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La storia di Päivi 1. Prologo
Nel 1974, ottenuto il trasferimento a Bologna e concluso l’ultimo anno di
insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, tornai a
Debrecen dove la sera dell’Ismerkedési este[1] ebbi un’esperienza erotica poco significativa con una tedesca
ventiduenne, Cornelia, una donna che cinque anni più tardi, nell’anno di
Ifigenia, mi avrebbe detto frasi [2], piene di educazione attiva, tanto che mi avrebbero lasciato un segno più
forte, profondo e positivo dell’insulsa, precipitosa avventura di quell’estate
già allora lontana. Le parole belle danno luce al pensiero e alla vita.
Ma nel luglio del ‘74, due giorni dopo avere conosciuto Cornelia, una tedesca
di Berlino est, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi piaceva di
più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai persona di
grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi un amore
grande, tra i più significativi e denso di conseguenze in questa mia vita
mortale, comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso
ancora non definita bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Era finnica pure lei: la terza della serie iperborea. Era la persona di cui
avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di pensieri miei.
Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non senza bevute e
mangiate, sebbene, almeno queste, smaltite con corse a piedi e scalate di
montagne in bicicletta.
Arrivato all’età virile, sentivo l’esigenza di iniziare un’altra vita, più
impegnativa, più mia. L’estrema delle mie finniche, l’ultima tra queste donne
arrivate dall’ultima Tule[3], da psicologa brava qual era, mi rese manifesto questo sentire latente. Se
sono diventato una persona desiderosa e capace di apprendere, se ora sono in
grado di insegnare qualcosa a chi mi ascolta e a voi che mi leggete, lo devo in
buona parte a quella donna. Oltre ai genitori che mi hanno dato la vita
beninteso, e a me stesso che ho saputo valorizzarla, agli studenti che mi
ascoltavano con attenzione .
L’estate del ’74 fu l’estrema e definitiva in cui amai una finnica a Debrecen,
dopo averla vista e riconosciuta come simile a me, o creduta tale, nel grande
cortile d’onore dell’Università. Con questa storia concludo dunque la trilogia
finlandese.
In maniera capovolta rispetto alla terza tragedia dell’Orestea di
Eschilo però: nel finale ci sarà una metamorfosi negativa e l’Eumenide prima
benefica e buona diventerà poi un’Erinni ostile, feroce.
[1] Festa della conoscenza
[2] Le racconterò in un capitolo successivo, se Dio vorrà.
[3] Cfr. Virgilio Georgica I, 30
La storia di Päivi 2
La studiosa seria che mi ha motivato a studiare sul
serio
Anche con questa ragazza andavo a passeggiare nel bosco, tra le antiche
querce giganti che ombreggiano i prati fioriti e nella radura del piccolo lago
varcato dal ponticello di legno che lieto risuona; oppure ci recavamo nel
centro della città sul tram numero uno che gira senza fretta sopra i binari
circolanti tra l’università e la stazione, quindi tra la stazione e
l’università, e passa in mezzo alle ombre fitte della foresta, poi circola nel
corso assolato davanti all’Aranybika, dove ci fermavamo per bere una palinka
all’albicocca, giallina, oppure una birra densa e amara, o un bicchiere di
aspro sangue di toro di Eger. Talvolta non prendevamo il tram numero uno,
l’unico tram, di colore giallo, ma salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci
recavamo a Hortobágy attraverso la puszta polverosa, o
fangosa, dove le oche protendevano il collo e giubilavano roche[4], e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il
grugno ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a
cercare in qualsiasi cibo una qualche gioia, o una parziale consolazione della
loro voracità che mai sazia chiedeva sempre di riempire il vuoto interno. Come
l’ingordigia di certi uomini. Tra loro c’era del resto un cucciolo carino: un
porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora grazioso verso
gli adulti . Ma sarebbe diventato come gli altri al pari di tanti bambini dai
genitori entrambi obesi.
Nella csárda gli zigani dai volti gialli come limoni suonavano
le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali
precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la
scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di
altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco,
grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e
polveroso di Debrecen sul calar della notte[5]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese
sconosciuto e remoto di cui non conoscevo l’idioma agglutinante privo di radici
a noi note. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento
personale, una resurrezione che sarebbe cresciuta negli anni fino a
perfezionarsi grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente.
Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.
Giunto sul limitare della trentina inquietante[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del
luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da osceno e ributtante
quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per
scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi
sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio
per loro del resto.
Caivrete gunai'keς, tanti saluti donne! Vi ho mancato.
Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava,
non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in
condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio
prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane
donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi. Se
non è morta, arrivata a 71 anni, si chiama ancora così.
Era bello e utile conversare con
lei, era bello assai e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi
universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in
quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo, e
aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla
rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano
perle.
Päivi compiva ventiquattro anni in quei giorni e si era da poco laureata in
psicologia a Yväskylä. Päivi significa "luce", e, dato che i nomi
sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha gettato un fascio del
suo faro luminoso sul cammino che dovevo affrontare al ritorno in Italia, la
strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo. Dovevo attraversare
il sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura
di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la
amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per
luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua
disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[8].
La disciplina che ho dovuto impormi, non senza fatica grande, con il
volgere delle stagioni è diventata una necessità voluta e piacevole.
[5] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente in questo blog
[6] Riporto qui in nota alcune parole di Oblomov all’amico Stolz:
"Sai, Andrej, nella mia vita nessun fuoco né divoratore né purificatore ha
mai divampato. Essa non è stata, come quella degli altri, simile al mattino che
a poco a poco si colora e s’accende, poi si muta nel giorno che ferve, arde e
palpita nel meriggio luminoso e poi, sempre più pallido e quieto, naturalmente
e gradatamente, si spegne nella sera. No, la mia vita è cominciata con il
tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo momento che ho avuto coscienza di me,
ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi scrivendo gli
incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei libri quelle
verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento con gli
amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro malignità, il
loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine; contemplando quel
loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo, senza cordialità; mi
sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui spendevo più di metà
delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel tetro e fiacco
passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i baveri di
castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo lietamente
accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in sciocchezze la
vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p. 240.
7 Ed ecco la trentina-inquietante, torbida
d’istinti-moribondi (Guido Gozzano, I colloqui, vv. 9-11.
8 Antico
Testamento, Siracide, La sapienza
educatrice
La storia di Päivi 3. La conversione dal sapere alla sapienza
Fino a Päivi, con i libri avevo avuto un rapporto di sottomissione, senza simpatia,
se avevo dovuto studiarli a memoria per degli esami da sostenere davanti a
inquisitori spesso privi di visione d’insieme della materia, non poche volte
cooptati e sussunti per vari motivi estranei alle capacità e a meriti veri;
oppure con gli autori avevo avuto relazioni simpatiche ma prive di metodo, cioè
di una via (ojdov") che
procedesse verso una meta. Avevo avuto il trasferimento dalle medie alle
superiori per l’autunno seguente.
Dovevo sottomettermi a lunghi orari di studio, ma dopo Päivi l’avrei
anche voluto con forza, per trarre dalle letture quanto poteva servire a
migliorare me stesso, a potenziare la natura mia e dei discepoli miei. Lo
studio se non potenzia la natura non è cultura. Questo mi ha insegnato Päivi,
la luminosa, la Fedra, durante quel mese, passato il quale del resto diventerà
una Medea, quando il parto travagliava le viscere sue, e anche i nostri
cervelli, come vedremo nell’esito tragico della vicenda. Resta comunque il
fatto che l’ultima delle Finniche mie con la sua intelligenza seppe chiarirmi
il caos da dove pullulavano ancora angosce deformi, antichi dolori, desideri
cattivi, soffocati ma sempre malignamente attivi, bramosi di ostacolare il mio
progresso verso la felicità. Dopo le belle esperienze con Elena e Kaisa ero
regredito a relazioni ordinarie e volevo purificarmi, diventare quello che sono
davvero, trovare il coraggio di apprezzare e valorizzare la mia estraneità
dalle mode dal “si deve pensare, dire e fare così”. Nell’insegnamento non
dovevo fare quello che avevano fatto a me, fatto di me, un disgraziato e un
ignorante.
Päivi autorizzò queste mie aspirazioni e mi avviò su questa strada
indicandomi un metodo appunto.
La storia di Päivi 4. Decadenza e morte dell’ethos politico dei primi anni Settanta.
La vidi nell’ombroso cortile dell’Università il giorno del ricevimento del
rettore, giovedì 25 luglio, verso le quattro del pomeriggio.
Nell’estate del ’74 Fulvio non c’era poiché stava vivendo la sua esperienza di
marito e di padre a Parma da dove poco poteva muoversi; Claudio non c’era
siccome in maggio l’avevano messo in galera, a San Vittore, incolpato di
infamie su infamie; Luigino non c’era poiché aveva seguito su un traghetto,
diretto chissà dove, un mozzo turco - cipriota, l’uomo e l’amore della sua
vita.
Invece erano tornati là, nella puszta con me, oramai per la
decima volta, Danilo, Ezio, Alfredo, Fausto, Silvano, e Bruno già sacro alla
morte vicina [1] Ora siamo
nell’agosto del 2021 e nel frattempo sono morti anche Alfredo Silvano e Fulvio
il più caro di tutti.
Quel pomeriggio di luglio, noi Italiani superstiti della Debrecen ’66,
prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane come
i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era
invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi
stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel
volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre in
rilievo. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri
ingrassati; insomma noi eravamo ormai gli “ospiti antichi” dell’Università
estiva di Debrecen, così ci salutò il rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e
battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi
ventenni, poiché è proprio vero che noi mortali siamo come le foglie [2].
Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale, presentava
personaggi ancora giovani, eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi,
anche se non degradati proprio del tutto come sosteneva a gran voce il povero
Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione. Si erano comunque già
appesantiti gli arti di tutti noi, e nel frattempo il sogno di realizzare
presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o
cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri
cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale
che riduce tutto a commercio, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il
sopravvento. Da cinque anni oramai le stragi facevano i loro massacri di vite
umane e di simpatia, di fiducia tra gli umani.
Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.
1 Cfr. Virgilio, Eneide I, 712
2 Cfr. Iliade VI, 146
La storia di Päivi 5 . Il
coro dei reduci da una guerra persa. L’apparizione
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, Antonella, una
ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta
a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano,
non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita
mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del
Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli
e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice
adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva
furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava
da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire
dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo
di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e
una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a diversi quadri
di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore
di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa
del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede
politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più
poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure
amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le
ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di
cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire.
Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con
euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai
capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da
persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto
portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva
l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava
sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi
meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva.
La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero
pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca
magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio,
come la voglio!”.
Duravo fatica a trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a
suggere, a proporre la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il
tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio
scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il
profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso
gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica
originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che
delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al
fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di
questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi
attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se
sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese
passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei.
Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi
chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.
La storia di Päivi. Capitolo 6. L’approccio meditato
Presi un bicchiere, ci versai della birra chiara, poi mi appoggiai con la
schiena al muro di sostegno della scalea per cui si scende nel megaron e di lì
si risale, vincitori o sconfitti. Quindi diedi inizio alla prova guardandola
intensamente e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti
interiori dai quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non
mi ingannavo nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al
mio, anche se, forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione
con lei, che a quello di allora.
Sebbene la ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda
intorno per farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi
notasse e si incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur
sempre una femmina umana giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva
di anelli quali ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e
magari pure desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io del resto mi sentivo,
e forse anche ero, nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del
resto non ancora compiuti, non mi avevano incanutito nemmeno un poco, né
spelacchiato, né ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano dato al
mio viso molto abbronzato e un poco segnato da rughe, leggeri solchi seminati
di vita dal Sole, il dio che nutre appunto la vita, e un’espressione
consapevole che potenziava la forza attrattiva dell’insieme.
In quel pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona
riuscita del mio intento, un poco ricordando i successi[1] del ’71[2] e del ’72[3] in circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di
preciso da dire, da chiedere e offrire, a una donna probabilmente dotata e
ricca di anima, quale pareva quella creatura dai capelli lunghi, dall’aria
intelligente, vestita di velluto purpureo. Allora non sapevo che la porpora può
essere sinistramente ominosa e annunciare la morte vicina[4].
Non lo immaginavo neppure, e aspettavo agognando il momento opportuno,
l’occasione che mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul
campo fiorente del suo seno, del suo ombelico che identificavo già con quello
del mondo. Volevo andare a pregare pure su quello come avevo fatto a Delfi,
dove più di una volta Dio mi aveva esaudito.
“Dio, come mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che possa piacere
a lei. Se mi dai quella donna, Dio, e se è come appare, ti prometto che d’ora
in avanti farò di tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte.
“Tu sei piena di spirito” pensavo
poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale mio incarnato in tale femmina umana.
E cercavo di farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non
ordinaria, lanciando occhiate piene di pathos intelligente.
Lei però, con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva
visto. Parlava con un’altra, finnica probabilmente, senza guardarsi intorno
come fanno gli eterni cercatori di amore.
“Stai a vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque
un ostacolo insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà
scoraggia il fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né
l’altro. Commisura le possibilità di successo alle tue forze e alla necessità
dell’amore. E all’esperienza che ti ritrovi. Non contare i tuoi anni, ma le non
poche donne che hai conosciuto, alcune anche meravigliosamente”.
Vero è che le due conoscenze più belle erano state interrotte dopo un solo
mese di gioia, e tale sarebbe stata anche questa con ogni probabilità, ma non
era il momento di lasciarsi frenare da questo pensiero.
Me ne sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale
la distingueva da tutte, e accresceva in ogni momento la prima impressione che
quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio
l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo
insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero
cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime.
Ogni minuto che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate dalla luce già
meno alta si allungavano rapidamente tutte le ombre, la necessità dalle mani
d’acciaio mi spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con
quella che mi appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano.
“Tu sei nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari
e capisci, creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna
traccia di posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te.
Cerca di capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che,
ispirato da te, riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno
della tua nobiltà”.
Mentre pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo
significarle la mia profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore,
dell’amore di lei.
Ma nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque
minuti di quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il
bersaglio soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di
intelligenza e luminosi di pathos, poiché lei non mi prestava
attenzione; forse nemmeno si era accorta di me. Capii che dovevo andare a
parlarle. Dovevo andarci, anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo
proprio, dato che la splendidissima rossa vestita del colore di fiamma viva,
con gli occhiali da vista e l’aria pensosa, poteva essere proprio colei che mi
avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a
voi lettori cari[5].
Le arrivai vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse
un’occhiata, e quando, come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in
inglese ovviamente, con calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che
ero diverso dal coro della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e
che non mi presentavo per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una
straniera nordica e pure orientale, presumibilmente più libera in cose erotiche
di un’italiana ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una
relazione profonda proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità,
ossia con il destino buono che doveva essere il mio.
[1] Cfr. quanto dice Giuliano Augusto quando si prepara ad attaccare
Costanzo e parla ai soldati: quid agi oporteat bonis
successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21,
5, 6).
[2] Cfr. la storia di Helena .
[3] Questa è la storia di Kaisa .
[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il
troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~
qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la
morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano
quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In
quella circostanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii
muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul
ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.
[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per
diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia
almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si
offende, peggio per lui.
La storia di Päivi 7. L’approccio riuscito. Ne ringrazio
ancora gli dèi
Dissi: “Senti, scusa, io non ti conosco, ma ti trovo interessante”.
“Proprio me?” domandò con straordinaria, elegante modestia.
L’abito letterario mi fece pensare alla Chauchat di Thomas Mann.
“Sì, appunto, proprio te, e mi piacerebbe se tu volessi parlare con me. Mi
chiamo Gianni”.
Mi osservò senza sdegno né compiacimento. Era rimasta seria e sembrava
incuriosita.
Infatti mi chiese: “Per quale ragione vuoi parlare con me?”.
“Perché in te c’è qualcosa di bello, di fine, di molto attraente. Penso che
non conoscerti sarebbe un’occasione perduta. Per me di sicuro e forse anche per
te. Considera che questo momento cruciale potrebbe non tornare mai più se mi
mandi via. Per me sarebbe una perdita grande. Hai un bello stile. Come ti
chiami e da dove vieni?”
Il mio destino che, come il suo d’altra parte, conteneva il nostro
vicendevole amore, mi fece dire tali parole comuni, banali, con l’aria della
sicurezza e la forza della persuasione.
Päivi mi osservò di nuovo per un momento, poi, da par sua, cioè senza
posare né gesticolare, molto semplicemente e direttamente, rispose: “Tu credi
davvero che in me ci sia qualche cosa di buono? Forse ti sbagli. Comunque mi
chiamo Päivi. Sono finlandese. D’accordo, parliamo, se vuoi. Anche tu non
sembri ordinario. Forse quello speciale tra noi due sei proprio tu”.
Pensai che potesse parlare con un velo di ironia. Decisi di non tenerne
conto.
“Quello che ho di speciale me lo suggerisci tu. E’ per la volontà di
parlare con te e di piacerti che cerco di tirare fuori il meglio di me.”
“ In effetti hai un modo di proporti che non mi dispiace. Sei un uomo per
lo meno educato. Di che cosa vuoi parlare con me?”
“Di molte cose allegre e di alcune serie. Da questa festa della nostra
conoscenza alla tragedia greca se vuoi. Ma prima di me e di te”.
“Sei greco? L’aria mediterranea ce l’hai. La conosco e non mi dispiace. Mio
fratello è fidanzato con una greca”.
“No, non sono greco, sono italiano. Però ci hai quasi preso. A parte che
amo la cultura greca e ne sono stato formato, i Greci quando vedono noi
italiani ci dicono ‘ italiano una razza, una faccia’. Sono italiano di Pesaro
sulla costa adriatica, ma ho studiato greco antico e latino all’Università di
Bologna, e da quest’anno li insegnerò in un liceo di quella città. Può
interessarti?”
“ Come no? I Greci classici, entrano nei miei studi e nei miei
interessi, soprattutto Sofocle in particolare. Freud gli è debitore. Anche a Empedocle
deve non poco. Vedo che possiamo parlare. Non da eruditi pedanti, spero”.
“No di certo. Non sono il tipo della talpa filologica stigmatizzata da
Nietzsche [6]. Studio parecchio ma faccio anche dello sport e qualche volta scendo per
strada a tamburellare ditirambi oppure indago me stesso per diventare quello
che sono: apollineo e dionisiaco.
Guardarti, starti vicino mi vivacizza, realizza e mi riempie di gioia”.
“ Va bene - fece lei allora - Aspetta solo un momento: mi scuso con
gli altri finnici, prendo un bicchiere di birra, poi ci sediamo insieme da
qualche parte, dove vuoi tu”.
“Ce l’ho fatta - pensai, quasi lacrimando di gioia - ce l’ho fatta Dio,
grazie a te e alla mamma mia santa. Il sole fra tre ore tramonta, poi il cielo
sereno si arrossa, torma azzurro, si annera. Poi si schiarisce al biancheggiar
della luna. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci siamo noi due,
insieme. E’ questa la femmina umana, la Salvatrice, la Redentrice dovuta alla
mia umanità. Con lei, nel suo prato fiorente, voglio celebrare un’orgia tanto
santa che verrà benedetta anche dai preti".
