto, tale illusione mi stimolava a studiare, a riflettere, a comprendere.

Però in quel tempo, sulla soglia assai vicina dei trenta[3], non sapevo se volere la bambina attesa: da una parte la desideravo, dall’altra avevo paura che il pensiero e l’occupazione di un figlio avrebbe messo dei ceppi ai miei piedi ancora agili.

Anche io, come Päivi volevo imparare dai libri senza ostacoli di nessun genere, se non altro perché mi ero identificato con lei, con quanto affermava, con l’immagine che dava di sé.

Invero è da allora che ho cominciato a studiare seriamente, metodicamente e pure un poco maniacalmente: prima con fatica, poi con scioltezza, quindi con piacere.

Infine studiare è diventato un bisogno, una necessità, come mangiare, bere e respirare, come pedalare la bicicletta sulle salite con rapporti duri.

 Come per i sacerdoti santi è necessario pregare, o sedurre per i seduttori professionisti.

Comunque in quei giorni del settembre del 1974 volevo un colloquio tra noi e avrei voluto che la decisione sulla creatura nostra la prendessimo insieme. Così andai a prenotare un posto nel primo aereo per Helsinki che partiva da Rimini alle 14 del 20 di quel mese fatale. Il giorno seguente sarebbe iniziato l’autunno, in tutti i sensi.

Del resto se l’autunno stava arrivando, la primavera non era più tanto lontana.

Un’ora prima che il velivolo prendesse il volo, all’aeroporto arrivò Alfredo da Roma, appositamente per incoraggiarmi a fare nascere “la finlandesina bella e intelligente”, disse, e mi diede un regalo, un fazzoletto di ottimo gusto da portare alla mia donna, alla nostra amica, disse.

Fu un segno di anima fine, delicata, e lo ricordo in onore dell’amico che, carente di successi con le ragazze, a Debrecen si era sentito compreso e rassicurato dalla mia compagna impegnata a capire le debolezze degli esseri umani. Forse perché dietro la sua apparenza calma e sicura, dietro quel volto da donna abituata a pensare i pensieri intelligenti che avevano formato tutto il suo aspetto, sotto quei lunghi capelli fulvi, simili a una nuvola che rosseggia per i raggi infiammati del sole cadente, sotto quella chioma da leonessa bipede, era una debole creatura anche lei.

Nel 1918 l’amico Alfredo è morto. Poi è morto Fulvio, amico ancora più caro. Le belle persone di un tempo scompaiono una per volta. Anche io un giorno sono nato e un giorno morirò, ma fino a quell’ultimo continuerò a studiare, non senza unire le Grazie alle Muse, come il vecchio maestro e amico Euripide.

 

Con l’avvicinarsi della catastrofe, la storia diventa sempre più soggettiva, poiché la soggettività è un segno di decadenza. Il nostro rapporto stava naufragando nell’individualismo e nell’egoismo dell’uno e dell’altra.

 


[1] Leopardi, Zibaldone, 146.

[2] Cfr. l’Eracle di Euripide: "non cesserò mai di unire le Grazie alle Muse ta;" Cavrita" - tai'" Mouvsaisin, dolcissimo connubio. Che io non viva senza la Poesia ma sia sempre tra le corone. Ancora vecchio l'aedo fa risuonare la Memoria"( e[ti toi gevrwn ajoido;" - keladei' Mnamosuvnan, vv. 673 - 679).

[3] …”Ed ecco la trentina

inquietante, torbida d’istinti

moribondi (…) ecco poi la quarantina

spaventosa, l’età cupa dei vinti,

poi la vecchiezza, l’orrida vecchiezza

dai denti finti e dai capelli tinti”.

Guido Gozzano, I colloqui, 10 – 15

 

 

La storia di Päivi 24. La penultima lettera con tristi annunzi

 

Il 18 settembre Päivi mi aveva spedito una nuova lettera, la penultima di tutta la storia, un’epistola che potei leggere soltanto quando fui tornato in Italia. Diceva con grande tristezza e una certa freddezza che presto si sarebbe fatta ricoverare per altre analisi nell’ospedale di Oulu, la cittadina prossima al circolo polare dove la giovane pregnante aveva la residenza anagrafica, l’assistenza medica e la famiglia. Nella casa dei genitori tuttavia non avrebbe potuto nemmeno posare i bagagli, perché loro non sapevano niente della sua situazione, e, quindi, si sarebbe appoggiata al sostegno dell’amico Jussi.

Inoltre aveva scritto che si sentiva dicotomizzata in due persone: una cui erano capitati tutti gli eventi dell’estate passata, mentre l’altra li guardava da fuori, come un’estranea,

“Io agisco e reagisco come due donne diverse. C’è qualche cosa di schizofrenico in me”.

Aveva bisogno di aiuto, ma i medici non potevano darglielo; anzi da loro temeva domande moralistiche che l’avrebbero resa aggressiva. Eppure era con tali persone che doveva trattare.

Io le mancavo e ancora mi amava, aggiungeva; però non chiedeva più la mia presenza.

Anche se non lo diceva esplicitamente, aveva già deciso di eliminarmi dalla sua vita. C’è come una marea nelle vicende amorose. Flussi e riflussi con donne diverse. La marea della vita. Come un uccello le penne o un serpente la pelle, Päivi stava mutando la mente di amante benevola e fedele verso di me: un poco alla volta si spogliava dell’amore che le avevo ispirato a Debrecen con il soccorso di Eros fanciullo e di sua madre, Afrodite Urania o Celeste che dire si voglia.

 

Non vidi questa lettera prima di essere tornato da Yväskylä a Pesaro, altrimenti forse non sarei partito. Ma si vede che dovevo rubare del tempo al destino oramai già scosceso del nostro amore mensile. Fu una trasferta funzionale ad accettare quel fato.

Alle 14 del 20 settembre dunque salii sull’aereo. 

Mentre volavo, con l’aeroplano e con l’immaginazione, pensavo ancora che Päivi, figlio o non figlio, fosse la femmina umana ideale, perfetta per me, il simbolo che avrebbe completato lo spezzone di essere umano che ero io. In qualche modo comunque l’ha fatto. Se Päivi non c’è più, sopravvive l’ottima parte di me costruita con l’aiuto di lei.

  

La storia di Päivi 25. Notturno finlandese. Il Kalevala

 

Quando, verso le sette di sera, atterrai nell’aeroporto di Helsinki, Päivi, avvisata da un telegramma, mi stava aspettando avvolta in una pelliccia: lassù il 20 settembre faceva freddo come da noi per Natale.

I capelli non le erano caduti sotto il taglio del ferro, e le ondeggiavano lungo il dorso intabarrato.

La scorsi al di là di una parete vitrea: aveva un’aria triste e un poco sofferente, ma, a prima vista, mi parve più bella e più fine di quando ci frequentavamo nel caldo della puszta ungherese: segno che il clima artico, aspro e tagliente, le si addiceva più dell’afa polverosa esalata dalla grande pianura magiara durante l’estate troppo calda, quasi apocalittica per la sua natura di nordica chiara, tenue, e, nei momenti peggiori, quasi scolorita. A parte i capelli rossi e vivaci.

Ci abbracciammo e baciammo, ma subito dopo Päivi disse che le dispiaceva se non avevo ancora ricevuto la sua ultima lettera: lei, lunedì 23, doveva partire la mattina presto da Yväskylä per andare a ricoverarsi nell’ospedale di Oulu, dove Jussi le aveva prenotato un posto e tutte le visite necessarie.

Non disse a che cosa, poiché non ce n’era bisogno.

Per stare insieme dunque avevamo solo due giorni e tre notti.

Ma nella disposizione in cui ci mettemmo dopo tale accoglienza, due giorni interi erano pure troppi. Päivi quasi sicuramente andava ad abortire la nostra creatura: l’aveva deciso da sola, o con il suo “ex boy friend”, come chiamava Jussi, e con me taceva su questo argomento, preliminare ad ogni altra conversazione su qualunque altro tema.

Perciò facemmo il viaggio da Helsinki a Yväskylä, in una bianca Volkswagen guidata da lei, senza dire niente di decisivo né di significativo.

 

Osservavo il paesaggio.