[6] Per i filologi come talpe cfr. la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde,
del 20 novembre 1868: “Quella brulicante genia di filologi dei giorni nostri,
quell’affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo
cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferente verso i veri,
urgenti problemi della vita”.
La storia di Päivi 8.
Il dialogo della conoscenza
Ero felice. Piacere a una donna di aspetto gradevole e di stile nobile
significa fare centro nella natura, entrarci trionfalmente, non essere
rinnegati e respinti dal mondo dove siamo finiti, ma diventare partecipi del
suo ordine bello. Quando una creatura siffatta ti dice di sì, la vita stessa ti
dà la sua approvazione e ti infonde il coraggio necessario a procedere per la
salita erta che porta alla pianura della verità[1], il luogo nel cui prato dal verde brillante risplendono immagini integre,
semplici, prive di crepe, beate, le idee che costituiscono il nutrimento per la
parte migliore della persona, quel cibo spirituale che fa spuntare e potenzia
le ali dell’anima.
Ci sedemmo a un tavolino libero con i bicchieri di birra in mano e ci
conoscemmo a vicenda con una conversazione di cui ricordo alcune frasi davvero
dette, o, dove non le ricordo, integro le parole che due persone della nostra
levatura avrebbero potuto[2] dire in tale circostanza.
Päivi: “allora di che cosa vuoi parlare con me?”
Gianni: “mi piacerebbe sentirti parlare di te. Da dove ti viene questo tuo
stile bello, sicuro, essenziale, come quello di un’opera d’arte?”
Päivi: “io non sono sicura. Lo stile comunque lo prendo dal mio
temperamento e dalle esperienze che mi hanno formato il carattere negli anni
della mia vita. Il 19 luglio ne ho compiuti
“E’ del cancro” pensai. “Anche zodiacalmente mi si addice”. Ma non lo
dissi: mi sembrava troppo razionale e logica quella donna per approvare
un’affermazione del genere. Tuttavia, nel mio essere scorpione con ascendente
scorpione, per il poco che sapevo di astrologia vidi nel suo essere del Cancro
un altro segno del fatto che noi due eravamo predestinati a un amore grande,
facente epoca e storico se non eterno.
Ripresi a farle domande e ad ascoltarla con attenzione piena.
Gianni: “Un filosofo greco, Eraclito, afferma che il carattere è il destino
dell’uomo[3]. Il tuo a cosa tende?”
Päivi: “A imparare. Io amo imparare, ne sono assetata. E il tuo?
Gianni: “Anche a me piace imparare. Dalla vita e dai libri. Amo apprendere
per insegnare. Insegno da cinque anni. Tu per quale motivo vuoi imparare, per
chi, oltre che per te stessa?”
Päivi: “ Per curare i nevrotici. Ho appena finito di studiare psicologia
all’Università. Ho fatto molti test, ho letto parecchi libri, ho cominciato a
scrivere articoli. So già qualcosa ma davvero poco: voglio sapere molto di più.
Io ho imparato soprattutto dai libri finora. Tu hai detto dalla vita. Cioè?
Gianni: “Dalle donne innanzi tutto. Quelle di casa mia, poi le amanti, le
amiche, le allieve, le colleghe. Per me le donne sono la fonte primaria non
solo della vita ma anche della conoscenza. Sono loro che gestiscono il fuso di
Ananche[4], l’asse del mondo, il cardine sul quale tutto gira.
Poi imparo dai libri. In questa strada sono ancora ai rudimenti. Però
da qualche tempo ho capito che devo procedere metodicamente sulla via[5] dell’imparare leggendo, non per gli esami universitari, quelli li ho
finiti da tempo, ma per me e per i miei studenti.
In autunno comincerò a insegnare al liceo dopo cinque anni di scuola media
dove ultimamente non avevo più stimoli.
Ora che sono qui con te, ne ricevo osservandoti. Guardarti mi rende attento
e anche contento. Mi aspetto cose buone dalla vita. Ne ho una visione piuttosto
ottimistica. Tante volte sono addirittura felice. Quando faccio una bella
lezione dalla quale imparo io stesso mentre insegno[6]; quando scalo una salita dura in bicicletta lasciando indietro gli altri
agonisti; quando corro i cinquemila metri illuminato dalla luce sfarzosa del
sole estivo, lo faccio ogni giorno anche qui a Debrecen, nella pista dello
stadio; quando osservo i lunghi tramonti all’inizio dell’estate; quando parlo
con i miei amici più cari. Ma soprattutto quando incontro persone del mio
stampo, come credo sia tu. Io sono molto curioso della vita. La amo e qualche
volta, anzi spesso, lei mi contraccambia. Tu sei felice?”
Päivi: “Meno di te. Non ho fatto molte esperienze buone”.
Gianni “Sei anche molto più giovane. Io il 14 novembre compirò
trent’anni”.
Päivi.
“Li porti bene. Devi avere una grande vitalità. L’ambito dei miei interessi
è più ristretto del tuo. Io imparo quasi esclusivamente dai libri e dai test
sui nevrotici. Anche io del resto sono nevrotica, siccome sono molto
egocentrica e chiusa in me stessa. Se ci conosceremo meglio, se entreremo in
confidenza, ti dirò dell’altro a questo proposito, ora non me la sento.
Comunque sì, condivido la tua voglia di parlare tra noi, di conoscerci meglio.
Tu non mi sembri banale. Scusa, ripetimi il tuo nome: non ci ho fatto caso
prima, quando ti sei presentato. Dimmi anche da quale parte dell’Italia vieni.
Il tuo naso è tipicamente italiano. Mi piace. Mio fratello ha una compagna greca.
Si vede che in famiglia siamo predisposti a incontrare i Mediterranei. Anche il
tuo modo di guardare mi piace”.
Gianni:
“Mi chiamo Gianni, vengo da Pesaro ab antiquo, poi da Bologna e
ora da Padova. Ma in autunno tornerò a Bologna. Piacerti mi rende felice per
tanti e vari motivi, prima di tutti perché mi piaci molto. In te vedo il mio
ideale di donna. Anche io, scusa, non ho notato il tuo nome. E dimmi da quale
parte della Finlandia vieni”.
Päivi: “Il mio nome non te l’ho ancora detto. Mi chiamo Päivi. Significa
“luce”. I miei parenti vivono a Oulu nella Finlandia settentrionale, vicino al
circolo polare artico, ma io ho studiato e ora vivo a Yväskylä, una città
universitaria della Finlandia centrale.
Gianni: “So dov’è. Ne ho sentito parlare da un’amica conosciuta qui a
Debrecen, tre anni fa, Si chiama Helena[7]”.
Päivi: “L’hai più vista da allora?”
Gianni: “No, è tornata lassù, tra i boschi e i laghi. E non si è più fatta
viva”[8].
Päivi: “ti dispiace?
Gianni: “No. La funzione storica della nostra amicizia era finita”.
Päivi (con un sorriso e un pizzico di ironia): “Oggi magari troverai
una ‘funzione storica’ nel nostro incontro”.
Gianni: “Certo, la troveremo insieme”.
Pesaro 28 agosto 2021 ore 10. Si appressa l’umido
equinozio che offusca l’oro delle sabbie salse (cfr. d’Annunzio La sabbia del tempo).
Tornerò presto a Bologna dove lunghi, freddi e buoi
sono gli inverni. Ma senza mio scontento siccome mi aspettano tante conferenze
e molte altre cose buone che illuminano e riscaldano la vita invece del sole (solis vicem).
1 Cfr. Platone, Fedro, 247b: to; ajlhqeiva~ pedivon.
2 Cfr. Tucidide I, 22, 1 “ Quanto a ciò che ciascuno disse con un
discorso (…) era difficile sia per me ricordare la precisione alla lettera
delle parole dette che io stesso ascoltai, sia per quelli che me le riferivano
da qualche altro luogo, ma come mi sembrava che ciascuno avrebbe potuto dire
nella maniera più plausibile le parole dovute sulle circostanze via via
presenti, attenendomi il più vicino possibile al senso generale delle parole
veramente dette, così sono state riportate".
3 h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn, fr. 119 Diels - Kranz.
4 Cfr. Platone, Repubblica, 616d. j Anavgkh~
a[trakton.
5 Procedere metodicamente sulla via è una tautologia poiché “metodicamente”
significa già sulla via (greco oJdov~) . Ma allora ero appunto rudimentale e non lo sapevo.
6 “homines, dum docent discunt "Seneca, Epist.,
7, 8., gli uomini, mentre insegnano, imparano.
7 Elena per cui cfr. un’altra storia contenuta in questo blog.
8 Cfr "Thou hast … committed
fornication but that was in another country, - and besides, the wench is
dead " "tu hai…” "fornicato;
ma fu in un altro paese e oltretutto la ragazza è morta. The jew of
Malta , IV, 1. T. S. Eliot utilizza queste parole del frate e di
Barabba come epigrafe a Portrait of a Lady, Ritratto di signora.
Del resto io non avevo fornicato con Helena: ci eravamo amati. La storia è
presente nel blog ed è bella.
La storia di Päivi 8.
La difformità dai luoghi comuni ordinari non è
deformità, anzi
La incoraggiai a parlarmi ancora di sé, a fidarsi.
Le dissi che sentivo tra noi un’empatia alta e profonda: era lei la donna
che io, spezzone di essere umano, cercavo da sempre.
Le tradussi in qualche modo in inglese il meglio di quanto avevo pensato
sul conto suo da quando l’avevo vista entrare raggiante di spirito.
Päivi volle mettermi in guardia dicendo di non essere una persona
lieta; anzi precisò che era piuttosto infelice poiché si sentiva chiusa nel
cerchio dell’io: al pari di un bambino o di un narcisista che vede il mondo e
la gente soltanto in relazione ai propri bisogni e desideri.
“Ecco perché non sono ottimista, come cerchi di essere tu”, disse,
“temo che non potrò aprire mai la gabbia dell’io e farne uscire la mia libido
introversa”.
“Con me puoi renderla estroversa quando vuoi”, sussurrai con un sorriso.
Poi aggiunsi: “insieme possiamo dare una spinta al destino. Io l’ho già fatto
una volta aiutato da un amico[1]”.
Non ci fece caso e aggiunse che le nostre strutture mentali da un lato si
assomigliavano, siccome eravamo entrambi cercatori eterni di qualche cosa,
però, d’altra parte, differivano, in quanto lei disperava di uscire dal pozzo
cupo del suo egocentrismo, mentre io potevo ancora trovare la felicità che mi
aspettavo, e, probabilmente, mi spettava: “tu non sei infelice né sfiduciato”
fece guardandomi mentre la osservavo attentissimamente “sei nervoso perché non
sai bene quello che vuoi: tu hai solo bisogno di tempo. Devi rafforzare l’Io,
la tua parte cosciente, renderla autonoma rispetto all’autoritarismo del Super
io e metterlo in grado di conquistare e annettersi nuove zone dell’Es. Sei
sulla strada giusta, gianni”.
“Fiam Ioannes, diventerò quel gianni che prevedi. Ancora in
effetti non lo sono abbastanza”. Il ricordo di quanto mi ha detto questa donna
mi ha motivato a fare quanto devo a me stesso anche a costo di sacrifici
grandi. Non ho ancora compiuto questa impresa. Voglio completarla prima di
morire. Non troppo presto, spero.
Mentre continuava a parlare, Päivi mi dava sempre più la sensazione che
avevo incontrato una creatura della mia specie spirituale, del mio stampo,
della mia levatura qualunque essa fosse.
Verso le sei le proposi la gita, per me rituale, a Hortobágy: avrei gradito
la presenza di Fulvio, e di un’altra finnica, come nel ’71 quando tutto era
filato liscio con Helena, ma l’amico purtroppo non c’era, e dovetti
accontentarmi di Bruno e Silvano che stavano invitando due tedesche.
Päivi li definì subito “persone qualunque”, autorizzando la mia radicale
diversità dalla gente usuale. Quella ragazza con la forza della sua
intelligenza e cultura, come già Fulvio con la sua saggezza nobile e antica,
come poi Ifigenia con la potenza della sua bellezza, hanno incoraggiato la mia
difformità dalle persone ordinarie, gli indistinti, gli amorfi che ripetono e
praticano i luoghi comuni.
Le righe seguenti possono non essere lette poiché non fanno parte di questa
storia.
Faccio qualche esempio di mia difformità, o, secondo i malevoli, deformità.
Io comunque ne vado fiero.
Una volta si “doveva” fumare, o ci
si “doveva” sposare; ora si “deve” avere il telefonino e ci si “deve” far
credere ricchi, importanti, di grande conto e peso.
Io non ho mai fumato uno spinello né una sigaretta, non ho mai voluto e non
voglio il telefonino, baso le mie spese sulla pensione di insegnante, pago
tutte le tasse dovute e non mi lesino niente. Certo non i libri, i film e il
teatro.
Semplicemente non spreco.
"Non esse emacem vectigal est"[2]
Quando un ex boss dell’edilizia pesarese mi offrì molto denaro per
della terra che, data in affitto a un coltivatore diretto, mi rende poco ma
viene coltivata bene, lo rifiutai.
Mi pregio di nominarmi “il poverello di Pesaro”, il mendicante della
bellezza, l’accattone degli affetti e così via. Mi ripugna la gente che sfoggia
il denaro e ancora di più quelli che fingono, risibilmente, di averlo. Mi disgusta
ogni forma di affettazione. Trovo disgustoso chi va in televisione o altrove
mettendo in mostra i propri libri e dicendo o facendo dire “comprateli!”. Io in
passato ne ho prodotti e pure venduti bene con Loffredo, ma ora, da persona
matura e meglio cosciente, dico: non comprateli, ho tutto nel computer, li ho
resi più belli da allora e ve li mando gratis attraverso la posta elettronica.
Mi sembra più elegante, degno di me e del mio comunismo aristocratico.
Anzi, cito un poeta addirittura fascista con il quale condivido l’amore per
la cultura e l’odio per l’usura:
For I am homesick after my own
kind
And ordinary people touch me
not.
And I am homesick
After my own kind that know,
and feel
And have some breath for
beauty and the arts (Ezra Pound, In Durance, 1907)
1 Cfr. Eneide, I, 712. Si tratta di
Didone infelix pesti devota futurae, infelice sacra alla rovina
futura
2 Cicerone nel Somnium Scipionis, chiama
il sole"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et
temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri,
mente del cosmo e forza regolatrice ( De Republica, VI, 17).
La storia di Päivi 9.
La preghiera urinando nella puszta
Andavamo dunque verso la puszta. Sulla
destra c’era il sole già piuttosto vicino al tramonto. Eravamo tre coppie in
due automobili: noi viaggiavamo soli e concordi nella nera Volkswagen; gli
altri quattro ci seguivano nella Renault blu di Bruno, lo sfortunato
ragazzo pesti devotus futurae [1]. Con il senno di
adesso le due automobili scure potevano evocare, addirittura anticipare il
corteo tetro verso l’ultimo viaggio.
La bambina frutto del nostro amore sarebbe stata
soppressa in autunno,
Bruno sarebbe morto l’estate successiva in un
incidente stradale in Africa e Silvano si trova tra i defunti, quelli che hanno
compiuto la vita, da un paio di anni.
A un tratto Päivi mi chiese di fermare la macchina e
lasciar passare gli altri: doveva scendere per un bisogno; lo sentivo anche io
dopo le due birre bevute nell’ombroso cortile. Ci separammo, ovviamente. Io
camminai verso occidente finché giunsi a una siepe oltre la quale vedevo
l’immergersi lento del sole nella pianura infinita.
Mentre con gettito lungo, non frenato da una prostata
grossa come quella di Marlon Brando nell’Ultimo tango a Parigi di
Bertolucci, urinavo le birre contro i raggi lucenti della sera estiva, piena di
voli, rivolgevo tale preghiera al dio che scalda e nutre la vita: “Signore del
mondo, ti prego, dammi la forza di amare questa ragazza dal volto che irradia
ricchezza spirituale; fai che io possa trarre da lei, dalle sue fessure
tartare, luce di comprensione; fai che Päivi a sua volta possa ricavare a sua
volta da me la volontà di uscire dalla caverna dell’egoismo dove non giungono i
tuoi raggi pieni d’amore. Se in vita mia qualche volta ho fatto del bene, se
talora ho venerato debitamente il tuo nume, Mente dell’Universo [2], se ho
meritato di te assai o poco, ti prego esaudisci questa preghiera devota”.
Ero un poco ebbro.
Il primo fra tutti gli dèi calava grande, non oscurato
da caligine né ombreggiato dalle nuvole dei moscerini; l’aria era calda, ma
viva e trasparente; al di là del cespuglio, su un campo di granoturco volavano
a gara i passeri frullando rapidamente e tripudiavano a gara altri uccelli
contenti; a destra, i cani paravano greggi di pecore intente a brucare l’erba
dove andavano e venivano pure grosse oche bianche dai colli stirati, e neri
maiali dalle zanne candide e aguzze. In quel tramonto tutto era santo, tutto
era sacro. C’erano mito, c’era poesia e c’era amore. I solchi arati spiravano
promesse di nascite nuove e i venti esalavano soffi pieni di vita.
Mi sentivo in armonia con la terra, con gli animali
pascenti e di guardia, con gli uccelli che li sorvolavano allegramente
salutando la luce, con la mia donna che più in là urinava anche lei impastando
la terra con il proprio liquido organico, nondimeno era molto dotata di anima,
e, mentre sentivo il benessere delle radici nella grande madre di tutti, mi
prefiguravo la spinta che io e Päivi ci saremmo dati a vicenda verso le altezze
sublimi dello spirito e della cultura. Ci sarebbe stata una calda unione di
corpi ma anche la fusione di due anime che, intimamente unite, sarebbero volate
insieme nel regno della bellezza eterna. Questi sono i momenti epifanici della
vita. Ne avrai avuti alcuni anche tu, lettore. Bisogna notarli e farne tesoro.
La storia di Päivi 10. La comunione bizzarra
Ero un poco ubriaco e molto felice.
Intanto alcuni piccoli uccelli si erano posati sopra i
dorsi bianchi e villosi delle pecore chine a brucare, e il sole spariva
salutato dal primo strimpellìo tremante dei grilli e dall’ultimo verso
stridente delle cicale assonnate.
A un tratto, la pecora più originale alzò di scatto la
testa; subito dopo sobbalzarono tutte le altre, e gli uccelli volarono via.
Osservavo il cielo maestro di umana sapienza [3].
Un salto nel passato di tre estati prima, quella di
Helena.
Consiglio di leggerlo.
Mi venne in mente un’aurora serena dell’agosto del
’71, quando, dopo un prolungato banchetto e l’insana dulcedo perpotandi et
pervigilandi [4] invece di andare a dormire, io con Fulvio, Ezio,
Claudio, Danilo e Alfredo, giovanilmente scherzando, uscimmo dal collegio
calandoci dalla finestra, siccome l’uscio di sotto era chiavato a quell’ora,
intorno alle tre della notte, o del mattino che dire si voglia.