Lungo la strada ci sono boschi e laghi ; nel cielo c’era una luna grande, interamente tonda, tanto che consentiva di vedere la vegetazione, la terra e le acque fredde; anzi, quando la strada saliva su una collina, apparivano ampie zone rischiarate dalla sua luce bianchissima. Io aguzzavo entrambi gli occhi per trarre conforto dalla visione della terra promessa che aveva nutrito le donne più amate da me in trent’anni di vita vicini già al loro inquieto compimento[1]. Trenta anni di vita con tre mesi di amore. Non senza molte macerie.

Ricordavo parti del Kalevala[2] letto in aereo, e dirigevo lo sguardo sui seni dei laghi per vedere se nel biancheggiare dell’acqua si bagnavano le anatre azzurre o i cigni selvatici; scrutavo le rive ricurve, orlate di piante, per riconoscere le folaghe che dovevano tuffarsi a gara nel cerchio della luna riflessa sollevando spruzzi di perle; adocchiavo i prati lungo la strada per verificare se gli steli dei fiori, piegandosi, accostavano le colonne anelanti a baciarsi. Niente di questo.

Pensai all’erba verdissima del sottobosco di Debrecen che rimaneva schiacciata dalla schiena delle mie finniche distese a fare l’amore e l’abito letterario evocò questo pentametro “De nostro curvum pondere gramen erat” [3] che Ovidio fa scrivere all’infelice Saffo in una lettera per Faone dove la donna abbandonata rimpiange il tempo felice dell’amore non più contraccambiato dal giovane.

Ancora non sapevo che sarei tornato a Debrecen più di una volta per interrogare quell’erba dove vidi il principio delle mie gioie.

Nella luce lunare della fredda notte artica tutto era fermo e poco espressivo, come il viso di Päivi nei momenti peggiori, quando quella strana creatura si chiudeva in se stessa. Non aveva niente di importante da dirmi, e nemmeno io volevo parlare.

Non avevamo in comune più nulla: né progetti, né attese, né speranze.

Restavano solo i ricordi, e probabilmente nemmeno gli stessi per l’uno e per l’altra.

Arrivati, ci sistemammo nel monolocale del collegio dove lei abitava e facemmo l’amore per l’ultima volta, senza gioia, nonostante avessi provato a dirle, come Antonio a Cleopatra, vicini a uccidersi entrambi, “let’s have one other gaudy night[4].

  

[1] Il 14 novembre.

[2] E’ l’epopea nazionale finlandese composta da Elias Lönrot nell’Ottocento sulla base di canti popolari raccolti viaggiando nella Finlandia orientale. Significa “Terra di Kaleva”, il progenitore della stirpe finnica.

[3] Ovidio, Heroides, XV, 148, l’erba era incurvata dal nostro peso

[4] Shakespeare, Antonio e Cleopatra, III, 13, 183.

 

  

La storia di Päivi 26. La Finlandia senza calore né colore

 

Nei due giorni seguenti, Päivi mi fece da guida indicandomi gli aspetti tipici della sua terra: i laghi, i boschi, le saune. Non c’era molto di più. Mancava la storia, difettava la nobiltà dell’antico.

Alla luce del giorno distinguevo gli abeti dalle betulle e potevo vedere qualche uccello palmipede pedalare nell’acqua. Però i colori delle chiome vizze degli alberi non erano vivi, la bianca cintura delle betulle non era una pelle sugosa come favoleggia il Kalevala, e il movimento delle zampe palmate e fangose di quei pennuti acquatici era meccanico.

Il volto di Päivi era inerte e inespressivo. Il destino segnato invece si appressava con tutti i tristi significati della fine.

I fiori ombrosi e ingobbiti mi facevano rimpiangere i papaveri ardenti e le spighe itifalliche del nostro paese assolato.

Anche i colori del cielo rischiarato da un sole sfuocato[1] erano smorti: piccole nuvole bianche, spinte da un vento gelido, passavano velocemente tra quella terra improduttiva, senza ricordi, e l’etere, pallido come le facce e le teste scolorite delle poche persone che giravano per le strade semi - deserte di quel luogo desolato.

La Finlandia delle donne più amate da me, non era la mia terra promessa.

Ovunque mancava il colore, mancava il calore, mancava la forza della vita. Insomma passai due giorni penosi e tre notti tristi.

Cominciavo a temere che l’amore con Päivi fosse una sorte di mésalliance, l’unione provvisoria e precaria tra due persone di stato, carattere e costumi disuguali, se non addirittura di specie diversa.

La creatura concepita in luglio, se fosse nata sarebbe potuta riuscire come certe figure mitologiche bimembri, quali erano, per esempio, gli acri centauri nati da una nube e da Issione. Ecco perché. Con il tempo ho imparato che la felicità difficilmente si sposa con il desiderio che l’aveva invocata.

Finalmente, il 23 pomeriggio, quando quel sole obnubilato, si stava già spengendo del tutto tra le foglie moribonde degli alberi, Päivi e io ci salutammo con un triste brindisi a base di birra. Poi lei partì, diretta a nord, ancora più a nord, con la bianca Volkswagen, e non l’ho vista mai più. Se non in fotografia dove anzi l’ho contemplata più volte, a lungo.

Rimasi un altro giorno a Yväskylä, poiché l’aereo prenotato per il ritorno partiva solo il 26 pomeriggio. 

 

[1] Mi perdoni la blasfemia la santa fiamma che nutre la vita, il primo fra tutti gli dèi, ma in Grecia e anche in Italia, il suo nume è del tutto diverso

 

La storia di Päivi 27 L’olocausto della mosca

 

Dopo la dipartita della donna pregnante, feci un giro per il paese scrutando i pochi passanti bianchi quanto le erme funerarie, mentre tutte le vie si abbuiavano nel crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e bella Helena, o almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due anni e mezzo, e senza quel Puntila padre. Ma non la incontrai.

Quindi tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi, conosciuta e frequentata nel lungo, sitibondo, felice mese di Debrecen. Si chiamava Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale benevola Eumenide, e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia romana che a lei interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e replicava con intelligenza.

Ne ricavai la sensazione angosciante di avere più cose da dire con lei che con la donna incinta di me rimasta spesso silente e quasi ostile come un’Erinni, da quando mi aveva visto arrivare, forse già inopportuno, in Finlandia. 

 

Verso le dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella, l’amica romana dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione sentimentale e mentale penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta tornato in Italia. La mia confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il finlandese e di sposare Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più tardi l’amica, forse ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con la supplente - amante Ifigenia, mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace- durante una gita scolastica a Roma.

Avevamo affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a vizio di lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.

Quando ebbi concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto invero, ma bevvi un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente, completamente, una mosca che mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto, feci gesti futili per impiegare il mio tempo inutile con qualche parvenza di attività. L’abito letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè”[2].

Veramente già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di Vernicino, tra il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una storia d’amore, anzi la storia delle mie storie d’amore con le finlandesi.

 “Vennero donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3], poteva essere l’epigrafe. Con il passare del tempo infatti diverse donne, e donne diverse, mi avrebbero dato retta per un poco di tempo. Poi mi avrebbero lasciato solo tutte quante, tranne un paio lasciate da me.

Con il volgere delle stagioni ho imparato a preferire la solitudine al tedio insopportabile che mi infligge una persona non buona. Uomo o donna che sia.

Chissà se loro pensavano invece che a dileguarmi invece ero stato sempre io?

Tornato in Italia, cercai di iniziare il racconto di queste storie, ma non avevo i mezzi, cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur forti in maniera interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza cultura era soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la categoria dell’Universale necessaria per farsi leggere.

Me ne resi conto e rinunciai a scrivere, per studiare e imparare dalla mattina alla sera. L’amore per Päivi non mi lasciava desiderare altre femmine umane. Tanto meno dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!

Dovevo studiare per diventare degno di lei. La mia testa funzionava così. 

 

[2] Cfr. T. S. Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my life with coffee spoons”, v. 51

[3] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, v. 259.

Pesaro 14 settembre 2021 ore 17, 27

 

La storia di Päivi 28. L’ultima telefonata di Päivi

 

Durante l’ultima notte di Yväskylä, Päivi mi telefonò da Oulu, da casa di Jussi, dicendo che senza di me non poteva dormire, e che non aveva ancora deciso se tenere il nostro bambino.

Le mancavo, anzi soffriva, pensando che io ero in Finlandia, eppure parecchio lontano da lei.

“Torna qui” le risposi. “Io posso, anzi devo rimanere in Finlandia altri tre giorni. Io ti amo”.

“Anche io ti amo”, disse lei, erano le quattro, “ma domani devo entrare in ospedale per le analisi”.

“Che cosa pensi di fare?”.

“Ancora non ho deciso. E’ difficile Gianni, è molto difficile, e nessuno mi aiuta”.

“Se vuoi, ti raggiungo”.

E’ meglio di no. Ciao, Gianni, ti amo molto”.

“Ciao. Domani mattina partirò da casa tua; poi mi fermerò due giorni a Helsinki, da quel simpatico Kalle, che abbiamo conosciuto a Debrecen. Telefonami là, magari. Ti amo molto anche io”.

Il giorno seguente andai a cercare Kaisa, l’amore dell’estate 1972, nella facoltà dove era assistente. Volevo parlare con lei. Si fece negare, poi mi scrisse che non aveva potuto fare diversamente siccome era già abbastanza chiacchierata dalle linguacce dell’università[1]

 Quindi, nel pomeriggio del tutto desolato, partii da Yväskylä in treno e tre giorni dopo da Helsinki con l’aeroplano. Eravamo spinti da una forza enormemente superiore alle nostre umane: quella della Necessità che con mani d’acciaio volge l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti del cielo.

Ananche ci aveva fatto incontrare a Debrecen in luglio quindi aveva imbastito il nostro amore, e in settembre ci separava disfacendo la tela tessuta durante quel mese fatato o fatale, o forse soltanto sognato. Decidi tu lettore. Päivi e io non potevamo fare più nulla insieme.

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[1] Cfr. La precedente Storia di Kaisa capitolo 14

 

  

La storia di Päivi 29. La lettera di addio. Lo studio furioso e speranzosissimo. Il metodo comparativo.

 

In aereo pensavo che Päivi, se avesse davvero voluto il mio aiuto, mi avrebbe chiesto di seguirla a Oulu dove invece volle andare senza di me, appoggiandosi al suo ex compagno.

In realtà la mia presenza non serviva più a niente, né aveva alcun senso il mio parere su quanto quasi sicuramente la donna aveva già deciso di fare. Le sue ultime parole d’amore erano del tutto dissonanti dai fatti.

Sono arrivato a diffidare delle persone dall’agire discrepante rispetto al parlare. Ho imparato che nel dubbio, in amore, la risposta è sempre “NO”. Il comportamento di una persona che ama non lascia spazio a sospetti e inquietudini.

La soluzione del dubbio “m’ama, non m’ama” è comunque negativa.

 E’ inutile sfogliare le margherite. Il dilemma è fasullo.

 Da Scilla e Cariddi ci si salva soltanto con la fuga. Certo è che ora, ed è un vecchio che scrive, rimpiango quella bambina non nata. Adesso, nel settembre del 2021, avrebbe 46 anni e mezzo.

A volte la immagino bella, intelligente e invento dei dialoghi con lei, la figlia mancata, che mi manca. Mi invento l’avverarsi postumo di un sogno che non si è mai realizzato

 Da allora ho sempre cercato una figlia e anche per questo ho trovato, o mi sono fatto trovare, da compagne molto più giovani di me, sempre più giovani.

 Compensazione, malattia mentale, mania educativa, perversione? Decidi tu lettore.

Un medesimo fatto può avere significati diversi.

 

Arrivato in Italia, aspettavo notizie. Dopo un mese di attesa penosa e angosciosa, una pena aggravata dal cambiamento di città e da quello di lavoro, le Simplegadi che potevano schiacciarmi se non mi avessero aiutato le zie Rina e Giulia comprandomi casa a Bologna, il venticinque ottobre dunque, ricevetti una lunga lettera nella quale Päivi diceva di trovarsi sempre più rinchiusa nella barriera dell’Io, di essere senza fede nelle persone, siccome non credeva in se stessa, di sentirsi talmente vuota da non volere frequentare né vedere nessuno. In compenso voleva studiare, per imparare e sapere di più.

Qualche volta - scriveva anche - sento la tua mancanza, ma poi ci penso con totale realismo e capisco che tu sei troppo lontano da qui”.

Concludeva la lettera, l’ultima, con queste parole definitive:

Ora la cosa più importante della mia vita è il lavoro. Io voglio sapere di più. Può darsi che mi inganni quando voglio dimostrare a me stessa che la gente non conta. Spero davvero che nessun altro la pensi così. Spero che tu scriva qualcosa. Ciao.

Päivi.

Da allora all’estate seguente le scrissi una ventina di lettere esortandola a credere nel nostro amore. Non ebbi alcuna risposta.

Io comunque dovevo crederci per coltivare l’identità di studioso che avevo trovato in me grazie all’amore di lei. Studiai tutto l’anno, soprattutto per Päivi, siccome avevo avuto una modesta scuola tecnica, un professionale dove non insegnavo greco né latino e non mi stimolava abbastanza. Volevo sentirmi vicino all’ultima amata, simile a lei. Quando seguitiamo ad amare una donna che ci ha rifiutato, ci comportiamo come le madri o le mogli dei soldati dispersi: sappiamo che non c’è niente da sperare, ma nulla ci vieta di continuare ad attendere.

L’anno seguente ebbi l’incarico di insegnare greco e latino nel liceo classico Rambaldi di Imola e dovetti studiare molto per farmi ascoltare dagli studenti, per prepararli all’esame di maturità: tutti i giorni, dal ritorno a casa dopo la scuola, alle 9 di sera, mi preparavo. Nei giorni di “riposo” sgobbavo sui libri dalle 9 di mattina alle nove di sera con un intervallo di tre ore per nutrirmi e fare un piccolo, breve giro in bicicletta.

 Durante i primi mesi gli alunni leggevano il giornale, dopo Natale prendevano appunti. Mi avevano fatto capire che tradurre, snocciolare paradigmi, regole ed eccezioni di morfologia e sintassi, quindi ripetere i manuali non bastava, se volevo essere ascoltato e piacere. Lo volevo con tutte le forze, e raggiunsi lo scopo grazie alle mie capacità, alla mia volontà, ai miei sacrifici. Avevo passato studiando tutte le domeniche, le vacanze, le feste comandate. Avevo dato retta agli allievi più bravi mettendomi nei loro panni con empatia e simpatia.

 Nel commento alle parole tradotte dovevo mettere la storia, la filosofia, la comparazione tra i testi, un metodo che all’epoca non era ancora di moda ma agli studenti desiderosi di imparare già piaceva e piaceva anche a me. L’avevo trovato e ammirato in T. S. Eliot.

Mi sentivo autorizzato da questo poeta a seguire tale via e ne ero motivato dagli allievi che me lo avevano chiesto , con garbo e pure non senza fermezza.

Sono ancora grato a quei ragazzi.

Alla fine dell’anno i giovani, più giovani di me di una decina d’anni, mi consideravano con rispetto, mi ascoltavano con attenzione.

 Verso la fine di maggio, una sera, guardando il tramonto pieno di voli e di gridi di rondini che volavano intorno contente, girando a gara nel cielo, stremato da quei mesi di studio continuo, ma non senza gioia, gridai: “Dio, ce l’ho fatta!”.

Così amare Päivi per accrescere la mia identità imitando l’immagine che mi ero creato di lei, non era più necessario.

Il mio amore non contraccambiato non aveva più alcuna funzione positiva, poteva solo farmi del male.

Päivi cessava di essere l’Augusta, l’accrescitrice indispensabile.

Rimaneva solo la volontà, anzi la necessità di sapere se avesse abortito, e per questo sarei andato a cercarla l’estate seguente, come vedremo.

Se dovessi risponderle adesso, le scriverei che isolarsi con i libri escludendo le persone non è la sapienza vera, quella che potenzia la vita. Le parole e le idee tratte dagli autori – accrescitori- infatti vanno discusse, e confrontate con l’esperienza, insomma vanno verificate e inverate, o confutate, vivendole, altrimenti rimangono frasi fatte da altri, luoghi comuni scolastici, battute da talpe erudite, con la pancia e il cervello gonfi di radici verbali e, se va un po’ meglio, di belle battute che non danno forza alla vita.