Andammo a Hortobágy per vedere sorgere il sole. Nella
luce attiva del crepuscolo mattutino eravamo contenti. Io per Elena, Fulvio era
felice pensando al suo futuro con Bruna: dipingeva lieti pensieri nuziali [5].
Gli altri erano contenti di essere giovani, di essere
a Debrecen con tanti coetanei curiosi di conoscersi a vicenda. Era un bel posto
quello ed erano belli i primi anni Settanta per quanto riguarda i rapporti
umani. Nel ’74, come abbiamo visto e vedremo, i tempi e i costumi erano già
peggiorati, e noi, reduci del ’68, eravamo prossimi al disincanto.
Nl ’71 era ancora diffuso tra gli umani simpatizzare,
perfino volersi bene. Una moda presto defunta come molti di quei cari compagni
dell’età mia nova. Io non ho rinnegato quei mores oramai
antichi, non li ho scordati, anzi, passata la moda, mi sono rimasti dentro del
tutto accordati con il mio carattere, quale struttura della mia formazione e li
tengo in vita e li pratico con chi me lo permette senza prendermi per
deficiente, o per sognatore, o per pazzo.
Arrivati, si saliva sui gradini di legno di un teatro
aperto - locus Phoebo Bromioque sacer - da dove si poteva osservare
l’oriente infiammato e il fiume verde, popoloso di pesci, folto di canne,
sonoro di uccelli che salutavano il giorno. Sentivamo, amavamo la vita che ci
contraccambiava. Parlavamo di donne, di amori, di lavoro, facevamo progetti,
eravamo contenti. Sul ponte a nove arcate situato davanti alla csárda,
transitavano carri stracolmi tirati da grossi cavalli rossicci: portavano i
prodotti della puszta al mercato di Debrecen.
Danilo aprì lo spettacolo con un canto popolare
trevigiano della prima guerra mondiale. Una canzone di guerra, lenta, lenta,
che celebrava gli eroi morti e infondeva desiderio di pace. Ammaliato da
quell’elegia di stampo tirtaico, Fulvio assecondò l’aedo di Bassano del Grappa
e, sceso nell’ acqua bassa del fiume con il pigiama arrotolato sopra i polpacci
muscolosi, da oplita, eseguì alcuni passi di una danza pirrica, quindi intonò
un canto di guerra simile a quelli eseguiti dalla forte gioventù spartana prima
delle battaglie. Seguì un’ovazione. Quindi Danilo tirò fuori l’amica bottiglia,
cara compagna di colazioni, pasti merende e cene, poi disse che in quella
circostanza felice la cosa migliore era riprendere dal punto in cui ci eravamo
interrotti in collegio. Quel vino, aggiunse, rendeva servigi migliori
dell’acqua di seltz.
Quando il gaudente l’ebbe svuotata, gridai: “tra un
poco apriranno la csárda; che ne dite se entriamo per colazione e ce ne
facciamo stappare altre due?”. “Sicuro, e che tu sia benedetto, compagno
pesarese, caro da Dio!”, rispose l’amico grato della proposta inopinata.
Intanto Fulvio, Claudio, Ezio e Alfredo, riuniti in
una comunione bizzarra, si spartivano un grosso salame, due enormi cipolle, tre
cetrioli e due peperoni. Quando invitarono me e Danilo, nemmeno noi potemmo
astenerci da tali prelibatezze. Sicché facemmo questo banchetto aurorale.
Eravamo contenti e ci sembrava di vedere gioie maggiori che ammiccavano a noi,
ci facevano segni d’intesa. Io pensavo che se ero piaciuto a Elena sarei
piaciuto per sempre, alla vita che amavo con tutto me stesso dopo che avevo
smesso di sentirmi rinnegato da lei.
Erano già trascorsi tre anni da quell’alba ricca di
amici, di canti, di affetti. Nel 1974 la danza non era ancora diventata macabra
ma il tempo della comunione tra noi mortali era già consumato in gran parte,
quasi finito.
Da cinque anni oramai imperversavano le stragi e altre
ce ne sarebbero state. Rimaneva l’amore per una donna. Con il senno di adesso
dico che questo non può funzionare a lungo, se rimane isolato dal contesto
sociale.
3 Cfr. Platone (Timeo 47 a). Lo ricorda
Giuliano Augusto: oujrano;n fhsi Plavtwn hJmi'n genevsqai
th'" sofiva" didavskalon (A
Helios re 3, 38, 1)
4 Cfr. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni VI,
2, 2, il piacere malsano di bere e vegliare tutta la notte. Era uno dei vizi
dell’eroe macedone.
5 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, secondo coro
“Com’era allor che improvida/d’un avvenir fallace,/lievi pensier virginei/solo
pingea.”
La storia di Päivi 11.
I buoni segni vocali. Silvano e il
camionista.
Risalii nella nera Volkswagen dove Päivi mi stava
aspettando.
“Questa sera - le dissi a bruciapelo - vorrei fare
l’amore con te”.
Mi osservò in silenzio, poi sorrise e rispose: “ Lo
sapevo. Può essere”. Non ero sicuro che non fosse un may be formulare,
magari un segno di cortesia come è talora l’ottativo greco; era un intercalare
che avevo già sentito più di una volta da lei. Tatticamente discreto, non
insistetti, abbassai pudicamente gli occhi che sprizzavano desiderio e rimisi
in moto la nera Volkswagen.
Dopo pochi chilometri arrivammo a Hortobágy ed
entrammo nell’osteria. Ci sedemmo tutti al tavolo grande, il solito, quello
vicino alla stufa bianca e azzurra.
Päivi mi parlava di sé: io la ascoltavo e la guardavo
ammirandola, rilanciando ogni argomento suo con una o più domande e alcune
osservazioni.
Mi interessava ascoltare e osservare quella ragazza
dai lunghi capelli rossi che donavano indicibilmente al suo seno, al suo
eloquio e potenziavano il mio mentre li osservavo. Da allora le rosse mi
attirano molto, quanto le brune dopo Helena, Kaisa e Ifigenia.
Per le bionde non ho in testa un paradigma mitico e mi
piacciono meno intensamente. Non che siano da buttare via, per carità, ma i loro
capelli non evocano l’erba del paradiso, della felicità.
Silvano e Bruno parlavano piuttosto tra loro che con
le tedesche.
A un tratto ci osservarono, e Silvano disse: “guarda
quei due come comunicano volentieri tra loro. Secondo me ci scappa un grande
amore”.
Bruno confermò.
Tradussi l’ottimo auspicio a Päivi, quindi le
domandai: “It signs well, does it not? [1] E lei: “Yes, of
course, very well”.
Sono ancora grato a Silvano per quella osservazione
benevola, che mi incoraggiò. Aveva capito la situazione osservata dal suo punto
di vista che confermava il mio sguardo meno obiettivo per mancanza di
prospettiva.
Né lui né Bruno erano solo “persone qualunque”, come
aveva sentenziato Päivi. Bruno aveva individuato la degradazione della
bellissima era di solidarietà culminata nei primissimi anni Settanta. Quella
sera i due amici furono profeti delle mie nozze vicine. Avevano dato voce al
destino che le benediceva.
Tante volte non ci rendiamo conto di quanto basti poco
ad aiutare il prossimo. Non costa niente fare del bene: guardare chi
incontriamo con un sorriso non artefatto, dire una parola buona, amichevole,
incoraggiante.
Faccio altri due esempi. Il maximum è stato quello di
Fulvio che contribuì a salvarmi la vita nel 1966, come ho già rammentato. Ora
ne ricordo uno minore ma comunque importante e significativo. Questo risale
alla metà circa degli anni Cinquanta.
Ogni volta che pedalo su per una salita situata tra
Pesaro e Cattolica, detta la Siligata, mi viene in mente l’evento che
riferisco. Avrò avuto appena dieci anni, e pedalavo forse per la prima volta su
quella strada.
Dovevo farlo di nascosto e potevo farlo da solo. I
miei amici non ne avevano voglia, o la forza, o il coraggio. Io mi impegnavo
ballando in piedi sui pedali di una biciclettina rossa, senza cambio. Era
un’impresa eroica per un bambino della mia età. Ma non ne avevo coscienza.
Ebbene, un uomo in canottiera, probabilmente veneto, si sporse dal finestrino
di un camion che mi superava e mi gridò “Sei in gamba bocia!”. Non so se lui ne
avesse idea, ma queste poche parole sue, pauca sed bona dicta, mi
hanno aiutato a prendere coscienza di me, di un mio talento e ne ho fatto
tesoro. E sono ancora grato a quel signore profetico, chiunque egli fosse.
Anche lui aveva dato voce al mio destino, al mio demone buono, forse a Dio
stesso. Che Dio, chiunque egli sia, faccia del bene a quell’uomo, dovunque sia
ora, un camionista che tanti decenni fa sulla salita della Siligata dove
danzavo sui pedali mi ha incoraggiato e mi fatto del bene. Tanto bene che lo
ricordo ancora dopo quasi settanta anni.
1 Cfr. Shakespeare, Antonio e Cleopatra IV, 3. E’ un buon segno, non ti pare?
La storia di Päivi 12.
Il corteggiamento un poco pedante nella
csárda di Hortobágy.
Mi domandò: “Tu sei un uomo in cerca di segni?”
“No, Päivi, non li cerco, sono loro che trovano me, nel senso che attirano
la mia attenzione”.
“Quali sono i segni che ti colpiscono?”
Da persona educata e ben disposta nei miei confronti, tendeva a rilanciare
i miei argomenti con delle domande.
Questo comportamento nel dialogo è, in generale, un ottimo segno, quasi un
richiamo erotico.
“Il sole prima di tutti, il sole, che è l’immagine della mente divina e dà
indicazioni di cui tengo conto. Quando compare tra le nuvole mi conforta e mi
sprona. “It is the best
omen, aggiunsi.
“Very nice. You are nice “,
fece.
“And you are wonderful, qaumasto;n ti crh'ma” risposi.
E continuai: “Le belle facce intelligenti, come la tua, mi spingono a dare
il meglio di me, ad aprire l’anima. Tu sei il “rimedio dal bel volto” che,
ricordando l’Edipo re di Sofocle, chiedo ad Atena, figlia di Zeus
nei momenti difficili della mia vita: eujw`pa pevmyon
ajlkavn[1] . Come vedi, ce la sto mettendo tutta con
te: voglio piacerti”.
“Ci stai riuscendo”, mi incoraggiò.
Poi domandò: “e io cosa devo fare per piacere a te?”
“Essere te stessa. Di te mi piace il fatto che non assumi pose, non ripeti
luoghi comuni, non hai pregiudizi, anche se hai gusti precisi e, grazie al
cielo, simili ai miei. Continua a essere così priva di affettazione, così
come sei: elegante con semplicità”.
“Non mi costa fatica. Parlami ancora dei segni”
“I segni possono venire dagli uccelli. Non che i volatili conoscano il
futuro, ma il loro volo è diretto da dio, volatus avium dirigit deus [2], scrive Ammiano Marcellino, uno
storiografo del paganesimo morente, lo storico di Giuliano Augusto calunniato
quale “Apostata” da Gregorio Nazianzeno, suo compagno di scuola ad Atene.
Poi ci sono i segni vocali che si possono cogliere al volo dalle parole dei
vicini, come ho fatto ora da Bruno e Silvano.
Ti racconto una storia per farti capire meglio:
Crasso, un duce romano del tempo di Giulio Cesare, non riuscì a comprendere
che un venditore di fichi Cari, il quale gridava ripetutamente “Cauneas!”
sulla banchina del porto di Brindisi, non stava solo cercando di vendere la
propria merce, dicendo “fichi di Cauno!”, ma, nel suo grido, un qualche dio
aveva messo pure un secondo senso più profondo che diffidava il proconsole dal
prendere il mare verso la morte. Le parole urlate dal fruttivendolo infatti,
interpretate nel senso giusto per Crasso dovevano significargli cau’
n(e) eas! “non andare!”, secondo la pronunzia apocopata
dell’imperativo caue (cave) che si usava nel latino parlato[3].
Ma Crasso, in preda alla smania di combattere, uccidere, vincere,
acquistare potere, non se ne accorse. Il fatto era che non faceva attenzione ai
segni. Quindi Assyrias Latio maculavit sanguine Carrhas [4], macchiò di sangue latino Carre di Assiria.
Costui, come la generazione malvagia e adultera biasimata da Cristo[5], notava cose insignificanti ed era cieco e sordo ai moniti che lo
riguardavano e lo mettevano in guardia.
Crasso si stava imbarcando per portare guerra ai Parti, in Oriente: si
metteva in movimento per conquistare terre, per massacrare popoli interi e un
dio cercò di trattenerlo. Anche per il suo bene.
Il Romano infatti finì sconfitto e ucciso.
Gli tagliarono la testa, e un attore, Giasone di Tralle, si avvalse di
quel trofeo macabro per recitare realisticamente i versi delle Baccanti di
Euripide nei quali Agave impazzita palleggia la testa del proprio figliolo
Penteo, ucciso e decapitato da lei stessa e dalle sorelle sue.
Tutto questo tra gli applausi feroci dei Parti. Che ne dici?”
“Che dobbiamo fare grande attenzione ai segni vocali”, rispose Päivi con un sorriso forse
non privo di ironia rivolta al mio sfoggio piuttosto pretenzioso e pure pedante.
“C’è poco da scherzare, proseguii” - stando al gioco - il segno che abbiamo
sentito noi due poco fa equivale a hodie amet qui numquam amavit,
quique amavit hodie amet [6].
Voglio andare presto a Delfi per interrogare l’oracolo. Mi piacerebbe
che tu venissi con me. Ci sei mai stata?”
“No, ma ho letto che i Greci lo consideravano nientemeno che l’ombelico del
mondo”.
“Infatti. Senti questa di Eraclito, un presocratico”.
“Grazie, so chi è Eraclito. Lo conosco attraverso Nietzsche. Ma citami il
frammento che riguarda i segni”
“Il signore, di cui c’è l’oracolo a Delfi, non dice e non nasconde: ma dà
segni”
“Dimmelo in greco, se ce la fai”, mi chiese, credo per compiacermi.
“Altrimenti, posso vincere la curiosità” aggiunse, con ironia e anche per
giustificarmi nel caso che non ce l’avessi fatta a ricordare le parole greche.
“Ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei”.
“Suona bene. Dunque?”
“Dunque torniamo all’ottimo segno colto qui, poco fa. I miei amici hanno
notato un’intesa grande e profonda tra noi, e non lo hanno fatto per assumere
il ruolo di paraninfi: nemmeno sapevano che avrei sentito le loro parole. Ma un
dio me le ha fatte ascoltare, e io, assecondandolo, le ho riferite a te. Ora ti
puoi immaginare, non c’è bisogno che te lo dica, a che cosa ci incoraggiano gli
dèi buoni e giusti. Dante era completamente pazzo quando li squalificava come
falsi e bugiardi[7]”.
[1] Edipo re, v. 189. Manda un rimedio dal bel volto.
[2] Storie, XXI, 1, 9. Questa nota è per te, lettore.
[3] Questo celebre caso di omen è riportato da
Cicerone, De divinatione, 2, 84. Anche questa nota è per il lettore
cui possa interessare.
[4] Lucano, Pharsalia, I, 105
[5] " Generatio mala et adultera signum requirit, et signum
non dabitur ei nisi signum Ionae prophetae " ( Vangelo di Matteo,
12, 39), la generazione malvagia e adultera reclama un segno, e non le sarà
dato un segno se non quello di Giona profeta. Così nel Gerontion di Eliot
leggiamo: "Signs are taken for wonders. 'We would see a sign!'/The word
within a word, unable to speak a word,/Swaddled with darkness. In the juvescence
of the year/Came Christ the Tiger " (vv. 17 - 20), i segni sono
presi per miracoli. 'Vogliamo
vedere un segno!'/La parola dentro una parola, incapace di dire una
parola,/fasciata di tenebre. Nella giovinezza dell'anno/ venne Cristo la tigre.
Ma gli uomini non lo riconobbero.
[6] Cfr. Pervigilium Veneris
[7] In Inferno, I, 72. Né è rinsavito quando arrivò a
scrivere il Paradiso dove si legge un’altra bestemmia:
“Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facevano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche nell’antico errore,
ma Dione onoravano e Cupido,
questa per madre sua, questo per figlio;
e dicean ch’ei sedette in grembo a Dido” (VIII, I, 9).
La storia di Päivi 13. Il latino come lingua del pudore
Mi osservò per qualche secondo, poi fece: “Italian
alsways arrange, e tu sei il principe degli arrangiamenti retorici. Io
apprezzo i tuoi racconti, mi piacciono molto il tuo greco e il tuo latino, ma
non ho bisogno di tante lusinghe, né di altrettanta cultura esibita per
risponderti che mi piaci e che farò l’amore con te, Gianni. Probabilmente
questa sera stessa”.
Feci un segno di approvazione entusiastica, con gli occhi.
Päivi continuò:
“Sempre che non arrivi qualche segno contrario, un uccellaccio di malaugurio,
malamente ominoso diresti tu, oppure, che so io, addirittura una cornacchia
decrepita, guercia, grassa, zoppa e ributtante”.
“Non ci saranno cornacchie, ma passeri agili e bene auguranti con il
frullare veloce delle loro ali. Ci saranno anche Venere, Cupido e
Priapo. Venerem iungemus per mille figuras[1] e la più ovvia di queste renderemo bella
come un’opera d’arte, come sei tu, al punto che i sacerdoti santi benediranno
la nostra lussuria”
“Vedo che ti piace molto usare il latino oltre il greco. Ogni tanto
utilizzi anche Shakespeare.”
“Sì quel bardo geniale è uno dei miei autori - accrescitori. Il latino lo
uso non solo per piacere ma anche per evitare le parolacce: infatti questa madre
della mia lingua madre, la mia lingua nonna potrei dire assai banalmente, mi
aiuta a rispettare il pudore: non potrei mai parlati di fellare in
inglese o in italiano. Tanto meno proportelo. Mi vergognerei come un ladro”.
“Non c’è bisogno che tu lo traduca. Fellatio è un termine invalso in
psicologia”.
“Anche io credo che faremo l’amore oggi, Päivi mia. Lo stiamo già
facendo con le parole e con gli occhi. Mi sembra che ci specchiamo l’uno
nell’altro. Noi siamo uno l’ego dell’alter o l’alter dell’ego,
come preferisci.
“Scegli tu”
“E’ lo stesso: nam et tu es Ioannes , et ego Päivi sum [2].
In noi due che ci amiamo, anzi, c’è del narcisismo. Non sei narcisista tu
sola”.
“Lo vedo”.
“Nel nostro caso comunque, essere narcisisti non è male. Abbiamo motivi
seri per piacerci. Ci scambieremo gioia, conoscenza preziosa, e virtù.”
“Che cosa è la virtù, secondo te?”
“ E’ una delle cose diritte: et haec recta est, flexuram non
recipit” secondo Seneca[3]. E’ una capacità ascetica. Non intendo l’ascesi della rinuncia ma
quella del rafforzamento della propria persona.