Insomma quello che imparavo mi potenziava nel pensiero e nell’azione.

L’avevo già intuito quando attirai l’attenzione di Helena con una frase intelligente, come ho già raccontato[1].

 

A Päivi, la donna forse più importante di questa mia vita mortale, oggi citerei, magari tamburellando ditirambi, cinque parole delle Baccanti che dicono tutto: “to; sofo;n d j ouj sofiva[2], il sapere non è sapienza.

Poi glielo spiegherei ricordando le lezioni ricevute dalla vita, come faccio ora con voi cari lettori.

To; sofovn, il sapere, in greco è di genere neutro, non ha una matrice, mentre hJ sofiva, la sapienzaè femminile, il che consente di attribuirle una natura feconda.

Ma in quei giorni dell’autunno del 1974 menzionare la fecondità sarebbe stato inopportuno e di pessimo gusto. 

 

 

[1] Cfr. La storia di Helena.

[2] Euripide, Baccanti, 395. Dodds traduce “cleverness is not wisdom’Euripides Bacchae, p. 121

 

 

 La storia di Päivi. 30. La sofferenza che aiuta a capire


L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,

Päivi mi aveva già dato e detto tutto quanto doveva per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri buoni poteva aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto, insignificante.

Non mi doveva più niente e non voleva più niente da me.

Non volle nemmeno dirmi se aveva abortito. Io, per sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la primavera: una volta ogni due settimane spedivo lettere per diversi mesi, invitandola sempre a rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, fino all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben disposta nei miei confronti, seppure sposata da poco, malmaritata probabilmente, mentre lei, Päivi dico, non aveva cura di me e non rispondeva alle lettere mie. Telefonai, anche, diverse volte, nel monolocale di Yväskylä dove mi aveva ospitato in settembre, ma quella donna, ferocemente, si faceva negare, oppure alle mie domande angosciose e incalzanti rispondeva in maniera generica, elusiva, evasiva.

 

Ora mi chiedo: se quando abbiamo concepito il bambino, e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici, perché non abbiamo fatto nascere la nostra creatura?

Rispondo: perché non ci amavamo abbastanza a vicenda, perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita tanto da creare la vita. E questa carenza di amore in me era causata da un sentimento di insufficienza: mi sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello a metà. Il sentimento del cinque che probabilmente angosciava anche lei. Ciascuno di noi era un dimidiatus o anche meno di una mezza creatura, tanto che la nostra unione l’unione non fu sufficiente a metterne insieme una intera. Soltanto egoisti eravamo del tutto ambedue. Ciascuno di noi aveva amato non la persona dell’altro, e nemmeno la propria, ma la stranezza, l’esoticità dell’amante, la propria emozione passeggera, e la bella cornice di tutta la storia: l’Università di Debrecen, la “grande foresta” con il ponticello sul lago dove gracidava la rana lontana, il sangue di toro di Eger, la palinka all’albicocca e così via.

Insomma abbiamo funzionato benissimo per un mese bello in una bella vacanza bella. Poi basta. Dopo non funzionava più niente tra noi.

L’uno aveva già dato all’altro, e già preso, tutto quello che c’era di bello.

Il resto sarebbe stato solo noia e dolore.



La storia di Päivi 31. Faina, la buona Ciuvassa e il mio ceffo da cane. Il contrappasso

 

Durante le vacanze di Pasqua, Bruno Pera morì in un incidente stradale nel Sudan. Cominciarono presto le dipartite degli amici di Debrecen. Oggi noi superstiti siamo ben pochi.

In quei giorni di ferie, per non dimenticare le sensazioni dell’estate passata, andai a interrogare la grande facciata grigia del Budaörsi Kollegium e tutti i luoghi dove ero stato felice con Päivi. Prendevo appunti Meditavo di raccontare tutta la storia, ma solo dopo avere elaborato il dolore della fine. La pena doveva diventare intelligenza dei fatti, di me stesso, della donna.

Anche questo pellegrinaggio a luoghi che consideravo sacri, ebbe del resto un aspetto egoista e crudele, poiché mentre giravo devoto ed estatico, fuori di me come l’adoratore di una divinità crudele, tra i locali, per le piazze, lungo le vie, attraverso le campagne frequentate in agosto con la donna di cui ero pur sempre follemente innamorato, in quell’aprile lontano mi portavo dietro un’altra amante: Faina, una Ciuvassa russificata che stava facendo la tesi a Budapest.

Ci eravamo conosciuti a Debrecen nell’estate già allora lontana del ’72, quella dell’amore di Kaisa che ho già raccontato nel secondo dramma di questa trilogia finlandese prossima a terminare. Poi magari tornerò al satiresco su Ifigenia. Scrivo queste storie perché vengono lette da tanti visitatori del blog cui forse curano l’anima, e anche con la speranza di ritardare la morte. Faccio tesoro di sentimenti forti che mantengano viva la memoria dei significati di una vita vissuta nell’amore, nella gioia e nel dolore. Senza giochi di carte dico, né visioni, tanto maschili, di partite di calcio, né droga, né fumo e simili lordure. Un po’ di vino magari sì.

Apollo, Venere e Bacco senza tabacco.

 

Faina dunque, la sera della sua partenza dalla cittadina universitaria ungherese mi aveva chiesto di accompagnarla alla stazione, poi, siccome il treno per Samarcanda aveva un grosso ritardo, eravamo andati a parlare e a bere dell’Egribikavèr[1] all’Aranybika[2].

Le avevo esposto la mia visione del mondo nella lingua magiara, in breve e molto all’ingrosso.

Tuttavia da quella sera remota, Faina, da vera Ciuvassa russificata e romantica, si era creata il mito di Gianni il buono, il generoso, l’ingenuo, e lo coltivava senza ragione, come una delle creature estreme di Dostoevskij. In particolare mi associava al principe Myskin, l’idiota santo e geniale. Diceva di amarmi perché nell’anima mia vedeva la forza della bontà. Avrebbe studiato e imparato bene la lingua italiana per comunicare con me. Mi amava e sperava di venire contraccambiata.

Tuttavia in quei giorni della primavera del 1975 non poté non accorgersi che ero innamorato di un’altra e me lo fece notare con mitezza e mestizia.

Una mattina, mentre giravamo l’Ungheria con la nera Volkswagen e io andavo a caccia di ricordi con gli occhi, con le orecchie, fiutando le tracce lasciate da Päivi con il naso e con tutto il ceffo davvero da cane, Faina notò che avevo un grosso peso nel cuore e me lo disse.

Non la smentii, siccome sono stato anche po’ farabutto in questa mia vita mortale, ma bugiardo per niente. Mi piaccio abbastanza da non dovermi camuffare.

Posso capire e accettare la dissimulazione, ma non ammetto né mi permetto la simulazione servile.

Avuta dunque la mia tacita conferma, Faina si mise a cantare una canzone ciuvassa dalla melodia triste. Quindi me la tradusse.

Una donna dice a un uomo: “Amore mio, portami via con te: ti farò da compagna”.

L’uomo risponde: “Non ti voglio: ho già una compagna”

Lei allora gli fa: “Caro, portami via con te: ti farò da sorella”

E lui: “Non ti voglio: ho già una sorella”.

Infine la donna lo prega: “Ti prego, portami via con te, ti farò da serva straniera”.

“Non ho bisogno di una serva straniera” - risponde spietatamente l’uomo - Va’ via”.

“Tu sei quell’uomo, Gianni, io quella donna”, concluse Faina sbirciandomi malinconicamente con occhi tartari, obliqui.

Mi venne in mente: “I am your wife il you will marry me;/if not. I’ll die your maid[3].

Invece dissi: “Faina, tu sei una cara compagna e io ti vorrò sempre bene”.

Di fatto però tale rimprovero, seppure mite, mi faceva danzare, dolorosamente, in mezzo alle Erinni. Io stavo infliggendo ingiustizia e crudeltà a quella creatura immeritevole di tale maltrattamento.

Ne imploro perdono a lei e a Dio, chiunque egli sia.

Vero è che più avanti dovrò scontare queste sofferenze arrecate a Faina con quanti dolori mi verranno inferti da Ifigenia e altre vendicatrici.

Poiché il male fatto si paga: prima o poi torna indietro, rimbalza sull’autore secondo il contrappasso.[4]

 

Tra gli altri pregi, quella ragazza ventitreenne aveva quello di essere comunista convinta. Il regime diceva, perfino al tempo di Stalin, aveva aiutato la gente e le popolazioni più povere dell’Unione Sovietica. Per questo lei aveva potuto studiare, viaggiare e fruiva ancora di borse di studio. Dall’autunno seguente avrebbe lavorato come interprete a Budapest.

Forse con lei ho perso, per mia stupidità, la donna migliore, la più buona, la più intelligente e capace che abbia mai incontrato.

Allora avevo soprattutto bisogno di un’amica buona che mi credesse tanto, tanto buono e mi desse qualche indicazione e qualche ragione per diventarlo davvero.

Päivi mi aveva motivato allo studio intelligente e al pensiero cosciente, e io cominciavo a capire che non si può essere davvero felici se non si è davvero, profondamente morali.

Faina diceva che le facevo comunque del bene poiché la aiutavo a pensare con lucido realismo e la motivavo a studiare la mia bella lingua madre.

E mi amava perché comunque ero buono e gentile.

A me invece in certi momenti sembrava di essere un boia perverso che strazia una vittima innocentissima con crudeltà inaudita.

Perciò, finita la breve feria d’Aprile, tornai volentieri a Bologna per terminare decentemente l’anno scolastico.

In luglio partii per la Finlandia. Dovevo parlare con Päivi, sentirmi dire almeno se aveva abortito o aveva fatto nascere la nostra bambina.

 

 

[1] Sangue di toro di Eger, un famoso vino ungherese.

[2] Toro d’oro. Albergo e ristorante storico di Debrecen. Cfr. la storia di Helena Sarjantola, quella di Kaisa e l’arrivo a Debrecen presenti nel blog.

[3]Shakespeare, The tempest, III, 1

[4] Nel doloroso canto (kommós) che precede l’epilogo dell’Agamennone (vv. 1562 - 1564), il Coro dice queste parole: “paga chi uccide”, κτίνει δ’  καίνων, “rimane saldo, finché Zeus rimane sul trono, che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina”, μίμνει δ μίμνοντος ν θρόνωι Δις / παθεν τν ρξαντα· θέσμιον γάρ. C’è una ripresa di questo nel kommós delle Coefore (vv. 313 - 314): δράσαντα παθεν, / τριγέρων μθος τάδε φωνε, “subisca chi ha agito, un detto tre volte antico suona così”. Ricordo anche l’Eracle di Euripide dove Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incammi­nato verso la morte (vv. 727 - 728): προσδόκα δ δρν κακς / κακόν τι πράξειν, “aspettati facendo del male di averne del male”. Infine l’Oreste di Euripide. A Menelao che gli domanda τί χρμα πάσχεις; τίς σ’ πόλλυσιν νόσος; (395) “che cosa soffri? quale malattia ti distrug­ge?”, il nipote risponde  σύνεσις, τι σύνοιδα δείν’ εργασμένος, 396 - “l’intelligen­za, poiché sono consapevole di avere commesso cose terribili”. Oreste dunque è reso sofferente dalla propria σύνεσις . Menelao allora ricorda al matricida la legge del contrappasso per la quale deve soffrire (v. 413): ο δειν πάσχειν δειν τος εργασμένους, “non è terribile che patiscano conseguenze tremende quelli che hanno compiuto atrocità.

 

 

La storia di Päivi 32. “Io non voglio vederti!” Capo Nord

 

Due giorni viaggiai con la nera Volkswagen e con Silvano che, in questa occasione, mi fu di valido, amichevole aiuto. Era stato interprete dei segni buoni la sera in cui conobbi Päivi un anno prima. Ora è una delle amicizie celesti che continuano a suggerirmi presagi favorevoli come voli di uccelli indirizzati da Dio o l’apparire della santissima faccia del sole in mezzo alle nuvole invide.

Ci imbarcammo a Travemünde, di sera. Sbarcati dopo una traversata di ventiquattro ore, chiesi al sole che nascondeva molto tardi la faccia santa, di farmi vedere di nuovo Päivi, la luminosa, la Fedra, la donna che mi aveva stenebrato la mente: da quando l’avevo conosciuta e amata, non sopportavo più il fetore della volgarità e mi dava un senso di nausea l’ignoranza arrogante e pretenziosa.

Ma il sacro fulgore del primo fra tutti gli dèi non volle esaudirmi, forse perché con la mia complicità nell’aborto avevo offeso la sua luce che nutre e rende bella la vita.

Il giorno dopo, alla prima telefonata, Päivi si fece negare, e alla seconda rispose dicendo solo: “I don’t want to see you”, io non voglio vederti.

Fennis mira feritas[1], pensai. Vidi il sole impallidire del tutto.

Ricordai che il cielo privo di nuvole la disturbava, mentre a me dava gioia.

Tale discrepanza mi dispiaceva. In fondo avevo già presofferto tutto.

Silvano mi consigliò, saggiamente, di non insistere. Né io avevo più niente da dire a una femmina tanto feroce, a quella leonessa bipede, a quella creatura ibrida, una specie di Sfinge che dopo avermi afferrato con artigli mascherati, divorato e inghiottito, mi rigettava gridando: “io non voglio vederti!”.

Io invece volevo e dovevo almeno sapere se avesse abortito o tenuto la nostra bambina.

Arrivai a Capo Nord. Giunto su quella roccia nera, alta sotto un cielo che non seguiva le leggi del nostro ed erta sopra una distesa d’acqua livida che rumoreggiava sui mostri addormentati in un denso torpore nei cupi abissi marini, mentre pensavo alla bambina concepita nell’amore dell’estate passata, chiesi a Zeus boreale una risposta a quello che era diventato l’enigma della mia vita.

Il dio non volle esaudirmi, irato forse per i miei pensieri e le mie azioni perverse.

Il sole aveva nascosto il suo volto bellissimo dietro nuvole grigie e dense di presagi cattivi.

Ricordai con rimpianto il gorgheggiare degli uccelli che mettevano in musica la mia gioia e la luce delle estati passate nelle radure della grande foresta di Debrecen. Rimpiangevo l’energia che quelle tre donne, Elena, Kaisa e Päivi mi infondevano ogni giorno nell’anima facendomi sentire con forza la vita.

“Potrei bere a lungo, poi gettarmi ubriaco da questa cupa rupe nel buio delle onde, offrire un pasto alle creature tremende[2] di questi abissi e privarmi anche della sepoltura e di una lapide con tale iscrizione ‘qui giace un uomo che amò tre donne finlandesi’. Non avrò nemmeno il conforto di uno che, passando, vorrà sussurrare: “Vale giovanni caro, e ti sia lieve il suol”. 

Questo pensavo, desolatamente.

 

 

[1] Tacito, Germania, 46. Straordinaria è la barbarie dei Fenni: una popolazione germanica particolarmente povera e selvaggia. Non c’entrano con i finnici ma non avevo in mente una citazione più appropriata

[2] “Molte creature tremende nutre la terra - polla; me;n ga' trevfei - deina;, angosce di terrori deimavtwn a[ch - , e gli abbracci del mare sono pieni di mostri ostili agli uomini - povntiaiv t j ajgkavlai knwdavlwn - ajntaivwn brotoi'si plhvqousi: germogliano anche a mezz’aria sospesi splendori - blastou'si kai; pedaivcmioi - lampavde" pedavoroi: - gli animali che volano e che camminano sulla terra potrebbero dire della collera rapida delle tempeste ptanav te kai; pedobavmona kajnemovent j a]n - ajgivdwn fravsai kovton - (Eschilo, Coefore, I stasimo, strofe a vv. 585 - 592,)

Vediamo l’antistrofe a (593 - 601)

Ma della mente troppo audace dell’uomo chi potrebbe dire ajll j uJpevrtolmon ajn - dro;" frovnhma tiv" levgoi - e delle donne sfrontate nel cuore (kai; gunaikw'n fresi;n tlhmovnwn) le passioni temerarie (pantovlmou" e[rwta") associate alle folli cecità dei mortali? a[taisi sunnovmou" brotw'n:

i vincoli coniugali dei mostri e dei mortali li vince l’amore disamore che domina la donna - xuzuvgou" d j oJmauliva" - qhlukrath;" ajpevrwto" e[rw" paraniuka'/ - knwdavlwn te kai; brotw'n



La storia di Päivi 33. Il ritorno a Debrecen, in automobile, da solo, nel 1975. Il pellegrinaggio ciclistico con gli amici, nel 2011, 36 anni più tardi

 

Poi mi riscossi. Considerata la reticenza irata di Päivi e dei numi, decisi di andare in cerca di Anneli, l’amica dell’estate precedente, per consultarla.