Diventare se stessi, realizzarsi completamente e aiutare gli altri, questa
è virtù. Virtù non senza morale. Noi due ci aiutiamo a vicenda, e questo non è
un sofisma. La felicità che provo nel comunicare con te tutto il bene che sento
solo a guardarti, è un aiuto grande per me, per la mia crescita, e per la tua.
Tu sei mia accrescitrice quanto e più degli auctores. Ne ho la
certezza già ora. Fra quarant’anni magari ne riparleremo”.
“Ci tieni a vivere tanto a lungo?”
“Io sì, anche più a lungo, finché posso imparare”.
“Come Solone[4], vero? Ti capisco: anche per me imparare è lo scopo più grande della
vita”.
“Il mio è fare l’amore con te”.
“Sei carino, davvero. Io però non ho da raccontarti storie interessanti
come quella dei fichi malintesi da Crasso.”
“ Tu hai di meglio. Tu hai molto di più di quei fichi incompresi. Tu incarni uno stile esemplare per me. Con te posso essere me stesso al livello più alto, poiché ti piace ciò che è bello e fine, come sei tu”.
[1] Ovidio, Ars amatoria II, 679
[2] Cfr. “non errasti - inquit - mater nam et hic Alexander est”
in Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni 3 12, 17 - Non hai
sbagliato, madre, disse, infatti anche questo è Alessandro. Lo disse Alessandro
Magno di Efestione quando, dopo la battaglia di Isso, la madre di Dario, fatta
prigioniera, aveva creduto che Efestione, più prestante, fosse il re vincitore,
ossia Alessandro.
[3] Ep. 71, 20. Questo è per te, lettore
[4] Päivi qui allude a ghravskw d’ aijei;
polla; didaskovmeno~, invecchio imparando sempre molte
cose
La storia di Päivi 14. Le tre coppie. Inconditi ioci e mia supponenza pretenziosa
Intanto Bruno e Silvano facevano lazzi e frizzi con le
due tedesche: sembravano allegri e senza pensiero; a noi non badavano più.
Credo che considerassero noiosi i nostri discorsi, e
soprattutto inutili ai fini erotici con le loro compagne. Invece per noi due,
persone non ordinarie, eccentriche e stravaganti, le parole alquanto libresche
erano pure erotizzanti. Per me e Päivi sarebbe stato del tutto antierotico il
comportamento assunto dai nostri compagni di tavolo.
“Guardate che bel tovagliolo” diceva Silvano, per
esempio, in una lingua franca mista di italiano, inglese e francese, non senza
accento modenese.
Una delle ragazze leggeva ad alta voce le lettere
ricamate in rosso, poi siccome su quel tessuto c’era anche la figura di un toro
scarlatto, l’altra fanciulla faceva un muggito lungo. Quindi ridevano tutti a
crepapelle, con le lacrime agli occhi.
Io e Päivi li guardavamo con meraviglia cupa.
“Neanche avessero davanti agli occhi la mantiglia rosa
della toreadora di Manet”, bisbigliai con sarcasmo pretenzioso ricordando
Nabokov.
Bruno si accorse di essere osservato con supponenza
maligna, e disse con un forte accento romanesco: “A Gia’, non fare tanti
discorsi seri con quella finnica, ché non ne vale la pena. Le donne vogliono
stare allegre e afferrare il concreto, il solido priapesco [1] “l’omo ha da
esse omo, lo sai bene anche tu: non siamo pupi nato l’altro ieri”.
“Può essere, Bruno. Priapo lo venero anche io: tutte
le mattine quando mi sveglio, e tutte le sere prima di andare a dormire, gli
rivolgo ringraziamenti per i suoi lauti favori, ma questa ragazza non sa e non
vuole comunicare a muggiti”.
Confesso che usai un tono acido, da professorino
pedante, mentre nel richiamo del povero Bruno non c’era alcuna avversione per
me, anzi, voleva comunicare, scuotermi dal mio presuntuoso narcisismo,
invitarmi a giocare con loro.
La mors immatura di quel ragazzo con
cui ebbi qualche attrito, pur piccolo, mi dà ancora un vago senso di colpa.
Devo confessare che quando mi trovavo da solo con
loro, con i maschi italiani, mi lasciavo andare io pure ad atti goliardici, a
giochi insensati, infantilmente, e lo faccio ancora nonostante l’età.
Ma quando c’erano donne come Helena, o Kaisa di cui ho
già raccontato o come Päivi di cui ti sto raccontando, lettore, allora facevo
come un onesto uccello in amore: riassettavo tutte le mie piume e mettevo in
mostra gli atti, i versi e le parole migliori tra quelle che avevo a
disposizione. Insomma con le donne che mi piacevano assai e mi intimidivano,
mettevo la maschera cui volevo uniformare il mio volto: quella del giovanotto
riflessivo, riservato, buono, studioso, sportivo e pure, o se preferisci
eppure, geniale. Mi pregiavo anche di essere un comunista colto, aristocratico:
lo consideravo elegante oltre che morale. Volevo apparire, per poi diventarlo,
uno studioso, un atleta e un artista.
Prima di identificarmi del tutto in quel ruolo e di
recitarlo bene, potevo assumerne altri. All’epoca ero abbastanza camaleontico e
in questo il mio modello poteva essere Alcibiade [2], o Andrea Sperelli [3] di
D’Annunzio. Non voglio dire che mi prendevo gioco delle mie donne migliori: ero
davvero innamorato di loro, o piuttosto lo ero del progresso e del raffinamento
identitario che ricavavo dalle pose assunte, dal ruolo che dovevo recitare
molto bene, se volevo piacere a queste Beatrici che mi rendevano felice siccome
attraenti molto, intelligenti assai e poco caste per fortuna mia e loro. Ma per
ora basta di questo.
Dopo la mia risposta per niente amichevole, si ruppero
i contatti verbali tra noi due e gli altri quattro.
Non ne fui contento, poiché quando esco in compagnia
mi piace scambiare impressioni, idee, sguardi di intesa e gesti cordiali con
tutti i compagni.
Tra me e Päivi del resto niente mancava. Mi domandò
chi fosse Priapo.
“E’ uno dei miei protettori, il dio dell’erezione. Un
altro è Giovanni Battista, il santo delinquente [4] politico, il provdromo", precursore del Nazareno crocifisso,
il decollato che “per salti fu tratto al martiro” [5] come ricorda Dante, il
grande profeta di cui Gesù disse: “Non surrexit inter natos mulierum maior
Ioanne Baptista” [6].
Päivi mi fece una carezza sul volto e disse: “Hai un
bel naso romano”. “Magari anche da ebreo”, risposi. “Può essere” fece lei.
Mi venne in mente un complimento analogo che mi aveva
già fatto Helena nel 1971. Da allora il mio naso, sebbene piuttosto pronunciato
e un poco ricurvo, da uccello rapace, piace molto anche a me.
Una donna ci dà la vita, diverse donne ce la fanno
amare, qualche donna pulirà il nostro corpo e piangerà nell’ora estrema. Dopo
però le ritroverò tutte, ridenti.
Il più tardi possibile, per carità.
1 Priapo è il dio dell’erezione.
2 Plutarco aveva scritto di Alcibiade che era capace di imporsi
trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte ("ojxutevra" (...) tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti
non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il
colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura
attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non
provato:" jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n ijovnti
kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h'jn ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton": a Sparta faceva sport (gumnastikov"), viveva sobriamente (eujtelhv"), teneva un' espressione austera (skuqrwpov"); in Ionia faceva il raffinato (clidanov"), il gaudente (ejpiterphv"), l'indolente (rJav/qumo"); in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e nel
lusso la magnificenza persiana("uJperevballen o[gkw/ kai; poluteleiva/ th;n Persikh;n
megaloprevpeian" Plutarco, Vita
di Alcibiade., 23, 5.). Insomma assumeva di volta in volta le
forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o per dirla
con Cornelio Nepote era "temporibus callidissime serviens " Cornelio Nepote, Vite, 7, 4, abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.
3 Quanto al personaggio di D’Annunzio, Sperelli stesso pensa di sé: "Io
sono camaleontico , chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo
verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia
legge è in una parola: NUNC . Sia fatta la volontà della
legge" - D'Annunzio, Il Piacere ,
p. 278.
4 Ossimoro simile si trova nell’Antigone dove l’eroina di Sofocle dice alla sorella Ismene a
proposito della sepoltura del loro fratello Polinice: “io amata, giacerò con
lui, con l'amato,/dopo avere compiuto un'illegalità santa (o{sia panourghvsa" j) poiché è più
lungo il tempo/nel quale bisogna che piaccia a quelli di sotto che a questi qua
sopra" vv.73 - 75
5 Dante, Paradiso, XVIII, 135
6 NT, Matteo, 11, 11
La storia di Päivi 15. La
trasfusione delle anime
Päivi continuava a spronarmi e incoraggiarmi perché trovassi il mio metodo
cioè la mia strada, e diventassi quello che ero secondo lei
“Tu Gianni mi piaci: sei entusiasta
come un adolescente, hai buon gusto e hai del genio. Coltìvati ancora e vedrai
che uomo diventi! Devi solo utilizzare il tempo tuo nella maniera migliore:
continua a studiare, fai altre esperienze che ti interessano, poi sarai una
persona realizzata e felice perché l’intelligenza, la volontà e l’ottimismo li
hai!
Vorrei averlo io il tuo entusiasmo!”
“Voglio comunicartelo. Tu sei una donna ricca di spirito e sei molto
attraente: io sento il desiderio, anzi il bisogno, di trasfondere la mia anima
nella tua e la tua nella mia”, risposi accarezzandole i capelli rosso castani,
lunghi fino al seno, all’angelico seno[1]. Et Transfudemus hinc et hinc labellis errantes
animas [2] aggiunsi. Non ero sicuro che avesse
compreso.
Quindi le dissi in inglese che la mia anima aveva bisogno di assorbire
i sentimenti della sua, di assimilarli per restituirglieli fecondati.
Sotto la giacca di velluto rosso aveva una maglietta di colore bianchissimo
dove appariva con piena chiarezza, in alto rilievo, la bella forma del petto
cospicuo e compatto, molto eccitante in quel contesto di donna intelligente e
colta. Arrivai ad accarezzarle l’estremità superiore della mammella sinistra.
Päivi non si scostò, ma io fermai la mano blanda e lasciva, temendo che
fosse non del tutto opportuna. Non in quel luogo.
Poi, guardandola negli occhi con un sorriso di gioia, dissi: “un giorno
vorrei avere una figlia simile a te!”
Quella sera, tornati in collegio, facemmo l’amore.
Non era possibile, non farlo, nemmeno pensabile.
Mi apparve tutto intero il bel sembiante senza nubi e senza veli.
Le nostre complessioni umane sobbalzarono sbattute e trascinate da ondate
di piacere e di gioia, pungolate dall’attrazione e forse ancora più dall’intesa
verificata con il lungo dialogo preparatorio.
Erompeva tutto il fuoco accumulato nel cuore e nelle viscere e non c’erano
freni a trattenerlo né acqua a smorzarlo, né barriere a ostacolarlo.
Nel momento supremo nemmeno il tempo ebbe più ostacoli: tutta la mia vita
amorosa compendiata in quell’istante mi venne davanti in un’immagine sola e
anche il futuro cercava di venire alla luce.
I corpi non erano estranei all’apertura generale: dalle bocche ansimanti
uscivano la schiuma di Eros e mormorii amorosi vicendevolmente soffiati
Fu come se il cosmo mi spalancasse le porte.
Io non so quanto senza volere, fatto sta che senza averlo deciso
coscientemente, quella sera, o poco più avanti, la misi incinta.
Forse il vino bevuto aveva contribuito a farci obliare, nel culmine, tutto,
tranne il piacere e l’amore di quel momento.
Non è successo mai più nel resto della mia vita. L’ho sempre evitato con
cura estrema. Non ho più stimato nessuna donna quanto Päivi, né volevo
diventare un funzionario della specie con una che non mi avesse convinto del
tutto. Magari mi eccitavano le flessuosità di quei corpi, ma non si è mai più
ripetuta la trasfusione delle anime che ho raccontato in questo capitolo.
Non ho messo al mondo figlioli di carne perché i rapporti umani, fra
stragi, guerre e crimini vari, sono diventati sempre più gravidi di ostilità.
Anche quelli personali. Visto il calo demografico, credo che non poche persone
di questo mondo occidentale davvero all’occaso si siano astenute dal procreare
per siffatti motivi.
Così si estinse anche la classe colta dell’impero romano.
[1] Cfr. Francesco Petrarca, Canzone XIV, Chiare fresche e
dolci acque, v. 9.
[2] Cfr. Satyricon, 79, 8. Il nostro, però, fu un amore
eterosessuale.
La storia di Päivi 16. L’amabile
stile del rispetto
Il nostro pur troppo breve tempo in Ungheria passò tra le parole e gli atti
d’amore; di sera andavamo all’Aranybika o in un altro locale a sentir musica e
a bere l’egri bika vér [1],
oppure a ballare sulla terrazza della casetta contigua allo stadio dove verso
il tramonto correvo i
Päivi mi seguiva nonostante soffrisse il sole e il caldo, dato che
era una creatura del nord lacustre e boscoso. Questa discrepanza tra noi
comunque mi impensieriva.
Nel mio corpo avvertivo una ventina di gradi in meno rispetto a quelli
sentiti da Päivi nel suo. A
lei davano noia grande 30 già gradi, io provai un leggero fastidio per il
calore una volta sola: a Efeso quando il termometro segnò 51 gradi e giravo con
la testa scoperta tra le rovine prive di alberi. Quando il termometro scese a
Il determinismo climatico e geografico toglieva parte del nostro essere
reciprocamente congeniali. Era un segno che la grande distanza dei luoghi di
vita ci avrebbe probabilmente divisi. Ne ebbi una stretta al cuore. Presoffrivo
già quasi tutto e reagii pensando che dovevamo avvalerci al massimo del nostro
stare insieme, finché durava.
Ci frequentavamo soprattutto per parlare e fare l’amore. In queste due
situazioni funzionavamo alla perfezione. Io l’amavo perché mi rendeva evidenti
diversi aspetti dell’anima umana e dell’anima mia con frasi sintetiche e
incisive tanto che lasciavano in me impronte profonde.
Poi mi piaceva il suo stile, alto e nobile. Faccio un esempio.
Una sera, un sabato sera di agosto, le dissi che il giorno dopo sarei
andato a Szeged con altri studenti del corso estivo per la Carmen di
Bizet cantata nella piazza di quella città trasandata. “Assomiglia a una piazza
davanti alla stazione”[3]. Le chiesi se volesse venirci.
Rispose che si sentiva stanca e pensava di non essere troppo
interessata a sentire di nuovo cantare la storia della zingara e dei suoi amori
malati a morte. La cosa mi spiacque non poco, siccome non avevamo ancora molti
giorni di quell’estate precipitosa da vivere insieme, e sapevo che, finita
Debrecen, non avremmo avuto tante altre occasioni, anzi probabilmente sarebbe
finito tutto il nostro periodo felice. Ancora di più però mi spiacque il suo
disinteresse per il melodramma, uno dei miei preferiti oltretutto.
Allora, per provocarla, quasi per ripicca, le chiesi che cosa avrebbe fatto
se, durante la gita, io l’avessi tradita.
“Mi dispiacerebbe molto”, rispose.
“Sì - la incalzai - ma tu come reagiresti?”
“Non lo so, forse ti lascerei. In ogni caso non ti tradirei. Perché io ti
rispetto”.
Disse I respect you con un filo di voce, senza aspettarsi
una risposta, perché sentiva il rispetto come un’esigenza sua. O almeno così
credetti in quel momento e per qualche settimana successiva, fino a quando me
lo lasciò credere.
Quella sera, poi, con voce angelica aggiunse: “so che il tradimento adesso
è di gran moda, it is a deed in fashion, ma io non seguo le mode”.
“Fai bene - le dissi - la moda infatti è sorella della morte[5] e le mode di questa età scolorita sono plumbee, fanno affondare.
Anche io ti rispetto, non dubitarne, e perdona la mia ipotesi stupida assai, e
volgare. Non venendo a Szeged mi dai un dispiacere, ma con la tua risposta mi
hai donato una grande e bella lezione di stile e dignità, mi hai reso migliore.
Io non posso tradirti. Io ti amo”.
Allora Päivi mi accarezzò il viso dicendo: “sei aquilino come il tuo naso,
sai volare, non sei camuso e tellurico”. Già le risposi “come il cavallo nobile
del cocchio alato di Platone: ejpivgrupoς, non simoprovswpoς[6]”. Quindi le raccontai il Fedro e le dissi che il nostro
amore mi faceva spuntare le ali.
“Anche a me” fece lei.
p. s. la prima redazione risale al 1984 più o meno dieci anni dopo l’evento,
la seconda al 2016.
Nel frattempo alcuni falsi amici mi hanno abbandonato perché si vergognano
della mia povertà, disprezzano il mio fare le vacanze in bicicletta, il mio
dormire negli ostelli dalle cui terrazze non ho la veduta tronca a guardar le
stelle e il mare, insomma tutta la mia vita da mendico. In verità sono prima di
tutto un accattone della bellezza, dell’amore, degli affetti che gli adoratori
del vitello d’oro non possono darmi.
Intanto il mio blog è arrivato a
Giovedì terrò una conferenza sul mito del tutto sine pecunia nella
biblioteca Scandellara di Bologna.
Riveduto e migliorato il 26 settembre 2018
Il blog aperto nel febbraio del 2013 è arrivato a 670247
Riveduto e perfezionato il 4 agosto 1919
Il blog è arrivato a
Oggi 20 aprile 2020 questo blog è arrivato a 930461 letture alla media di
353 al giorno da 2635 giorni. Senza alcuna raccomandazione se non la ricchezza
di significati delle mie pagine cioè la mia ricchezza di mendicante.
Siamo arrivati al 4 settembre del 2021. E’ già pomeriggio avanzato, quasi
notte. Sento presagi di inverno. E’ comunque cosa bellissima e ottima esserci
ancora con tanta voglia di fare. Come quando ero bambino.
1 Sangue di toro di Eger, è un vino rosso già menzionato in capitoli
precedenti su Helena e Kaisa.
2 Cfr. D’Annunzio, Meriggio, v. 1.
3 Cfr. D’Annunzio, Stabat nuda aestas, v. 3.
4 Claudio Magris, Danubio, p. 303.
5 Cfr. l’operetta morale di Leopardi Dialogo della moda e della
morte del 1824
Moda: Io sono la Moda, tua sorella.
Morte: mia sorella?
Moda: Sì, non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?
6 Cfr. Platone, Fedro, 253d - e.
La storia di Päivi 17. La
delicatezza di Päivi. Le dimissioni di Nixon
Ricordo un altro episodio.
Päivi ed io eravamo seduti a un tavolo sulla terrazza della casetta[1] di fianco allo stadio. Alcuni ballavano, altri scherzavano, altri,
come Danilo, seguitavano a bere.
Accanto a noi c’era Bruno con il quale facevo una discussione animata,
quasi polemica, in italiano, pronunciato per giunta da me con la cantilena
pesarese che allunga le vocali, mentre le parole della lingua nostra venivano
apocopate alla romana dall’amico dell’Urbe. L’argomento non era importante,
tanto che non lo ricordo. A ciascuno di noi due importava solo prevalere
sull’altro. Con insensatezza giovanile.