Non la trovai nella sua stanza in collegio del collegio universitario di Yväskylä. Allora andai a cercarla nella casa dei genitori, in campagna: tra le betulle, i mirtilli, le folaghe e i cigni selvatici. Qualche uccellino sbiadito provò a farmi coraggio con il suo cinguettare fioco, di scarso effetto.

I due canuti signori finnici dissero che la loro figliola non era lì, né in Finlandia, poiché era partita per Debrecen due settimane prima.

Sicché io, forzando la nera Volkswagen ormai stanca, portai Silvano a Bologna e ripartii immediatamente per la città del mio apprendistato amoroso, dove speravo di trovare la bionda, dolce, cosciente Anneli. Ma quando arrivai, era già ripartita, né alcuno seppe dirmi per dove.

Era il 15 agosto, l’ultimo giorno del corso estivo che si chiudeva con il Búcsú est[1].

Al tramonto andai a osservare lo stadio delle mie corse. Sedetti sulla terrazza delle feste dei miei vent’anni, della mia gioventù.

Non c’era anima viva. A quell’ora la gente cenava prima della festa finale.

Bevvi una birra grande e pensai alle mie finlandesi, a Eeva, a Katina, a Helena, a Kaisa, a Päivi; pensai pure a Josiane, a Faina, a Claudio in galera da un anno, a Fulvio che, infelicemente sposato, andava a piangere tutte le sere sulla riva del mare, siccome la moglie non gli piaceva più, a Bruno morto da quattro mesi, alla mia bambina non nata, a me stesso senza amore, senza amici, là nella puszta, trentenne solo e infelice, come quando ci ero arrivato la prima volta, ragazzo ventenne grasso, depresso, miope, foruncoloso, inetto, del tutto inadatto a essere amato, nel luglio del 1966[2]. Non avevo acquisito niente di solido in tutti quegli anni. Lapidi e fantasmi. Potevo sì trattarli come care immagini, icone belle dentro di me, però vicino a me non c’era anima viva. Quale piega poteva prendere la mia vita così desolata? Avrei passato il tempo che mi restava, ogni sera come quella di agosto, da sordido anacoreta che rimugina tristi pensieri, o sarei andato in cerca di altre donne da donnaiolo più o meno contraccambiato, mai pago, piuttosto ognora vago di esperienze nuove, sempre più dissolute, finché annoiato dalla facilità degli adultèri avrei cercato di soddisfare libidini inaudite?[3]. Come la meretrice Augusta o come un vecchio sibarita annoiato della vita.

Avevo fatto l’amore con una donna incinta di un altro; una incinta di me aveva abortito. Quale poteva essere la prossima tappa erotica?

L’avrebbero detto i giorni a venire che sono i testimoni più sapienti[4].

Avevo una cartolina: la scrissi a Päivi di cui mi era rimasto in mente l’aspetto migliore: l’interesse per la cultura, lo spirito e la bellezza.

Le tradussi in inglese questi versi di Dante: “Or puoi la quantitate/comprender dell’amor ch’a te mi scalda,/quand’io dismento nostra vanitate,/trattando l’ombre come cosa salda”[5]. E conclusi: “Ti amo.

gianni, o piuttosto la svigorita ombra di gianni”.

 

Poi andai a procurarmi un’altra birra grossa. Sedetti e bevvi ancora. Veramente ne avevo bisogno poiché non mangiavo da un paio di giorni, durante i dì e le notti passati a guidare la mia automobile nera, scura come può essere un feretro.

Me ne nutrii e inebriai quasi del tutto. Quindi, mezzo ubriaco, fui preso da un’immensa pietà per me stesso, uomo adulto, già più che trentenne, affettivamente fallito, senza una donna, senza un amico al mondo che mi pensasse volendomi bene. Mia madre, forse, ma era lontana e con altri problemi.

Compassione per me stesso dunque, solo e senza affetti, compassione per il povero Bruno morto ante diem, quando per giunta era tutto contento di godersi la vita, a dire il vero un po’ disordinata, ma non più della mia. Nei miei confronti non era stato proprio un amico, però l’anno prima, lì a Debrecen, tra i giovani in festa su quella terrazza con lui potevo discutere; quel giorno invece, il 15 agosto del 1975, il dì del redde rationem, ero solo del tutto, senza nemmeno un gatto o un cane da accarezzare, non più giovanissimo, pressocché disperato di trovare ancora l’amore, l’amicizia, la gioia di vivere e di lottare. In quel momento neanche il mio impegno di educatore mi consolava: mi avevano dato una scuola dove non potevo impiegare tutta la mia forza mentale che, rimanendo senza esercizio, presto si sarebbe afflosciata. Ero proprio solo nel mondo e non avevo niente da fare che mi piacesse. Come dopo il liceo. Come quando, quasi sei anni più tardi, la notte fra il 12 e il 13 giugno del 1981, Ifigenia sarebbe scivolata nel pozzo.

Appena il sole fu tramontato, bevvi la terza birra, enorme, e piansi. Piansi provando una strana consolazione, piansi a lungo, tanto non c’era nessuno.

 

Quando tornai a Debrecen in bicicletta, nell’estate del 201111, trentasei anni più tardi, una sera al tramonto, lasciati gli amici Fulvio, Maddalena, Alessandro, andai a rivedere il casinetto del tennis. La terrazza dove si danzava la sera è prospiciente lo stadio dove correvo di giorno.

Erano quasi le otto, non c’era anima viva.

Bevvi di nuovo una birra e pensai ancora una volta alle mie Finlandesi di Debrecen. A Elena incinta, a quando lei e io eravamo uni e bini come con la mamma mia, a Kaisa l’adultera dagli occhi azzurri, a Päivi che nel 1974 aveva abortito la bambina che aspettava da me; pensai a Bruno Pera morto nemmeno trentenne, a me stesso, rimasto come sempre strutturalmente solo, ma non insicuro e infelice come quando arrivai a Debrecen la prima volta, ragazzo malconcio, nel luglio del 1966.

Nel frattempo diverse altre amanti italiane e straniere mi avevano lasciato. Tutte, tranne tre o quattro, mi avevano lasciato, o mi ero fatto lasciare io da loro, non lo so.

Veramente le tracce di alcune rimanevano in me.

Lì a Debrecen però pensavo soprattutto alle Finlandesi tornate a camminare sulla loro terra boscosa, a nuotare nei laghi dove le folaghe si tuffano a gara, dove veleggiano i cigni dal collo ricurvo come le prue, e zampettano le anatre azzurre. Non sapevo nemmeno se fossero ancora vive su questa terra meravigliosa. Erano state loro a renderla tale ai miei occhi, a farmela amare.

“Eravate a me care e ora nemmeno una è qui con me a bere la birra, tra sorrisi e carezze, come si faceva allora”.

Affetti solidi li avevo acquisiti in tutti quegli anni. Fulvio, Maddalena e Alessandro erano venuti a Debrecen, in bicicletta con me. 1200 chilometri: una prova non piccola.

 Le donne mie benedette però erano volate via come uno stormo di uccelli spaventati da uno sparo. Eterna gratitudine anche a loro.

 

 

[1] Sera dell’addio.

[2] Vedi il capitolo L’arrivo a Debrecen, presente nel blog. Forse lo scriverò di nuovo, con senno rinnovato.

[3] Cfr. quanto scrive Tacito di Messalina, la meretrix Augusta: "iam (...) facilitate adulteriorum in fastidium versa, ad incognitas libidines profluebat " (Annales, XI, 26) oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite

[4] Cfr. Pindaro Olimpica I " "(vv.33 - 34)

[5] Purgatorio XXI, 133 - 136.

 

 

 La storia di Päivi 35. Il pianto consolatorio. L’aedo di Debrecen dove tutto è pieno di dèi

 

Forse avrei pianto anche se qualcuno mi avesse visto. Piansi finché sopra il mio tavolino di ferro arrugginito si accese una piccola lampada; allora asciugai le lacrime, aprii un quaderno che avevo con me, e scrissi queste parole: “15 agosto 1975, ore 19,45. Sulla terrazza del casotto di fianco allo stadio è già quasi buio. Questo luogo per me è un campo santo, ma non un campo di morti, è un santuario di tante care persone vive nella memoria. Mi vengono in mente tutti: Fulvio, Danilo deditum vino, Luigino, Ulderico, Stefania, Elizabeth, Ezio, Alfredo, Claudio, Bruno, Silvano, Eeva, Damaris, Faina, Katina, Kaisa, Helena, Josiane, Päivi, Päivi e la nostra bambina.

Quasi tutti spariti: non sono più con me, qui nella nostra polis fatata, piena di fate. E di fato. Dove siete finiti, poveri cari?

Anche tu Bruno mi sei caro adesso. Se tu fossi ancora qui con me, almeno potrei litigare come facevamo nel tempo della tua vita mortale: eravamo come una coppia di gladiatori allenati da Eros che, generoso qual era con noi, premiava entrambi con quello che volevamo.

L’anno scorso su questa terrazza celebravamo ancora Eros e Dioniso cui sono care le danze e battevamo le mani alle fanciulle d’Europa quando, come puledre balzavano agitando celeri i piedi e lanciavano in aria le chiome quali Baccanti che folleggiano munite di tirso.

Mi vengono in mente tutti gli anni veloci trascorsi da quando ne avevo ventuno: là nello stadio che ora si abbuia, nell’orto botanico dalle piante strane, nel prato in mezzo ai collegi pieno di sole e di ragazze, nel bosco , sul ponticello di legno, al Vigadó, al Palma, all’Aranybika, al Müvesz[1], a Hortobágy, sul tram numero uno. Perfino sul tram, a parte la prima volta che ci salii[2] nel 1966 da ragazzo terrorizzato, ho passato le ore più belle della mia vita mortale con voi, in quest’ambiente di studio, di vacanza e di amori dove non c’è mai stata competizione cattiva, livida invidia, cupo risentimento, sordo e cieco rancore. Qui si veniva per imparare a vivere, a fare l’amore. Una delle mie povere zie lo chiamava malevolmente “quel casino di Debrecen”, mentre questo era un luogo sacro a Eros e a sua madre Afrodite che ci riunivano in questa città incantata perché venerassimo con devozione il loro nume possente.

 Afrodite entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di Euripide si presenta così “Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.

Tale mi apparve Elena la sera della conoscenza del 1971. Ce la misi tutta per farmi benedire da lei.

Dove siete finiti amici della mia gioventù? Sono stanco Päivi, tanto stanco di inseguire la felicità senza raggiungerla. Avremmo dovuto acciuffarla quando ci è passata davanti, poiché quella femmina - femina - qhvlu" - felix - qhlhv - come la felicità, come la sorte, è capricciosa, e ci ha presentato un solo kairov", un’occasione chiomata davanti ma calva di dietro.

Adesso, ispirato da due litri di birra, capisco, e, anche se non sono un profeta[3], forse prevedo e presoffro tutto[4]. Magari pregòdo anche qualcosa.

A parte la sbornia di adesso, ricordi la terra desolata di Eliot, amore, e gli altri nostri autori - accrescitori? Quasi ci eccitavamo nel citarli. Sì, poi facevamo l’amore. Era una cultura porno o santa la nostra? Santa, santa,: tutto era santo qui a Debrecen.

Dove la troverò un’altra straordinaria come eri tu un anno fa?

Ebbene, io non sono un profeta, non sono nemmeno un aiuto profeta come il ragazzo che sostiene Tiresia cacciato dall’empio tiranno, se non altro poiché non sono più un ragazzo, ma non perdo i capelli per Bacco, né divento canuto, grazie a Dio, e non ingrasso per niente, né ingrasserò, e se questa sera ho bevuto birra a dismisura e ora sono ubriaco come Danilo, tuttavia non sono ingrassato perché oggi non ho mangiato, ieri neppure, e domani misurerò la giornata a cucchiaini di caffè[5].

Comunque non desidero la morte, anzi: crastinum si adiecerit deus, laetus recipiam[6].

Ti devo ancora la mia snellezza. Päivi. Se un giorno tu volessi vedermi di nuovo, mi troverai belloccio come quando mi amavi. Io dunque non sono Tiresia cui erano note l’una e l’altra Venere[7], poiché ne conosco una sola,

Non sono Lazzaro, né sono Er figlio di Armenio, Pamfilo di stirpe, entrambi morti e trascinati alla nuova nascita con la velocità delle stelle cadenti, ma so che continuerò a cercare l’amore e tante volte ancora lo troverò. E’ il mestiere più bello del mondo amare le donne e farsi riamare da loro. Se per un giorno, un mese o un anno da ciascuna di loro, non importa. Aborrisco il matrimonio ma adoro l’amore.

 

“Si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci”, come diceva Claudio prima che lo chiudessero in una tetra prigione. Debrecen rimane il luogo dei ricordi più belli. Io ne sarò l’aedo, come ha predetto Fulvio, sarò io il cantore ispirato dalla santità di questa cittadina tutta piena di dèi. Le mie muse saranno le finniche amatae nobis quantum amabuntur nullae. Sono ubriaco, ma un poco di latino e di Catullo li ricordo tuttavia. E lo cito. Chi vuol essere lieto sia. Però le sante Muse erano nove, le mie finniche quattro o cinque, al massimo sei. Appena la sufficienza. Devo completare il numero, colmare lo svantaggio rispetto alle figlie della Memoria che sanno dire molte menzogne simili al vero, ma anche la verità[8].

Le italiane incontrate sinora adesso non entrano nel conto.

 Piuttosto l’Elena cecoslovacca e la Ciuvassa Faina. Josiane l’ho perduta con rimpianto.

 Scusami Päivi ma chi a una sola è fedele, con le altre è crudele. Don Giovanni era un bel tipo. Mi piace. Debrecen rimane il luogo dei ricordi più belli, dei giorni più felici della mia giovinezza fuggente, la città dove ho conosciuto e frequentato gli amici più cari di questi trent’anni di vita: Prima di tutti Fulvio che mi ha salvato dalla disperazione rompendo gli odiosi catorci della cittadella di Dite dov’ero racchiuso, poi Ezio, Alfredo, Luigi, Silvano, Danilo, ubriaco sempre, come me adesso, e rubicondo.

Come sta facendosi il cielo, laggiù, sulla sinistra, sopra la curva occidentale della pista da corsa.

Poi le mie donne migliori, le più intelligenti, le più belle. Il catalogo non ha importanza. Mia passion predominante? Dopo i fallimenti con le adultere scafate, con le intellettuali tristi e spietate, con le colleghe nevrotiche, cercherò una giovin principiante[9].

Tra gli uomini il più bello, adesso che sei morto lo ammetto, eri tu Bruno Pera. Delle donne Helena Sarjantola, sì la pregnante fascinosa. Forse per me anche un poco annosa. Coetanei eravamo noi due. Fulvio ogni tanto dice con una certa concitazione: “eh sì eh, Gianni, la donna deve essere giovane!” Poi si calma e aggiunge: “l’uomo no!”

Farò come Massimissa che ebbe un figlio a ottant’anni suonati[10].

Allora, nel 2027 o 2028, mi accontenterò di una quarantenne, quarantaduenne in ottima forma”.

Detto questo alzai verso il cielo il bicchiere quasi svuotato e la testa con la bocca che schiumeggiava di birra.

Pensieri di un cervello ebbro in una stagione triste.

 

 

 

[1] E’ un locale di Debrecen, come gli altri nominati subito prima. Significa “artista”.

[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog

[3] Cfr. T. S. Eliot, Il canto d’amore di Alfred Prufrock, 84.

[4] Il doloroso grido "io ho presofferto tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: dall'Eneide dove il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato disgrazie:"non ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinave surgit;/omnia praecepi atque animo mecum ante peregi "(VI, 103 - 105), nessun aspetto delle fatiche, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io ho presofferto tutto e ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente. In Curzio Rufo, Dario dice all’eunuco che gli portava la brutta notizia della morte della moglie Statira: “cave miseri hominis auribus parcasdidici esse infelix, et saepe calamitatis solacium est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non risparmiare le orecchie di un pover’uomo. Infine il Tiresia di Eliot:"and I Tiresias have foresuffered all ", ed io Tiresia ho presofferto tutto (La terra desolata, 243).