A Päivi traducevo l’essenziale, ma la mia compagna rimaneva comunque
esclusa dalla discussione concitata.
A un tratto venne a parlarle in finlandese e invitarla a ballare, il suo
insegnante di ungherese, un uomo di qualche valore, mi aveva detto lei stessa,
poiché la motivava a studiare una lingua che era sì imparentata con la sua, ma
era pure inutilizzabile fuori dai confini delle loro terre.
Bello, per fortuna, il professore ungherese bello non era. Ma nemmeno tanto
brutto da fare schifo a una donna.
Päivi mi chiese il permesso di seguirlo. Io ovviamente glielo diedi.
Come potevo non darglielo? Dimmelo tu lettore, come potevo?
I due ballarono a distanza rispettosa invero, dico rispettosa nei miei
confronti, quindi sedettero a un tavolo non lontano e ben visibile dal nostro.
Ogni tanto lanciavo un’occhiata obliqua verso di loro, prima con curiosità,
poi con una certa apprensione: mi sembrava che parlassero volentieri e non
senza una certa intesa. Quasi come noi due la prima sera, povero me!
Di Päivi mi fidavo, poiché non mi dava l’idea dell’adultera: dopo tutto era
la mia prima finnica di quattro che non commetteva adulterio facendo l’amore
con me. Un valore che scarseggiava già allora, e forse da sempre nel mondo. La
fedeltà dico.
Lei dunque non era tra le pregiudicate, seppur cristescamente perdonate
quali infedeli, eppure la situazione che si stava creando, dal mio punto di
vista non era simpatica: in fondo la compagna che amavo aveva lasciato il
nostro tavolo dove stavamo uno accanto all’altra per andare a sedersi altrove,
con uno che non le dispiaceva e quasi sicuramente le faceva la corte. Del resto
non potevo chiederle di tornare seduta dove io e Bruno discutevamo in italiano
e con una certa foga.
Päivi però si accorse che la sua assenza mi metteva in ansia, mi faceva
soffrire, e dopo pochi minuti tornò. Disse che preferiva guardarmi mentre
parlavo nella mia lingua, anche se non traducevo, piuttosto che dialogare nella
sua con qualsiasi altra persona. Questa delicatezza, “poi che il sospecciar fu
tutto spento” [1], mi motivò a fare del mio meglio per evitarle dispiaceri o
apprensioni.
Io amo la delicatezza [2]. Ora più che mai c’è grande carenza di questa virtù,
e mi manca.
Ricordo un’altra una sera di agosto, intorno al 10.
Päivi e io stavamo cenando con tanti altri nella mensa
dell’Università di Debrecen. A in certo momento passò una voce che divenne
presto un grido di giubilo: Nixon resigned! Ci fu un applauso
scrosciante da parte di tutti noi: Europei, Sovietici d’Asia, Vietnamiti e
altri orientali.
Io e Päivi ci alzammo come tutti gli altri. Ci
abbracciammo, ci baciammo, e abbracciammo anche altri vicini a noi, ragazze e
ragazzi di allora. Avevamo le lacrime agli occhi. Lacrime di gioia. E’ stata
una delle sere belle di mia vita mortale. Il successivo abortimento della
nostra bambina, le stragi di stato, l’egoismo, il capitalismo incontrollato e
il conseguente virus globale con tutti gli altri orrori compresi nei 47 anni
seguenti non potranno mai annientare la felicità di quella sera e di quel mese
dell’estate del 1974 anche se già in autunno vidi la fine delle mie gioie
[1] Cfr. Dante, Inferno X, 57.
[2] "e[gw de; fivlhmm' ajbrosuvnan" Fa
parte di un frammento di Saffo (58 Voigt) trasmesso dal Papiro di Ossirinco
1787
La storia di Päivi 18. Il Budaörsi
kollegium di Budapest, mausoleo del nostro amore
Nel 1974, dopo il mese di Debrecen, il corso estivo
ebbe un’appendice di qualche giorno a Budapest. Di lì facemmo una gita a
Visegrád, situata su un’ansa del Danubio, dove il grande fiume divide
l’Ungheria dalla Slovacchia. A Buda eravamo alloggiati nell’enorme Budaörsi
kollegium dove potemmo avere una camera tutta per noi: la 717 del settimo
piano. Il collegio era tutt’altro che bello; non era nemmeno vicino alle strade
del centro dove la città sfoggia gli edifici venusti, come fa una donna
vanitosa con i vestiti eleganti, i monili raffinati e le pietre preziose.
Eravamo dunque lontani da luoghi ameni, da posti
eleganti e da ogni sfarzo costruito, scolpito o dipinto. Eravamo comunque
felici. Ricordo un pomeriggio. Affacciati all’alta finestra, senza avere niente
da fare, né compagni da frequentare siccome molti erano già partiti, né i
nostri libri da leggere, aspettavamo la pioggia da una nuvola inquieta che
prima aveva trasformato il sole splendente in un’ombra arancione, poi l’aveva
cancellato del tutto, quindi si era allungata in un cono nero e vorticoso fino
alla collina del Gellert, risucchiando con il suo turbinare le foglie già
cadute da tempo e diventate secche nella polvere della lunga canicola già
prossima al termine. La vacanza era quasi finita, finiva l’estate,
probabilmente anche l’amore nostro era vicino all’ultimo giorno, e stavamo là
senza far niente. Eppure tra noi non c’era angoscia né noia. La pena non c’era
perché sentivamo che i doni reciproci sarebbero comunque rimasti a nutrire e
arricchire per sempre gli spiriti nostri. Il tedio nemmeno siccome tra noi lo scambio
di idee e sentimenti dettati dalla simpatia e dalla curiosità dell’uno per
l’altra era ancora vivace e frequente.
Gioivamo di ogni istante spremendolo in bocca, con i
denti, la lingua e il palato, come se quei minuti fossero un alimento prezioso
che ci avrebbe nutrito per anni. A questo punto della parabola ne sono passati
più di quarantasette. E ancora quel sapore rimane.
Le nostre parole, sebbene non dette nella lingua
madre, sapevano sempre di vita, di lavoro, di umanità, donne bambini e uomini, di
fatti reali o progettati. Insomma non erano chiacchiere né luoghi comuni.
Vedevamo ogni cosa come problema, un ostacolo che ci faceva saltare e salire
sempre più in alto.
Dopo quei brevi giorni felici vissuti al Budaörsi, se
passo davanti a quella tomba monumentale dove giacciono i nostri ricordi,
situata come un guardiano alla porta occidentale di Budapest, a sinistra per
chi proviene dall’Italia e dal Balaton, mi fermo a osservare l’alta facciata
grigia, individuo la camera nostra, la 717 del settimo piano, la contemplo a
lungo, ricordo la sera nuvolosa che segnò la fine dell’estate del 1974, e mi
chiedo quando troverò di nuovo una donna dalla mente così lucida, dallo stile
tanto elevato, e capace di non annoiarmi mai con la sua presenza, di non prosciugare
né intorbidare le mie energie mentali, di non farmi sciupare il tempo prezioso,
il tempo pur troppo breve di questa vita mortale che scorre a precipizio sulla
nostra bellissima madre terra.
Il tempo è davvero l’unico bene che considero
veramente mio: “omnia… aliena sunt, tempus tantum nostrum est”1. Tanta
roba mi hanno rubato, ma il tempo non me lo sono mai lasciato portare via.
La storia di Päivi 19.
Il bagno catartico nel Danubio
Come epilogo dell’amore di Päivi in Ungheria, ricordo
il tardo pomeriggio del 25 agosto, il giorno della “gita scolastica” a Visegrád
dove il Danubio si incurva tra le colline.
Ero immerso nella corrente vicino alla riva con alcuni
altri giovani del corso estivo: ricordo l’Austriaco cieco, quello che suonava
il piano al ricevimento del Rettore [1], Antonella, la fanciulla claudicante di
Roma, Fabrizia, una ragazza bruttina di Reggio Emilia, e Danilo.
Päivi era seduta sulla sabbia lucente alle mie spalle.
Il sole al tramonto, luminoso senza essere caldo, non
le dava fastidio.
Ricordo quell’ora, forse le sei di sera, come
una delle più lucide di questa mia vita terrena: tanta chiarezza sentivo in me
e proiettavo su tutte le persone e le cose, che intravvedevo l’esistente
conciliato con l’Essere, con Dio. Come in un quadro di Raffaello Urbinate o di
Piero della Francesca da Borgo Sansepolcro, il paese della madre mia, la bella
mamma dai capelli bruni bruni, dal naso aquilino, dalle gambe perfette e dai
preziosi occhi azzurri, gli zaffiri che non ho ereditato.
La mia donna seduta sulla riva indorata dal sole e
dall’acqua sfavillante dei suoi lucidi raggi, Päivi, la luminosa, la Fedra, era
buona, era attraente, era di stile elevato, e aspettava una bambina da me; con
lei potevo avere progetti di amore e di vita; anzi la mia vita attraverso
quella figlia sarebbe scorsa qui sulla terra, come la corrente del fiume nella
luce del sole, ancora dopo la morte mia che non mi faceva paura perché sarebbe
stato un ritorno nella divina armonia del cosmo; intanto Antonella, mentre
nuotava, sembrava avvalersi di gambe aggiustate nell’acqua scintillante che
appianava ogni ostacolo; il cieco sorrideva con gioia, ringraziando, forse, il
dio onnipotente e misericordioso che gli aveva restituito il lume degli occhi:
la vile gelatina [2], illuminata dai raggi risanatori del tramonto sereno
pareva contemplare la bellezza del mondo con stupore riverente e commosso.
Di Fabrizia, quella sacra armonia aveva messo in
risalto gli aspetti più belli: il florido seno, la bocca ridente, lo sguardo
pulito, rendendola dolce e attraente.
Danilo, “sotto infino al ciglio” [3, finalmente beveva
dell’acqua, sorseggiandola maesto cum murmure, rimpiangendo forse
il succo dell’uva, senza sapere che l’ottimo liquido [4], il migliore di tutti,
gli allungava la vita abbassandogli il tasso alcolico e purificando la corrente
del sangue troppo scura e densa quia musto plena erat [5].
Così si sarebbe salvato, forse per sempre dall’ intemperantia
bibendi di quell’altro liquido, dionisiaco quanto si vuole, ma oramai di
dubbio effetto benefico per lui.
Stavamo facendo un bagno catartico che ci toglieva
grinze e difetti, spianava ogni gibbosità, appulcrava miserie e brutture quae
discors protulerat natura [6],
prodotte dalla natura in discordia con se stessa.
Mi mancavano alcuni amici, soprattutto Fulvio con il
suo caos illuminato da lampi [7].
Eppure nel petto mi sentivo un cuore pieno di mitezza
e di forza: ero certo di amare Päivi, credevo di volere un figlio, di poter
aiutare il prossimo nostro; insomma mi sentivo in sintonia con il mondo pieno
di luce e di bene, anzi mi pareva di assomigliare a dio, poiché ero uscito dal
mio narcisismo, amavo una donna e avevo progetti di vita, di creazione con lei.
Quel momento epifanico non sarebbe più tornato e la bambina non sarebbe nata
mai. Eppure non mi sbagliavo del tutto. La creatura sarebbe stata questa storia
che sto scrivendo e costituisce un figlio adottivo in sostituzione di quello in
carne e ossa, che non abbiamo lasciato nascere. Questo mio scrivere è anche
un’ammenda per impetrare perdono di tanto misfatto.
1 Cfr. Il primo capitolo di questa storia.
2 Cfr.
Shakespeare, Re Lear III, 7. Il duca di Cornovaglia marito di Regana, strappa il
secondo occhio a Gloster e dice: “out, vile jelly!”
3 Dante, Inferno XII, 103.
4 Cfr. Pindaro: a[riston me;n
u{dwr, Olimpica I, 1,
ottima è l'acqua
5 Cfr. Actus Apostolorum 2, 13
6 Cfr. Lucano, Pharsalia, 559 - 590
7 “Io vi dico: bisogna avere
ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra,
Prefazione, 5.
La storia di Päivi 20. La
rosa bianca di Josiane
Dopo il tramonto salimmo, per cenare, al ristorante Silvanus alto cinquecento
metri sui colli che sorgono sul gomito dell’Istro, il grande fiume verde di
foglie e biondo di sabbie ancora memori della luce del sole.
Il Danubio incurvato tra i monti, da lassù sembra il
lago di Como visto dalla Madonna del Ghisallo. Avrei voluto dare sfogo alla
gioia scalando anche quella salita con la bicicletta. A occidente indugiava
ancora la luce della giornata bella, ma la temperatura si era abbassata di non
pochi gradi.
L’estate tremava sulle soglie dell’autunno che
l’avrebbe calpestata [1] e annientata poco prima di venire a sua volta
intorpidito e paralizzato dalla bruma invernale, quella che fa zittire gli
uccelli [2], o li uccide [3].
D’altra parte se l’autunno già bussava alle porte, la
primavera non poteva essere troppo lontana [4].
Un vento fresco, quasi settembrino, muoveva
adagio gli aghi dei pini che profumando e sussurrando, mi suggerivano ancora
sensazioni e pensieri buoni. I lunghi capelli di Päivi, mossi e sollevati
dall’aria, sembravano fili di seta protesi verso una realtà ultraterrena: il
paradiso sperato del nostro amore.
Poco più tardi, mentre mangiavamo con moderazione, al
nostro tavolo venne Josiane, l’ex ragazzina francese che una sera oramai già
allora lontana [5] aveva ingelosito Elena, la bella finnica incinta del 1971.
In quel tempo la graziosa diciottenne mi sorrideva
senza uno scopo preciso, come fanno spesso le adolescenti, e io la
contraccambiavo con un sorriso da satiro invecchiato, già quasi un sileno [6],
sebbene non avessi ancora compiuto ventisette anni. Il fatto è che avevo
giurato il mio amore e avevo fatto l’amore con una donna che si era appena
scoperta pregna di un altro uomo. Eppure quella deliziosa pulzella mi attirava
parecchio.
Passati tre anni, tutto era diventato più chiaro e
diritto. C’era più verità, c’era più stile in entrambi.
Sempre carina e gentile, e un poco più matura, come me
d’altra parte, dopo cena, la ragazza mi porse una rosa bianca dicendo: Magister,
tibi”. Presi il fiore e la ringraziai, contraccambiando la sua simpatia.
Le dissi, citando Thomas Mann: “une fois déjà, je
t’ai demandé ton crayon, pour faire enfin ta conaissance mondaine”[7]. Poi
mi alzai e la baciai sulla fronte. Josiane capì che la congedavo e se ne andò,
questa volta forse per sempre. Dico forse perché non mi dispiacerebbe che
leggesse queste righe e mi cercasse. Dovrebbe essere una matura signora, una
donna attraente di circa sessantotto anni. Spero che non abbia smentito il
bell’aspetto che aveva.
Noi, due graziosa adolescente del 1971, abbiamo
vissuto nello spirito ciò che probabilmente non vivremo mai nella carne. Una
omissione non peccaminosa in quel tempo.
Ancora una volta la matita rimase inutilizzata e non
ci scambiammo gli indirizzi: non volli rompere l’equilibrio che avevo trovato
con me stesso, con il mondo e con la donna che aspettava una bambina, o un
bambino, da me. Quella sera sapevo vedere la bellezza coniugata con la
giustizia dentro tutti gli aspetti del mondo e credevo di potere trasmettere
tale connubio: mi sentivo un vero maestro e un artista educatore che nella
nostra breve, talora tremendamente difficile esistenza mortale, discerne la santa
armonia, sa indicarla ai suoi discepoli, e può renderla manifesta a un popolo
intero.
Voi lettori avete superato un milione e 164mila
elementi . Siete un’orchestra numerosissima, un popolo davvero eletto.
Infatti mi leggete senza alcuna pubblicità né alcuna
mia visibilità televisiva e senza che io ripeta i luoghi comuni della
volgarità.
Di questo
scritto e degli altri miei vi attirano la bellezza e la bontà della vita
vissuta pienamente, la cultura, l’arte e l’amore, non le conoscenze, le
aderenze, le raccomandazioni.
1 Cfr. Orazio, Odi IV,
7, 10 ver proterit aestas, l’estate calpesta la primavera.
2 Cfr. Lucano Pharsalia, I, 259 volucres
cum bruma coercet (259) quando l’inverno chiude la gola agli uccelli.
3 Cfr. Eschilo, Agamennone: “ceimw'na dj eij levgoi ti" oijwnoktovnon (563), e se qualcuno dicesse dell’inverno che uccide gli uccelli.
4 Cfr.
Shelley, Ode to the West Wind: “If Winter comes, can Spring be
far behind?”
5 Cfr. La storia di Elena.
6 Cfr. Lorenzo de’ Medici, Canzona di Bacco
Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
7 La montagna incantata, quinto capitolo, Notte di
Valpurga
La storia di Päivi 21.
Tragedia e commedia
Un Prometeo da dramma satiresco
Quella sera sulla collina sopra il Danubio fu la nostra ultima in Ungheria,
il culmine dell’intesa amorosa.
Da questo momento la fiamma di Eros iniziò a intiepidirsi, il suo fulmine a
perdere forza e velocità. Un poco alla volta, ma irreversibilmente, come
succede spesso.
Per non cadere nel patetico sul tipo di “il grande amore sta per finire
con dolore e lacrime” voglio ricordare un particolare comico e mitico.
Ciò che finisce dopo tutto non ha nessuna ragione per continuare, e va bene
che termini. La fine deve essere festeggiata quanto l’inizio. Sarebbero guai
molto seri se la relazione continuasse tra noia e dolore.
L’amore sparisce solo quando non può durare più a lungo nella bellezza e
nella pienezza.
Le cose ontologicamente belle restano eterne, e brillano come stelle nella
notte, per sempre o quasi per sempre.
Ora ti faccio fare due risate, lettore, per contrastare la malinconia della
decadenza di questo amore e, soprattutto, il terrore della nostra mortalità.
Comedy escapes , la commedia è evasione, fa dire
Woody Allen a un personaggio del film Melinda e Melinda.
In un altro film del medesimo autore, Crimini e misfatti, un
personaggio dice: “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la
tragedia più del tempo.
La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia
vuole rappresentare personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre la commedia è imitazione di
uomini peggiori rispetto a quelli di ogni giorno (ceivrou" tw'n nu'n 1448a), ossia
ancora più volgari, e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso
provocato dalla visione del ridicolo.
"Il ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche
cosa di sbagliato" (aJmavrthma ,
1449a).
La commedia è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono poco per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il ridicolo è un errore ed è una bruttezza
indolore e non è deleterio (aJmavrthmav ti kai; ai\sco"
ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la
maschera comica è qualche cosa di brutto e stravolto ma senza dolore (Poetica,
1449a).
L'errore del resto viene menzionato dal filosofo di Stagira anche per i personaggi
tragici (aJmartiva, Poetica, 1453a); la differenza è che nei
loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce
dolore né compassione. Dunque ridiamoci su.