[5] Cfr. di nuovo Il canto d’amore di Alfred Prufrock di Eliot.

[6] Cfr. Seneca, Ep. 12, 9.

[7] . Ovidio, Metamorfosi III, 323 Venus huic erat utraque nota.

[8] Cfr. Esiodo, Teogonia, 27.

[9] Sto echeggiando qualche battuta del libretto di Da Ponte del Don Giovanni musicato da Mozart.

[10] Nel XXXVI libro delle sue Storie Polibio racconta che durante il secondo anno (148 a. C.) della terza guerra punica morì, novantenne Massinissa, il re della Numidia che viene elogiato per la sua vigoria, la sua fecondità (lasciò un figlio di quattro anni ed altri nove figli) e rese fertile la sua terra, secondo il principio che le capacità di un capo influenzano il suo popolo e perfino la produttività della sua regione.

  

La storia di Päivi 36. Preghiera alle amiche e agli amici. L’apprendistato che dura tutta la vita.

Non volli che la tristezza prevalesse con voluttà depravata.

Mi venne in mente di nuovo Tacito: “Feminis lugere honestum est, viris meminisse "[1]

Mentre i fumi dell’alcol esalati svanivano a poco a poco, rivolsi una preghiera alle persone care le cui immagini aleggiavano lievi nel cielo sopra di me. Ora so che erano diventati gli exemplaria aeterna di amici, amiche e amanti che avrei incontrato nel seguito della mia vita e forse nelle prossime esistenze terrene. Elena l’ oujsiva[2] dell’amore, l’ijdeva di Afrodite, Danilo l’incarnazione di Dioniso, Fulvio l’exemplar dell’amico e così via.

Mi sentivo plenus his figuris quas Plato ideas appellat immortales, immutabiles, infaticabiles[3].

“Il ricordo di voi, la memoria del tempo felice passato insieme, rimarrà un bene prezioso, un tesoro conservato per costruire la felicità futura, la mia e quella delle persone cui vorrò bene nei prossimi anni.

Voi, donne della mia vita, mi avete nobilitato e potenziato rendendomi sempre meno debole, più capace di amare e meno incapace di farmi amare; poi, quando siete dileguate, mi avete comunque lasciato una forza che non è andata via. Avevi ragione tu Päivi: io rimango ottimista in ogni caso, amantissimo della vita e assai curioso di lei.

E non smetterò di cercare la felicità, come quella che ho provato nell’amore con te.

E tu Bruno, non eri un amico, anzi, eri un rivale nell’agone premiato con i tesori veri, le donne, comunque sei sempre stato un antagonista degno di me. Ci siamo battuti in maniera cavalleresca per ottenere il favore delle femmine umane più belle. Devo ammettere che da vivo mi eri antipatico soprattutto perché anche tu piacevi alle donne. Proprio per questo te la sei goduta la breve vita che hai avuto in sorte, troppo breve ma per niente insignificante né triste. A Roma vivevi in un appartamento con vista sul Pantheon. Una sera ci siamo fatti una bevuta lì dentro, con Ezio e Alfredo. Ricordi?

Siete ombre oramai, amici del tempo migliore, ma non sono un vecchio stanco delle ombre che vivono dentro di me, un lassatus senex in me viventibus umbris, non lo sarò mai. Continuerò a ricordarvi sempre con affetto e con la gioia della nostra gioventù.

Non lamentarti, povero Bruno.

Non lamentarti neanche tu gianni ghiselli, e soprattutto, non disperare: tu adesso sei Odisseo o Ulisse che dire si voglia, non sei più Ettore, l’eroe perdente con il quale ti identificavi quando eri bambino, né l’infelice Leopardi dalla vita annegata nel dolore. Nel frattempo hai imparato a non affogare nel mare in tempesta. A tratti sei stato sommerso dai flutti, ma sei riaffiorato sempre, come l’uomo maturo di Omero.

L’eroe della pazienza, dell’intelligenza e della conoscenza.

Presto tornerà il tempo bello e meritamente potrai gioire della luce del sole.

Non avvilirti: hai sofferto dolori più grandi di questo, e da poluvtla~[4] li hai sopportati, da poluvmhti~[5] e polumhvcano~[6], li hai superati, anzi, ne hai tratto sempre motivi di crescita. Quando in casa, o in parrocchia, tra gli scout, o in caserma, perfino a scuola, volevano mangiarti il cervello per assimilarti al conformismo di ognuno di quegli ambienti, hai sempre saputo difenderti con la tua sensibilità, il tuo amor proprio, la tua intelligenza, la tua volontà di ferro.

E ce l’hai fatta. Non sei diventato un morto vivente come volevano loro, i conformisti.

Luoghi comuni incarnati, cumuli di banalità.

Ce l’hai fatta perché non hai mai disperato: sei sempre rimasto deciso a trovare la felicità che ti spetta, magari con l’aiuto di Atena che pur senza essersi manifestata del tutto, ti ha dato una mano ogni volta, perché ti assomiglia e un giorno si lascerà incontrare da te”.

 

p. s.

Sto per andare a una cena cui mi hanno invitato le ragazze e i ragazzi che portai alla maturità del 1977. Eravamo nel liceo Minghetti, adolescenti loro, giovane insegnante apprendista io. Credo di essere ancora apprendista: l’uomo intelligente e buono lo è per tutta la vita.

 

[1] "Per le donne è onorevole piangere, per gli uomini ricordare". Tacito, Germania (27, 1)

[2] Cfr. Fedro 247 C “oujsiva o[ntw" ou\sa”, l’essenza che essenzialmente è.

[3] Vfr. Seneca Ep. 65, 7.

[4] Odissea, 5, 354, paziente, che molto sopporta

[5] Iliade I, v. 311 e v. 440, molto intelligente

[6] Iliade II, v. 173, ricco di risorse

 

  

La storia di Päivi 37. Epilogo. Gli amici celesti. La "circulata melodia"

 

Quando ebbi finito di scrivere queste parole, alzai dal quaderno gli occhi e guardai oltre lo stadio, verso l’occidente dove si vedeva ancora una striscia di colore acceso, rimasta a ricordarmi le estati felici degli anni passati, a far presagire i tempi belli degli anni futuri: su quella lista vermiglia, resistente al dilagare dell’azzurro che avanzava da oriente screziandosi già della luce brillante dei primi astri, mi apparvero i volti ridenti di tutti gli amici scomparsi eppure presenti.

Chiesi loro cosa volessero dirmi.

Risposero che non dovevo perdere la speranza, e non potevo sciupare il tesoro di umanità che ciascuno di loro mi aveva donato, ma con questo e con le mie forze dovevo continuare la lotta per la felicità, la mia e quella delle persone che il destino mi avrebbe fatto incontrare.

Questo mi dissero i compagni dei miei vent’anni. Poi, mentre l’azzurro cupo del cielo si costellava tutto, gli amici si presero per mano, formarono una corona e cominciarono a cantare un canto popolare ungherese [1] girando intorno alla luce più viva; quindi il loro movimento diventò una danza gioiosa, rispondente alla circulata melodia [2] suonata dai violini degli tzigani, o degli angeli, che consolarono del tutto il mio pianto e lo trasformarono in un sorriso di speranza e fiducia.

Così vi ho visti riuniti per l’ultima volta, amici ventenni dei miei venti anni lontani, così voglio ricordarvi e farvi vivere in questa storia che anche voi mi avete ispirato: giovani, belli, felici, come eravamo nelle estati “debrecine”, sorridenti come eravate in mezzo alle stelle sopra lo stadio e il grande bosco di Debrecen la sera del 15 agosto del 1975, quando i nostri venti anni ricchi di pathos terminarono e cominciò la connessione dei sentimenti attraverso il logos, con una vita più responsabile, autentica e seria; meno squilibrata, superficiale, egoista.

 

Fine del terzo dramma della trilogia ugrofinnica.


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[1] Debrecenbe kéne menni, bisogna andare a Debrecen, et cetera

[2] Dante, Paradiso XXIII, 109

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