Ora comprendo - ajrti manqavnw - come dice Admeto[1] il quale chiese alla sposa Alcesti di morire al posto di lui - che
continuare il nostro rapporto sarebbe stato un errore tragico o comico, e che,
stando insieme altro tempo, non a noi due destinato, saremmo diventati peggiori
di come eravamo in quel mese del 1974.
Prima di arrivare alla catastrofe dunque, prendiamo tempo con una
brevissima commedia, o piuttosto un dramma satiresco, con un uomo come
protagonista umano, un’aquila, l’uccello di Zeus, quale deuteragonista, e il
coro formato da una brigata di avvinazzati.
Sulla terrazza del ristorante Silvanus dove mangiavamo, volteggiava l’uccel
di Dio[2]. Da un tavolo non lontano dal nostro si faceva notare Danilo che l’insana
dulcedo perpotandi[3] aveva spinto ad alzare il gomito innumerevoli volte.
Alla levata di ogni bicchiere gridava: “Chi non è vil, mi segua” come un
condottiero che vuole arginare una rotta imminente.
Poi gli veniva in mente Francesco Redi e citava:
“Passavoga, arranca, arranca,
ché la ciurma non si stanca,
anzi lieta si rinfranca
quando arranca inverso Brindisi:
Arianna, brindisi, brindisi.
E se a te brindisi io fo,
perché a me faccia il buon pro,
Ariannuccia vaguccia, belluccia,
cantami un poco, e ricantami tu
sulla mandola la cuccurucù,
la cuccurucù
la cuccurucù,
sulla mandola la cuccurucù”.
Poi tra un sorso e l’altro della computazione augurava salute a
tutti, assenti e presenti, e da uomo colto qual è, recitava senza alcuno sforzo
anche la parte di Eracle beone nell’Alcesti di Euripide: “eu[fraine sauto;n, pi'ne, to;n kaq j hJmevran - bivon logivzou so;n, ta; d
j a[lla th'ς tuvchς”[4].
I suoi commensali già impregnati di aperitivi lo ascoltavano, probabilmente
senza capirlo, poi ripetevano i due trimetri con storpiature puntualmente
corrette dall’improvvisato capobanda che si sbracciava mimando le mosse di un
direttore d’orchestra.
Ogni tre minuti qualcuno toglieva da una nuova bottiglia il tappo a forma
di fungo, lo liberava dalla sua prigione di fil di ferro e versava il nobile
liquido per elettrizzare lo stomaco con il suo gelido e profumato frizzare. Il
vino scendeva rapido come un torrente montano nei gargarozzi profondi di questa
brigata dall’aria allegra.
Il tripudio dionisiaco non poteva restare privo di danze: ogni tanto il
corifeo gridava: “babai' coreu'sai parakalei' m j oJ
bakcio"”[5], quindi si metteva a danzare tra gli
applausi frenetici del resto del coro e di noi spettatori.
Come ebbe smesso il ballerino, soddisfattissimo, disse:
"Accedant capiti meo cornua Bacchus ero" 5bis
Dopo le libagioni a tutti gli dèi del cielo, della terra e del
sottosuolo, il capo del tiaso, il dotto simposiarca giurò sull’ennesima coppa
che non vi avrebbe mai versato dell’acqua[6], poi, oramai farfugliante si distese sopra la tovaglia. Ancora un goccio,
un breve schiamazzo fatto di strani versi, e stramazzò. Le braccia e le mani
non avevano più la forza di reggere nemmeno un bicchiere minuscolo.
Aveva indosso calzoni corti e bretelle. Pochi minuti più tardi dormiva, o,
forse, era svenuto.
Dopo avere salutato a gesti l’addormentato sul tavolo, i suoi compagni di
canti, declamazioni e bevute, una masnada di grossi Russi inclini alla crapula,
se ne erano andati. Un’aquila in cerca di cibo per sé e forse anche per gli
aquilotti, visto l’uomo solo e resupino, probabilmente lo aveva scambiato per
Prometeo legato sulla rupe scitica e voleva strappargli il fegato.
Calò un paio di volte su di lui, ma poi cambiò la direzione e l’intento: il
grande rapace arrivato a pochi metri dalla sua preda, respinto e sconvolto
dall’odore acre dell’alcol più volte esalato a soffioni , si impennò verso il
cielo con una virata così repentina che una delle “sacre penne”[7] le cadde da un’ala e si posò sulla fronte dell’ebbro dormiente facendone
una specie di alpino che sogna la libera uscita con la ragazza senza mutande,
non senza, però, la bottiglia.
Lo feci notare a Päivi e commentai la strana visione dicendo che il grande
uccello, colpito dall’esalazione eruttata dall’amico imbevuto, non se l’era
sentita di andare a frugare nelle sue viscere e aveva ripreso la via dell’etere
puro.
“Il cane alato di Zeus, l'aquila sanguinaria non aveva fatto a brani,
voracemente, il grande straccio madido del suo corpo e tanto meno ne aveva
inghiottito il fegato, nero pasto"[8].
Utilizzai opportunamente Eschilo non senza confessare il mio debito al
grande maestro.
Päivi mi guardò con ammirazione e disse: “in te c’è qualche cosa di folle e
pure di geniale”
“Ce la metto tutta per sembrarti geniale - risposi - è questa apparenza che
ti ha attirata e spinta ad amarmi. Con questa cerco di trattenerti”.
”May be”[9] replicò senza scomporsi, anzi accentuando la sua solita aria da
Sfinge.
Avrai notato, lettore, che quando l’amore è in fase calante si parla con
scarsa chiarezza. Per non impegnarsi, perché si è già capito che il tempo
concesso da Eros è scaduto. Lo stesso avviene nella fase incipiente quando non
si è ancora giunti a decidere e tutto può essere: “may be” replicava
pure alle mie prime proposte.
Intanto Danilo si era svegliato e non trovando i compagni si mise a gridare
tra i fumi dell’alcol e quelli del sonno. “Dormite iam et requiescite?
Sufficit, venit hora[10]. Basta l’ora è giunta”, tradusse. Quindi concluse: “Questo è tutto”. E si
addormentò un’altra volta. Non lo incontreremo mai più. Tuttavia sono contento
di farvi sapere che è ancora vivo.
[1] Euripide, Alcesti 940
[2] L’aquila in Dante, Paradiso, VI, 4.
[3] L’insano piacere di bere a dismisura. Era uno dei vizi di Alessandro
Magno secondo Curzio Rufo ( Historiae Alexandri Magni,
(VI, 2, 2)
[4] Alcesti, 778 - 779, rallegrati, bevi, conta come
tua la vita di ogni giorno, il resto è della sorte.
[5] Euripide Ciclope, 156. oh, Bacco mi invita a danzare!
5 bis Cfr. Ovidio, Heroides, 15, 24. Si aggiungano le corna al
mio capo, sarò Bacco.
[6] Cfr. Aristofane, Lisistrata, 197.
[7] Dante, Paradiso, VI, 7.
[8] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv, 1021 - 1025
[9] Può essere.
[10] N. T. Marco 14, 41).
La storia di Päivi 22. La partenza dalla Stazione orientale di Budapest
Il giorno dopo, lunedì 26 agosto, alle quattro del
pomeriggio, Päivi partì dalla Keleti Pályaudvar, con il treno
azzurro che la portava verso i laghi azzurri della sua terra.
Disse: “Gianni, mi mancherai tanto: ti penserò, ti
sognerò, ti scriverò”.
E io: “Aspetterò notizie da te. Se le manderai, ti
risponderò subito; se non lo farai, ti scriverò lo stesso. In ogni caso dentro
di me conserverò, anzi farò crescere, tutto il Bene che ho ricevuto da questo
nostro amore.
Non dimentichiamocene, Päivi. Non dimenticarmi. Io ti
amo”
“Anche io” rispose, e salì sul treno, e questo partì.
In quel momento volevamo mantenere vivo l’amore che ci
aveva reso migliori, forse pensavamo anche di lasciar nascere il nostro
figliolo.
Infatti quasi sicuramente era incinta. Non aveva fatto
il test di gravidanza, ma il ritardo era di tre settimane e Päivi diceva di
sentirsi in attesa. Di una bambina, diceva. Io le avevo detto che a un maschio
avrei preferito di molto una femmina simile a lei, a mia madre e a me.
Durante il viaggio tra Budapest e Danzica, mentre era
seduta nel corridoio del treno gremito, scrisse che le mancavo, ma che il
nostro “divorzio” poteva essere un bene, appunto perché le faceva capire quanto
mi amava.
Di questo ero assolutamente felice, ma della nascita
di una creatura nostra, quando fui rimasto solo pensandoci continuamente, avevo
paura, per Päivi, per la creatura, e per me. Tra noi c’era un’enorme distanza
spaziale e, per giunta, avevamo entrambi problemi di lavoro, di alloggio, di
studio, anche vivendo ciascuno per conto proprio, figuriamoci insieme.
Questo pensavo, ma non glielo scrissi, poiché
aspettavo una notizia sicura sulla gravidanza, vera o presunta che fosse, prima
di affrontare direttamente il problema, e volevo sentire il parere di Päivi
sull’argomento che riguardava sì entrambi, ma prima di tutto lei.
Amor matris: subjective
and objective genitive [1].
Le scrissi soltanto che la amavo molto, fino a
sentirmi spiritualmente impregnato di lei, come lei lo era di me.
Dalla stazione di Varsavia, il
La cittina [3] aveva una forma esotica e piena di
carattere, come la sua.
Dietro, c’erano queste parole: “Vorrei che tu fossi qui
presente, ma anche così ti sento vicino. Perciò, pur stando in disparte dagli
altri finlandesi, non mi sento sola: non lo sono, perché ho sempre con me un
forte sentimento e una forte memoria di te. E ne sono felice. “I am
happy because I remember you and I feel now that you are away near me. I can be
alone without feeling myself alone because I have so nice memory of you”.
Quando ricevetti questa cartolina ne fui felice,
nonostante la grande paura di essere padre senza averlo deciso.
A mano a mano che si avvicinava alla Finlandia però,
come se accogliesse nella mente e nel cuore la freddezza del cielo scolorito
che le stava sopra la testa 4, Päivi inviava messaggi sempre meno calorosi.
1 Cfr. Joyce, Ulysse , p 26
2 T. Mann, La momtagna incantata, vol I p.
163.
3 Toscanismo (per lo meno di Sansepolcro) per
“bambina”. Così chiamavamo mia sorella Margherita in casa.
4 Cfr la Medea di Seneca che dice a se stessa: “inhospitalem
Caucasum
mente indue" (Medea, v. 43) indossa
mentalmente il Caucaso inospitale.
La storia di Päivi 23. La partenza per la Finlandia. Il nobile gesto di Alfredo
I visitatori del mio blog sono diventati 1164622, e io continuo a scrivere con maggior lena, siccome ho questa prospettiva
sicura: una quantità e, credo, una qualità di lettori che mancano alla maggior
parte degli scarabocchiatori pennivendoli i quali si elogiano o si beccano a
vicenda in quella gabbia dei raccomandati e ripetitori di pubblicità, di
banalità, di falsità che è la televisione.
Credo che siano davvero pochi i lettori dei luoghi comuni continuamente
ripetuti dai tanti gazzettieri e pennivendoli. Più numerosi sono tali
pseudoscrittori dei lettori reali.
Dice bene Leopardi: “Il solo popolo ascoltatore può far nascere
l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[1].
Se non avessi avuto il vostro riscontro, lettori, giudici veri di queste
righe, non avrei continuato.
Riprendo dunque con la storia di Päivi. Il vostro aedo, sebbene già
vecchio, unisce le Grazie alle Muse, dolcissimo tiaso e fa risuonare la Memoria[2].
Dalla nave tra Danzica ed Helsinki, il 28 agosto, Päivi scrisse che
soffriva la mia mancanza, tuttavia doveva prepararsi a passare un lungo periodo
senza di me; il 30, appena sbarcata, aggiunse che la Finlandia fredda e
semivuota non le piaceva, ma questo non la esentava dal dovere di lavorare e
vivere nella terra che era comunque la sua e lei le apparteneva.
Al messaggio che mi annunciava lo
sbarco, seguirono due settimane di silenzio del quale non mi preoccupai troppo
, siccome pensavo che la probabile pregnante avesse bisogno di tempo per sapere
con certezza se davvero aspettava un figlio, e se lo voleva.
Dalla sua decisione avrei fatto dipendere la mia.
La lettera fatale arrivò verso metà settembre a Pesaro, dove mi trovavo in
attesa di notizie da Yväskylä, mentre aspettavo l’inizio del nuovo anno
scolastico a Bologna dove avevo ottenuto il trasferimento dopo cinque anni di
insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta. Un ciclo
scolastico, e di vita, esaurito. Rimanevano e sarebbero rimasti alcuni affetti
belli.
Päivi aveva scritto che il figlio presentito lo aspettava davvero, ma non
sapeva se esserne felice o triste: voleva parlarne con me. Intanto lo stava
facendo con il suo ex “boyfriend”, un certo Jussi un architetto, un uomo che
lei, mi aveva detto a Debrecen, aveva lasciato nella primavera precedente
poiché la annoiava, nonostante fosse una persona discretamente creativa. Aveva
aggiunto che comunque non le piaceva. Questo ex compagno le aveva proposto di
tornare con lui, da lui, anche con il figlio di un altro, se voleva tenerlo;
ebbene, tanta devozione l’aveva commossa, ma lei aveva bisogno di me per
parlare e decidere che cosa fare. Chiedeva il mio aiuto in quanto si sentiva
come sdoppiata o divisa, e non poteva vedere da un solo punto di vista, cioè
unitariamente, la sua situazione triste e felice.
In ogni caso era sicura di amarmi: la sera, andando a letto, sperava di
ammirare il mio volto in qualche bel sogno; di giorno, aspettava il mio arrivo.
D’altra parte era ben cosciente che l’amore per me e la nascita della nostra
creatura, potevano diventare problemi seri, ossia ostacoli, alti e impervi come
montagne, ai suoi studi che la interessavano sempre molto, probabilmente sopra
ogni altra cosa al mondo.
Io volevo l’amore di Päivi, o piuttosto volevo continuare a pensare che
Päivi mi amasse, e finché ne ebbi bisogno per accrescere la mia identità, e
fino a quando non fu del tutto impossibile continuare a pensarlo, lo feci. Di
fatto, tale illusione mi stimolava a studiare, a riflettere, a comprendere.
Però in quel tempo, sulla soglia assai vicina dei trenta[3], non sapevo se volere la bambina attesa: da una parte la desideravo,
dall’altra avevo paura che il pensiero e l’occupazione di un figlio avrebbe
messo dei ceppi ai miei piedi ancora agili.
Anche io, come Päivi volevo imparare dai libri senza ostacoli di nessun
genere, se non altro perché mi ero identificato con lei, con quanto affermava,
con l’immagine che dava di sé.
Invero è da allora che ho cominciato a studiare seriamente, metodicamente e
pure un poco maniacalmente: prima con fatica, poi con scioltezza, quindi con
piacere.
Infine studiare è diventato un bisogno, una necessità, come mangiare, bere
e respirare, come pedalare la bicicletta sulle salite con rapporti duri.
Come per i sacerdoti santi è
necessario pregare, o sedurre per i seduttori professionisti.
Comunque in quei giorni del settembre del 1974 volevo un colloquio tra noi
e avrei voluto che la decisione sulla creatura nostra la prendessimo insieme.
Così andai a prenotare un posto nel primo aereo per Helsinki che partiva da
Rimini alle 14 del 20 di quel mese fatale. Il giorno seguente sarebbe iniziato
l’autunno, in tutti i sensi.
Del resto se l’autunno stava arrivando, la primavera non era più tanto
lontana.
Un’ora prima che il velivolo prendesse il volo, all’aeroporto arrivò
Alfredo da Roma, appositamente per incoraggiarmi a fare nascere “la
finlandesina bella e intelligente”, disse, e mi diede un regalo, un fazzoletto
di ottimo gusto da portare alla mia donna, alla nostra amica, disse.
Fu un segno di anima fine, delicata, e lo ricordo in onore dell’amico che,
carente di successi con le ragazze, a Debrecen si era sentito compreso e
rassicurato dalla mia compagna impegnata a capire le debolezze degli esseri
umani. Forse perché dietro la sua apparenza calma e sicura, dietro quel volto
da donna abituata a pensare i pensieri intelligenti che avevano formato tutto
il suo aspetto, sotto quei lunghi capelli fulvi, simili a una nuvola che
rosseggia per i raggi infiammati del sole cadente, sotto quella chioma da
leonessa bipede, era una debole creatura anche lei.
Nel 1918 l’amico Alfredo è morto. Poi è morto Fulvio, amico ancora più
caro. Le belle persone di un tempo scompaiono una per volta. Anche io un giorno
sono nato e un giorno morirò, ma fino a quell’ultimo continuerò a studiare, non
senza unire le Grazie alle Muse, come il vecchio maestro e amico Euripide.
Con l’avvicinarsi della catastrofe, la storia diventa sempre più
soggettiva, poiché la soggettività è un segno di decadenza. Il nostro rapporto
stava naufragando nell’individualismo e nell’egoismo dell’uno e dell’altra.
[1] Leopardi, Zibaldone, 146.
[2] Cfr. l’Eracle di Euripide: "non cesserò mai di unire
le Grazie alle Muse ta;" Cavrita" - tai'"
Mouvsaisin, dolcissimo connubio. Che io non viva
senza la Poesia ma sia sempre tra le corone. Ancora vecchio l'aedo fa risuonare
la Memoria"( e[ti toi gevrwn ajoido;" - keladei'
Mnamosuvnan, vv. 673 - 679).
[3] …”Ed ecco la trentina
inquietante, torbida d’istinti
moribondi (…) ecco poi la quarantina
spaventosa, l’età cupa dei vinti,
poi la vecchiezza, l’orrida vecchiezza
dai denti finti e dai capelli tinti”.
Guido Gozzano, I colloqui, 10 – 15
La storia di Päivi 24. La penultima lettera con tristi annunzi
Il 18 settembre Päivi mi aveva spedito una nuova
lettera, la penultima di tutta la storia, un’epistola che potei leggere
soltanto quando fui tornato in Italia. Diceva con grande tristezza e una certa
freddezza che presto si sarebbe fatta ricoverare per altre analisi
nell’ospedale di Oulu, la cittadina prossima al circolo polare dove la giovane
pregnante aveva la residenza anagrafica, l’assistenza medica e la famiglia.
Nella casa dei genitori tuttavia non avrebbe potuto nemmeno posare i bagagli,
perché loro non sapevano niente della sua situazione, e, quindi, si sarebbe
appoggiata al sostegno dell’amico Jussi.
Inoltre aveva scritto che si sentiva dicotomizzata in
due persone: una cui erano capitati tutti gli eventi dell’estate passata,
mentre l’altra li guardava da fuori, come un’estranea,
“Io agisco e reagisco come due donne diverse. C’è
qualche cosa di schizofrenico in me”.
Aveva bisogno di aiuto, ma i medici non potevano
darglielo; anzi da loro temeva domande moralistiche che l’avrebbero resa
aggressiva. Eppure era con tali persone che doveva trattare.
Io le mancavo e ancora mi amava, aggiungeva; però non
chiedeva più la mia presenza.
Anche se non lo diceva esplicitamente, aveva già
deciso di eliminarmi dalla sua vita. C’è come una marea nelle vicende amorose.
Flussi e riflussi con donne diverse. La marea della vita. Come un uccello le
penne o un serpente la pelle, Päivi stava mutando la mente di amante benevola e
fedele verso di me: un poco alla volta si spogliava dell’amore che le avevo
ispirato a Debrecen con il soccorso di Eros fanciullo e di sua madre, Afrodite
Urania o Celeste che dire si voglia.
Non vidi questa lettera prima di essere tornato da
Yväskylä a Pesaro, altrimenti forse non sarei partito. Ma si vede che dovevo
rubare del tempo al destino oramai già scosceso del nostro amore mensile. Fu
una trasferta funzionale ad accettare quel fato.
Alle 14 del 20 settembre dunque salii
sull’aereo.
Mentre volavo, con l’aeroplano e con l’immaginazione,
pensavo ancora che Päivi, figlio o non figlio, fosse la femmina umana ideale,
perfetta per me, il simbolo che avrebbe completato lo spezzone di essere umano
che ero io. In qualche modo comunque l’ha fatto. Se Päivi non c’è più,
sopravvive l’ottima parte di me costruita con l’aiuto di lei.
La storia di Päivi 25.
Notturno finlandese. Il Kalevala
Quando, verso le sette di sera, atterrai
nell’aeroporto di Helsinki, Päivi, avvisata da un telegramma, mi stava
aspettando avvolta in una pelliccia: lassù il 20 settembre faceva freddo come
da noi per Natale.
I capelli non le erano caduti sotto il taglio del
ferro, e le ondeggiavano lungo il dorso intabarrato.
La scorsi al di là di una parete vitrea: aveva un’aria
triste e un poco sofferente, ma, a prima vista, mi parve più bella e più fine
di quando ci frequentavamo nel caldo della puszta ungherese: segno che il clima
artico, aspro e tagliente, le si addiceva più dell’afa polverosa esalata dalla
grande pianura magiara durante l’estate troppo calda, quasi apocalittica per la
sua natura di nordica chiara, tenue, e, nei momenti peggiori, quasi scolorita.
A parte i capelli rossi e vivaci.
Ci abbracciammo e baciammo, ma subito dopo Päivi disse
che le dispiaceva se non avevo ancora ricevuto la sua ultima lettera: lei,
lunedì 23, doveva partire la mattina presto da Yväskylä per andare a
ricoverarsi nell’ospedale di Oulu, dove Jussi le aveva prenotato un posto e
tutte le visite necessarie.
Non disse a che cosa, poiché non ce n’era bisogno.
Per stare insieme dunque avevamo solo due giorni e tre
notti.
Ma nella disposizione in cui ci mettemmo dopo tale
accoglienza, due giorni interi erano pure troppi. Päivi quasi sicuramente
andava ad abortire la nostra creatura: l’aveva deciso da sola, o con il suo “ex
boy friend”, come chiamava Jussi, e con me taceva su questo argomento,
preliminare ad ogni altra conversazione su qualunque altro tema.
Perciò facemmo il viaggio da Helsinki a
Yväskylä, in una bianca Volkswagen guidata da lei, senza dire niente di
decisivo né di significativo.
Osservavo il paesaggio.
Lungo la strada ci sono boschi e laghi ; nel cielo
c’era una luna grande, interamente tonda, tanto che consentiva di vedere la
vegetazione, la terra e le acque fredde; anzi, quando la strada saliva su una
collina, apparivano ampie zone rischiarate dalla sua luce bianchissima. Io
aguzzavo entrambi gli occhi per trarre conforto dalla visione della terra
promessa che aveva nutrito le donne più amate da me in trent’anni di vita
vicini già al loro inquieto compimento[1]. Trenta anni di vita con tre mesi di amore. Non senza
molte macerie.
Ricordavo parti del Kalevala[2] letto in aereo, e dirigevo lo sguardo sui seni
dei laghi per vedere se nel biancheggiare dell’acqua si bagnavano le anatre
azzurre o i cigni selvatici; scrutavo le rive ricurve, orlate di piante, per
riconoscere le folaghe che dovevano tuffarsi a gara nel cerchio della luna
riflessa sollevando spruzzi di perle; adocchiavo i prati lungo la strada per
verificare se gli steli dei fiori, piegandosi, accostavano le colonne anelanti
a baciarsi. Niente di questo.
Pensai all’erba verdissima del sottobosco di Debrecen
che rimaneva schiacciata dalla schiena delle mie finniche distese a fare
l’amore e l’abito letterario evocò questo pentametro “De nostro curvum
pondere gramen erat” [3] che Ovidio fa scrivere all’infelice Saffo in una
lettera per Faone dove la donna abbandonata rimpiange il tempo felice
dell’amore non più contraccambiato dal giovane.
Ancora non sapevo che sarei tornato a Debrecen più di una
volta per interrogare quell’erba dove vidi il principio delle mie gioie.
Nella luce lunare della fredda notte artica tutto era
fermo e poco espressivo, come il viso di Päivi nei momenti peggiori, quando
quella strana creatura si chiudeva in se stessa. Non aveva niente di importante
da dirmi, e nemmeno io volevo parlare.
Non avevamo in comune più nulla: né progetti, né
attese, né speranze.
Restavano solo i ricordi, e probabilmente nemmeno gli
stessi per l’uno e per l’altra.
Arrivati, ci sistemammo nel monolocale del collegio
dove lei abitava e facemmo l’amore per l’ultima volta, senza gioia, nonostante
avessi provato a dirle, come Antonio a Cleopatra, vicini a uccidersi entrambi,
“let’s have one other gaudy night”[4].
[1] Il 14 novembre.
[2] E’ l’epopea nazionale finlandese composta da
Elias Lönrot nell’Ottocento sulla base di canti popolari raccolti viaggiando
nella Finlandia orientale. Significa “Terra di Kaleva”, il progenitore della
stirpe finnica.
[3] Ovidio, Heroides, XV, 148, l’erba
era incurvata dal nostro peso
[4] Shakespeare, Antonio e Cleopatra,
III, 13, 183.
La storia di Päivi 26.
La Finlandia senza calore né colore
Nei due giorni seguenti, Päivi mi fece da guida indicandomi gli aspetti
tipici della sua terra: i laghi, i boschi, le saune. Non c’era molto di più.
Mancava la storia, difettava la nobiltà dell’antico.
Alla luce del giorno distinguevo gli abeti dalle betulle e potevo vedere
qualche uccello palmipede pedalare nell’acqua. Però i colori delle chiome vizze
degli alberi non erano vivi, la bianca cintura delle betulle non era una pelle
sugosa come favoleggia il Kalevala, e il movimento delle zampe
palmate e fangose di quei pennuti acquatici era meccanico.
Il volto di Päivi era inerte e inespressivo. Il destino segnato invece si
appressava con tutti i tristi significati della fine.
I fiori ombrosi e ingobbiti mi facevano rimpiangere i papaveri ardenti e le
spighe itifalliche del nostro paese assolato.
Anche i colori del cielo rischiarato da un sole sfuocato[1] erano smorti: piccole nuvole bianche, spinte da un vento gelido,
passavano velocemente tra quella terra improduttiva, senza ricordi, e l’etere,
pallido come le facce e le teste scolorite delle poche persone che giravano per
le strade semi - deserte di quel luogo desolato.
La Finlandia delle donne più amate da me, non era la mia terra
promessa.
Ovunque mancava il colore, mancava il calore, mancava la forza della vita.
Insomma passai due giorni penosi e tre notti tristi.
Cominciavo a temere che l’amore con Päivi fosse una sorte di mésalliance,
l’unione provvisoria e precaria tra due persone di stato, carattere e costumi
disuguali, se non addirittura di specie diversa.
La creatura concepita in luglio, se fosse nata sarebbe potuta riuscire come
certe figure mitologiche bimembri, quali erano, per esempio, gli acri centauri
nati da una nube e da Issione. Ecco perché. Con il tempo ho imparato che la
felicità difficilmente si sposa con il desiderio che l’aveva invocata.
Finalmente, il 23 pomeriggio, quando quel sole obnubilato, si stava già
spengendo del tutto tra le foglie moribonde degli alberi, Päivi e io ci
salutammo con un triste brindisi a base di birra. Poi lei partì, diretta a
nord, ancora più a nord, con la bianca Volkswagen, e non l’ho vista mai più. Se
non in fotografia dove anzi l’ho contemplata più volte, a lungo.
Rimasi un altro giorno a Yväskylä, poiché l’aereo prenotato per il ritorno partiva solo il 26 pomeriggio.
[1] Mi perdoni la blasfemia la santa fiamma che nutre la vita, il primo
fra tutti gli dèi, ma in Grecia e anche in Italia, il suo nume è del tutto diverso
La storia di Päivi 27 L’olocausto della mosca
Dopo la dipartita della donna pregnante, feci un giro per il paese scrutando
i pochi passanti bianchi quanto le erme funerarie, mentre tutte le vie si
abbuiavano nel crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e
bella Helena, o almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due
anni e mezzo, e senza quel Puntila padre. Ma non la incontrai.
Quindi tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi,
conosciuta e frequentata nel lungo, sitibondo, felice mese di Debrecen. Si
chiamava Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale
benevola Eumenide, e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia
romana che a lei interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e
replicava con intelligenza.
Ne ricavai la sensazione angosciante di avere più cose da dire con lei che
con la donna incinta di me rimasta spesso silente e quasi ostile come
un’Erinni, da quando mi aveva visto arrivare, forse già inopportuno, in
Finlandia.
Verso le dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella,
l’amica romana dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione
sentimentale e mentale penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta
tornato in Italia. La mia confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il
finlandese e di sposare Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più
tardi l’amica, forse ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con la
supplente - amante Ifigenia, mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace-
durante una gita scolastica a Roma.
Avevamo affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a
vizio di lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.
Quando ebbi concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto
invero, ma bevvi un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente,
completamente, una mosca che mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto,
feci gesti futili per impiegare il mio tempo inutile con qualche parvenza di
attività. L’abito letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita
a cucchiaini di caffè”[2].
Veramente già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di
Vernicino, tra il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una
storia d’amore, anzi la storia delle mie storie d’amore con le finlandesi.
“Vennero donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3], poteva essere l’epigrafe. Con il passare del tempo infatti diverse donne,
e donne diverse, mi avrebbero dato retta per un poco di tempo. Poi mi avrebbero
lasciato solo tutte quante, tranne un paio lasciate da me.
Con il volgere delle stagioni ho imparato a preferire la solitudine al
tedio insopportabile che mi infligge una persona non buona. Uomo o donna che
sia.
Chissà se loro pensavano invece che a dileguarmi invece ero stato sempre
io?
Tornato in Italia, cercai di iniziare il racconto di queste storie, ma non
avevo i mezzi, cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur
forti in maniera interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza
cultura era soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la
categoria dell’Universale necessaria per farsi leggere.
Me ne resi conto e rinunciai a scrivere, per studiare e imparare dalla
mattina alla sera. L’amore per Päivi non mi lasciava desiderare altre femmine
umane. Tanto meno dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!
Dovevo studiare per diventare degno di lei. La mia testa funzionava così.
[2] Cfr. T. S.
Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my
life with coffee spoons”, v. 51
[3] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità,
v. 259.
Pesaro 14 settembre 2021 ore 17, 27
La storia di Päivi 28. L’ultima telefonata di Päivi
Durante l’ultima notte di Yväskylä, Päivi mi telefonò da Oulu, da casa di
Jussi, dicendo che senza di me non poteva dormire, e che non aveva ancora
deciso se tenere il nostro bambino.
Le mancavo, anzi soffriva, pensando che io ero in Finlandia, eppure
parecchio lontano da lei.
“Torna qui” le risposi. “Io posso, anzi devo rimanere in Finlandia altri
tre giorni. Io ti amo”.
“Anche io ti amo”, disse lei, erano le quattro, “ma domani devo entrare in
ospedale per le analisi”.
“Che cosa pensi di fare?”.
“Ancora non ho deciso. E’ difficile Gianni, è molto difficile, e nessuno mi
aiuta”.
“Se vuoi, ti raggiungo”.
E’ meglio di no. Ciao, Gianni, ti amo molto”.
“Ciao. Domani mattina partirò da casa tua; poi mi fermerò due giorni a
Helsinki, da quel simpatico Kalle, che abbiamo conosciuto a Debrecen.
Telefonami là, magari. Ti amo molto anche io”.
Il giorno seguente andai a cercare Kaisa, l’amore dell’estate 1972, nella
facoltà dove era assistente. Volevo parlare con lei. Si fece negare, poi mi
scrisse che non aveva potuto fare diversamente siccome era già abbastanza
chiacchierata dalle linguacce dell’università[1].
Quindi, nel pomeriggio del tutto desolato, partii da Yväskylä in
treno e tre giorni dopo da Helsinki con l’aeroplano. Eravamo spinti da una
forza enormemente superiore alle nostre umane: quella della Necessità che con
mani d’acciaio volge l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i
movimenti del cielo.
Ananche ci aveva fatto incontrare a Debrecen in
luglio quindi aveva imbastito il nostro amore, e in settembre ci separava
disfacendo la tela tessuta durante quel mese fatato o fatale, o forse soltanto
sognato. Decidi tu lettore. Päivi e io non potevamo fare più nulla insieme.
[1] Cfr. La precedente Storia di Kaisa capitolo 14
La storia di Päivi 29.
La lettera di addio. Lo studio furioso e
speranzosissimo. Il metodo comparativo.
In aereo pensavo che Päivi, se avesse davvero voluto il mio aiuto, mi
avrebbe chiesto di seguirla a Oulu dove invece volle andare senza di me,
appoggiandosi al suo ex compagno.
In realtà la mia presenza non serviva più a niente, né aveva alcun senso il
mio parere su quanto quasi sicuramente la donna aveva già deciso di fare. Le
sue ultime parole d’amore erano del tutto dissonanti dai fatti.
Sono arrivato a diffidare delle persone dall’agire discrepante rispetto al
parlare. Ho imparato che nel dubbio, in amore, la risposta è sempre “NO”. Il
comportamento di una persona che ama non lascia spazio a sospetti e
inquietudini.
La soluzione del dubbio “m’ama, non m’ama” è comunque negativa.
E’ inutile sfogliare le margherite.
Il dilemma è fasullo.
Da Scilla e Cariddi ci si salva soltanto con la fuga. Certo è che
ora, ed è un vecchio che scrive, rimpiango quella bambina non nata. Adesso, nel
settembre del 2021, avrebbe 46 anni e mezzo.
A volte la immagino bella, intelligente e invento dei dialoghi con lei, la
figlia mancata, che mi manca. Mi invento l’avverarsi postumo di un sogno che
non si è mai realizzato
Da allora ho sempre cercato una figlia e anche per questo ho trovato,
o mi sono fatto trovare, da compagne molto più giovani di me, sempre più
giovani.
Compensazione, malattia mentale,
mania educativa, perversione? Decidi tu lettore.
Un medesimo fatto può avere significati diversi.
Arrivato in Italia, aspettavo notizie. Dopo un mese di attesa penosa e
angosciosa, una pena aggravata dal cambiamento di città e da quello di lavoro,
le Simplegadi che potevano schiacciarmi se non mi avessero aiutato le zie Rina
e Giulia comprandomi casa a Bologna, il venticinque ottobre dunque, ricevetti
una lunga lettera nella quale Päivi diceva di trovarsi sempre più rinchiusa
nella barriera dell’Io, di essere senza fede nelle persone, siccome non credeva
in se stessa, di sentirsi talmente vuota da non volere frequentare né vedere
nessuno. In compenso voleva studiare, per imparare e sapere di più.
“Qualche volta - scriveva anche - sento la tua mancanza, ma poi
ci penso con totale realismo e capisco che tu sei troppo lontano da qui”.
Concludeva la lettera, l’ultima, con queste parole definitive:
“Ora la cosa più importante della mia vita è il lavoro. Io voglio sapere
di più. Può darsi che mi inganni quando voglio dimostrare a me stessa che la
gente non conta. Spero davvero che nessun altro la pensi così. Spero che tu
scriva qualcosa. Ciao.
Päivi.
Da allora all’estate seguente le scrissi una ventina di lettere esortandola
a credere nel nostro amore. Non ebbi alcuna risposta.
Io comunque dovevo crederci per coltivare l’identità di studioso che avevo
trovato in me grazie all’amore di lei. Studiai tutto l’anno, soprattutto per
Päivi, siccome avevo avuto una modesta scuola tecnica, un professionale dove
non insegnavo greco né latino e non mi stimolava abbastanza. Volevo sentirmi
vicino all’ultima amata, simile a lei. Quando seguitiamo ad amare una donna che
ci ha rifiutato, ci comportiamo come le madri o le mogli dei soldati dispersi:
sappiamo che non c’è niente da sperare, ma nulla ci vieta di continuare ad attendere.
L’anno seguente ebbi l’incarico di insegnare greco e latino nel liceo
classico Rambaldi di Imola e dovetti studiare molto per farmi ascoltare dagli
studenti, per prepararli all’esame di maturità: tutti i giorni, dal ritorno a
casa dopo la scuola, alle 9 di sera, mi preparavo. Nei giorni di “riposo”
sgobbavo sui libri dalle 9 di mattina alle nove di sera con un intervallo di
tre ore per nutrirmi e fare un piccolo, breve giro in bicicletta.
Durante i primi mesi gli alunni leggevano il giornale, dopo Natale
prendevano appunti. Mi avevano fatto capire che tradurre, snocciolare
paradigmi, regole ed eccezioni di morfologia e sintassi, quindi ripetere i
manuali non bastava, se volevo essere ascoltato e piacere. Lo volevo con tutte
le forze, e raggiunsi lo scopo grazie alle mie capacità, alla mia volontà, ai
miei sacrifici. Avevo passato studiando tutte le domeniche, le vacanze, le
feste comandate. Avevo dato retta agli allievi più bravi mettendomi nei loro
panni con empatia e simpatia.
Nel commento alle parole tradotte
dovevo mettere la storia, la filosofia, la comparazione tra i testi, un metodo
che all’epoca non era ancora di moda ma agli studenti desiderosi di imparare già
piaceva e piaceva anche a me. L’avevo trovato e ammirato in T. S. Eliot.
Mi sentivo autorizzato da questo poeta a seguire tale via e ne ero motivato
dagli allievi che me lo avevano
chiesto , con garbo e pure non senza fermezza.
Sono ancora grato a quei ragazzi.
Alla fine dell’anno i giovani, più giovani di me di una decina d’anni, mi
consideravano con rispetto, mi ascoltavano con attenzione.
Verso la fine di maggio, una sera, guardando il tramonto pieno di
voli e di gridi di rondini che volavano intorno contente, girando a gara nel
cielo, stremato da quei mesi di studio continuo, ma non senza gioia, gridai: “Dio,
ce l’ho fatta!”.
Così amare Päivi per accrescere la mia identità imitando l’immagine che mi
ero creato di lei, non era più necessario.
Il mio amore non contraccambiato non aveva più alcuna funzione positiva,
poteva solo farmi del male.
Päivi cessava di essere l’Augusta, l’accrescitrice indispensabile.
Rimaneva solo la volontà, anzi la necessità di sapere se avesse abortito, e
per questo sarei andato a cercarla l’estate seguente, come vedremo.
Se dovessi risponderle adesso, le scriverei che isolarsi con i libri
escludendo le persone non è la sapienza vera, quella che potenzia la vita. Le
parole e le idee tratte dagli autori – accrescitori- infatti vanno discusse, e
confrontate con l’esperienza, insomma vanno verificate e inverate, o confutate,
vivendole, altrimenti rimangono frasi fatte da altri, luoghi comuni scolastici,
battute da talpe erudite, con la pancia e il cervello gonfi di radici verbali
e, se va un po’ meglio, di belle battute che non danno forza alla vita.
Insomma quello che imparavo mi potenziava nel pensiero e nell’azione.
L’avevo già intuito quando attirai l’attenzione di Helena con una frase
intelligente, come ho già raccontato[1].
A Päivi, la donna forse più importante di questa mia vita mortale, oggi
citerei, magari tamburellando ditirambi, cinque parole delle Baccanti che
dicono tutto: “to; sofo;n d j ouj sofiva[2], il sapere non è
sapienza.
Poi glielo spiegherei ricordando le lezioni ricevute dalla vita, come
faccio ora con voi cari lettori.
To; sofovn, il sapere,
in greco è di genere neutro, non ha una matrice, mentre hJ sofiva, la sapienza, è femminile, il che consente di
attribuirle una natura feconda.
Ma in quei giorni dell’autunno del 1974 menzionare la fecondità sarebbe stato inopportuno e di pessimo gusto.
[1] Cfr. La storia di Helena.
[2] Euripide, Baccanti, 395. Dodds
traduce “cleverness is not wisdom’, Euripides Bacchae, p. 121
L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo
l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,
Päivi mi aveva già dato e detto tutto quanto doveva
per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri buoni poteva
aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto, insignificante.
Non mi doveva più niente e non voleva più niente da
me.
Non volle nemmeno dirmi se aveva abortito. Io, per
sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la primavera: una
volta ogni due settimane spedivo lettere per diversi mesi, invitandola sempre a
rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre
rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, fino
all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben
disposta nei miei confronti, seppure sposata da poco, malmaritata
probabilmente, mentre lei, Päivi dico, non aveva cura di me e non rispondeva
alle lettere mie. Telefonai, anche, diverse volte, nel monolocale di Yväskylä
dove mi aveva ospitato in settembre, ma quella donna, ferocemente, si faceva
negare, oppure alle mie domande angosciose e incalzanti rispondeva in maniera
generica, elusiva, evasiva.
Ora mi chiedo: se quando abbiamo concepito il bambino,
e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici, perché non abbiamo
fatto nascere la nostra creatura?
Rispondo: perché non ci amavamo abbastanza a vicenda,
perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita tanto da creare la vita. E
questa carenza di amore in me era causata da un sentimento di insufficienza: mi
sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello a metà. Il sentimento del
cinque che probabilmente angosciava anche lei. Ciascuno di noi era un dimidiatus
o anche meno di una mezza creatura, tanto che la nostra unione l’unione non
fu sufficiente a metterne insieme una intera. Soltanto egoisti eravamo del
tutto ambedue. Ciascuno di noi aveva amato non la persona dell’altro, e nemmeno
la propria, ma la stranezza, l’esoticità dell’amante, la propria emozione
passeggera, e la bella cornice di tutta la storia: l’Università di Debrecen, la
“grande foresta” con il ponticello sul lago dove gracidava la rana lontana, il
sangue di toro di Eger, la palinka all’albicocca e così via.
Insomma abbiamo funzionato benissimo per un mese bello
in una bella vacanza bella. Poi basta. Dopo non funzionava più niente tra noi.
L’uno aveva già dato all’altro, e già preso, tutto
quello che c’era di bello.
Il resto sarebbe stato solo noia e dolore.
La storia di Päivi 31.
Faina, la buona Ciuvassa e il mio ceffo da
cane. Il contrappasso
Durante le vacanze di Pasqua, Bruno Pera morì in un
incidente stradale nel Sudan. Cominciarono presto le dipartite degli amici di
Debrecen. Oggi noi superstiti siamo ben pochi.
In quei giorni di ferie, per non dimenticare le
sensazioni dell’estate passata, andai a interrogare la grande facciata grigia
del Budaörsi Kollegium e tutti i luoghi dove ero stato felice con Päivi.
Prendevo appunti Meditavo di raccontare tutta la storia, ma solo dopo avere
elaborato il dolore della fine. La pena doveva diventare intelligenza dei
fatti, di me stesso, della donna.
Anche questo pellegrinaggio a luoghi che consideravo
sacri, ebbe del resto un aspetto egoista e crudele, poiché mentre giravo devoto
ed estatico, fuori di me come l’adoratore di una divinità crudele, tra i
locali, per le piazze, lungo le vie, attraverso le campagne frequentate in
agosto con la donna di cui ero pur sempre follemente innamorato, in
quell’aprile lontano mi portavo dietro un’altra amante: Faina, una Ciuvassa russificata
che stava facendo la tesi a Budapest.
Ci eravamo conosciuti a Debrecen nell’estate già
allora lontana del ’72, quella dell’amore di Kaisa che ho già raccontato nel
secondo dramma di questa trilogia finlandese prossima a terminare. Poi magari
tornerò al satiresco su Ifigenia. Scrivo queste storie perché vengono lette da
tanti visitatori del blog cui forse curano l’anima, e anche con la speranza di
ritardare la morte. Faccio tesoro di sentimenti forti che mantengano viva la
memoria dei significati di una vita vissuta nell’amore, nella gioia e nel
dolore. Senza giochi di carte dico, né visioni, tanto maschili, di partite di
calcio, né droga, né fumo e simili lordure. Un po’ di vino magari sì.
Apollo, Venere e Bacco senza tabacco.
Faina dunque, la sera della sua partenza dalla
cittadina universitaria ungherese mi aveva chiesto di accompagnarla alla
stazione, poi, siccome il treno per Samarcanda aveva un grosso ritardo, eravamo
andati a parlare e a bere dell’Egribikavèr[1] all’Aranybika[2].
Le avevo esposto la mia visione del mondo nella lingua
magiara, in breve e molto all’ingrosso.
Tuttavia da quella sera remota, Faina, da vera
Ciuvassa russificata e romantica, si era creata il mito di Gianni il buono, il
generoso, l’ingenuo, e lo coltivava senza ragione, come una delle creature
estreme di Dostoevskij. In particolare mi associava al principe Myskin,
l’idiota santo e geniale. Diceva di amarmi perché nell’anima mia vedeva la
forza della bontà. Avrebbe studiato e imparato bene la lingua italiana per
comunicare con me. Mi amava e sperava di venire contraccambiata.
Tuttavia in quei giorni della primavera del 1975 non
poté non accorgersi che ero innamorato di un’altra e me lo fece notare con
mitezza e mestizia.
Una mattina, mentre giravamo l’Ungheria con la nera
Volkswagen e io andavo a caccia di ricordi con gli occhi, con le orecchie,
fiutando le tracce lasciate da Päivi con il naso e con tutto il ceffo davvero
da cane, Faina notò che avevo un grosso peso nel cuore e me lo disse.
Non la smentii, siccome sono stato anche po’ farabutto
in questa mia vita mortale, ma bugiardo per niente. Mi piaccio abbastanza da
non dovermi camuffare.
Posso capire e accettare la dissimulazione, ma non
ammetto né mi permetto la simulazione servile.
Avuta dunque la mia tacita conferma, Faina si mise a
cantare una canzone ciuvassa dalla melodia triste. Quindi me la tradusse.
Una donna dice a un uomo: “Amore mio, portami via con
te: ti farò da compagna”.
L’uomo risponde: “Non ti voglio: ho già una compagna”
Lei allora gli fa: “Caro, portami via con te: ti farò
da sorella”
E lui: “Non ti voglio: ho già una sorella”.
Infine la donna lo prega: “Ti prego, portami via con
te, ti farò da serva straniera”.
“Non ho bisogno di una serva straniera” - risponde
spietatamente l’uomo - Va’ via”.
“Tu sei quell’uomo, Gianni, io quella donna”, concluse
Faina sbirciandomi malinconicamente con occhi tartari, obliqui.
Mi venne in mente: “I am your wife il you will marry me;/if
not. I’ll die your maid”[3].
Invece dissi: “Faina, tu sei una cara compagna e io ti
vorrò sempre bene”.
Di fatto però tale rimprovero, seppure mite, mi faceva
danzare, dolorosamente, in mezzo alle Erinni. Io stavo infliggendo ingiustizia
e crudeltà a quella creatura immeritevole di tale maltrattamento.
Ne imploro perdono a lei e a Dio, chiunque egli sia.
Vero è che più avanti dovrò scontare queste sofferenze
arrecate a Faina con quanti dolori mi verranno inferti da Ifigenia e altre
vendicatrici.
Poiché il male fatto si paga: prima o poi torna
indietro, rimbalza sull’autore secondo il contrappasso.[4]
Tra gli altri pregi, quella ragazza ventitreenne aveva
quello di essere comunista convinta. Il regime diceva, perfino al tempo di
Stalin, aveva aiutato la gente e le popolazioni più povere dell’Unione
Sovietica. Per questo lei aveva potuto studiare, viaggiare e fruiva ancora di
borse di studio. Dall’autunno seguente avrebbe lavorato come interprete a
Budapest.
Forse con lei ho perso, per mia stupidità, la donna
migliore, la più buona, la più intelligente e capace che abbia mai incontrato.
Allora avevo soprattutto bisogno di un’amica buona che
mi credesse tanto, tanto buono e mi desse qualche indicazione e qualche ragione
per diventarlo davvero.
Päivi mi aveva motivato allo studio intelligente e al
pensiero cosciente, e io cominciavo a capire che non si può essere davvero
felici se non si è davvero, profondamente morali.
Faina diceva che le facevo comunque del bene poiché la
aiutavo a pensare con lucido realismo e la motivavo a studiare la mia bella
lingua madre.
E mi amava perché comunque ero buono e gentile.
A me invece in certi momenti sembrava di essere un
boia perverso che strazia una vittima innocentissima con crudeltà inaudita.
Perciò, finita la breve feria d’Aprile, tornai
volentieri a Bologna per terminare decentemente l’anno scolastico.
In luglio partii per la Finlandia. Dovevo parlare con
Päivi, sentirmi dire almeno se aveva abortito o aveva fatto nascere la nostra
bambina.
[1] Sangue di toro di Eger, un famoso vino
ungherese.
[2] Toro d’oro. Albergo e ristorante storico di
Debrecen. Cfr. la storia di Helena Sarjantola, quella di Kaisa e l’arrivo a
Debrecen presenti nel blog.
[3]Shakespeare, The tempest, III, 1
[4] Nel doloroso canto (kommós) che precede
l’epilogo dell’Agamennone (vv. 1562 - 1564), il Coro dice queste
parole: “paga chi uccide”, ἐκτίνει δ’ ὁ καίνων, “rimane saldo, finché Zeus rimane sul
trono, che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina”, μίμνει δὲ μίμνοντος ἐν θρόνωι Διὸς / παθεῖν τὸν ἔρξαντα· θέσμιον γάρ. C’è una ripresa di questo nel
kommós delle Coefore (vv. 313 - 314): δράσαντα παθεῖν, / τριγέρων μῦθος τάδε φωνεῖ, “subisca chi ha agito, un detto tre
volte antico suona così”. Ricordo anche l’Eracle di Euripide dove
Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incamminato verso
la morte (vv. 727 - 728): προσδόκα δὲ δρῶν κακῶς / κακόν τι πράξειν, “aspettati facendo del male di
averne del male”. Infine l’Oreste di Euripide. A Menelao che gli
domanda τί χρῆμα
πάσχεις; τίς σ’ ἀπόλλυσιν
νόσος; (395) “che cosa soffri? quale malattia ti distrugge?”, il nipote
risponde ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν’ εἰργασμένος, 396 - “l’intelligenza, poiché
sono consapevole di avere commesso cose terribili”. Oreste dunque è reso
sofferente dalla propria σύνεσις . Menelao allora ricorda al matricida la legge
del contrappasso per la quale deve soffrire (v. 413): οὐ δεινὰ πάσχειν δεινὰ τοὺς εἰργασμένους, “non è terribile che patiscano conseguenze
tremende quelli che hanno compiuto atrocità.
La storia di Päivi 32. “Io non voglio vederti!” Capo Nord
Due giorni viaggiai con la nera Volkswagen e con
Silvano che, in questa occasione, mi fu di valido, amichevole aiuto. Era stato
interprete dei segni buoni la sera in cui conobbi Päivi un anno prima. Ora è
una delle amicizie celesti che continuano a suggerirmi presagi favorevoli come
voli di uccelli indirizzati da Dio o l’apparire della santissima faccia del
sole in mezzo alle nuvole invide.
Ci imbarcammo a Travemünde, di sera. Sbarcati dopo una
traversata di ventiquattro ore, chiesi al sole che nascondeva molto tardi la
faccia santa, di farmi vedere di nuovo Päivi, la luminosa, la Fedra, la donna
che mi aveva stenebrato la mente: da quando l’avevo conosciuta e amata, non
sopportavo più il fetore della volgarità e mi dava un senso di nausea
l’ignoranza arrogante e pretenziosa.
Ma il sacro fulgore del primo fra tutti gli dèi non
volle esaudirmi, forse perché con la mia complicità nell’aborto avevo offeso la
sua luce che nutre e rende bella la vita.
Il giorno dopo, alla prima telefonata, Päivi si fece
negare, e alla seconda rispose dicendo solo: “I don’t want to see you”,
io non voglio vederti.
“Fennis mira feritas”[1], pensai. Vidi il sole impallidire del tutto.
Ricordai che il cielo privo di nuvole la disturbava,
mentre a me dava gioia.
Tale discrepanza mi dispiaceva. In fondo avevo già
presofferto tutto.
Silvano mi consigliò, saggiamente, di non insistere.
Né io avevo più niente da dire a una femmina tanto feroce, a quella leonessa
bipede, a quella creatura ibrida, una specie di Sfinge che dopo avermi
afferrato con artigli mascherati, divorato e inghiottito, mi rigettava
gridando: “io non voglio vederti!”.
Io invece volevo e dovevo almeno sapere se avesse
abortito o tenuto la nostra bambina.
Arrivai a Capo Nord. Giunto su quella roccia nera,
alta sotto un cielo che non seguiva le leggi del nostro ed erta sopra una
distesa d’acqua livida che rumoreggiava sui mostri addormentati in un denso
torpore nei cupi abissi marini, mentre pensavo alla bambina concepita
nell’amore dell’estate passata, chiesi a Zeus boreale una risposta a quello che
era diventato l’enigma della mia vita.
Il dio non volle esaudirmi, irato forse per i miei
pensieri e le mie azioni perverse.
Il sole aveva nascosto il suo volto bellissimo dietro
nuvole grigie e dense di presagi cattivi.
Ricordai con rimpianto il gorgheggiare degli uccelli
che mettevano in musica la mia gioia e la luce delle estati passate nelle
radure della grande foresta di Debrecen. Rimpiangevo l’energia che quelle tre
donne, Elena, Kaisa e Päivi mi infondevano ogni giorno nell’anima facendomi
sentire con forza la vita.
“Potrei bere a lungo, poi gettarmi ubriaco da questa
cupa rupe nel buio delle onde, offrire un pasto alle creature tremende[2] di questi abissi e privarmi anche della
sepoltura e di una lapide con tale iscrizione ‘qui giace un uomo che amò tre
donne finlandesi’. Non avrò nemmeno il conforto di uno che, passando, vorrà
sussurrare: “Vale giovanni caro, e ti sia lieve il suol”.
Questo pensavo, desolatamente.
[1] Tacito, Germania, 46. Straordinaria
è la barbarie dei Fenni: una popolazione germanica particolarmente povera e
selvaggia. Non c’entrano con i finnici ma non avevo in mente una citazione più
appropriata
[2] “Molte creature tremende nutre la terra - polla; me;n ga' trevfei - deina;, angosce di terrori deimavtwn a[ch - , e gli abbracci del mare sono pieni di
mostri ostili agli uomini - povntiaiv t j ajgkavlai
knwdavlwn - ajntaivwn brotoi'si plhvqousi: germogliano anche a mezz’aria sospesi splendori - blastou'si kai; pedaivcmioi - lampavde" pedavoroi: - gli animali che volano e che camminano sulla terra potrebbero dire della
collera rapida delle tempeste ptanav te kai;
pedobavmona kajnemovent j a]n - ajgivdwn fravsai kovton - (Eschilo, Coefore, I stasimo,
strofe a vv.
585 - 592,)
Vediamo l’antistrofe a (593 - 601)
Ma della mente troppo audace dell’uomo chi potrebbe
dire ajll j uJpevrtolmon ajn - dro;"
frovnhma tiv" levgoi - e delle donne sfrontate nel cuore (kai; gunaikw'n fresi;n tlhmovnwn) le
passioni temerarie (pantovlmou" e[rwta") associate alle folli cecità dei mortali? a[taisi sunnovmou" brotw'n:
i vincoli coniugali dei mostri e dei mortali li vince
l’amore disamore che domina la donna - xuzuvgou" d j
oJmauliva" - qhlukrath;" ajpevrwto" e[rw" paraniuka'/ -
knwdavlwn te kai; brotw'n”
La storia di Päivi 33.
Il ritorno a Debrecen, in automobile, da
solo, nel 1975. Il pellegrinaggio ciclistico con gli amici, nel 2011, 36 anni
più tardi
Poi mi riscossi. Considerata la reticenza irata di
Päivi e dei numi, decisi di andare in cerca di Anneli, l’amica dell’estate
precedente, per consultarla.
Non la trovai nella sua stanza in collegio del
collegio universitario di Yväskylä. Allora andai a cercarla nella casa dei
genitori, in campagna: tra le betulle, i mirtilli, le folaghe e i cigni
selvatici. Qualche uccellino sbiadito provò a farmi coraggio con il suo cinguettare
fioco, di scarso effetto.
I due canuti signori finnici dissero che la loro
figliola non era lì, né in Finlandia, poiché era partita per Debrecen due
settimane prima.
Sicché io, forzando la nera Volkswagen ormai stanca,
portai Silvano a Bologna e ripartii immediatamente per la città del mio
apprendistato amoroso, dove speravo di trovare la bionda, dolce, cosciente
Anneli. Ma quando arrivai, era già ripartita, né alcuno seppe dirmi per dove.
Era il 15 agosto, l’ultimo giorno del corso estivo che
si chiudeva con il Búcsú est[1].
Al tramonto andai a osservare lo stadio delle mie
corse. Sedetti sulla terrazza delle feste dei miei vent’anni, della mia
gioventù.
Non c’era anima viva. A quell’ora la gente cenava
prima della festa finale.
Bevvi una birra grande e pensai alle mie finlandesi, a
Eeva, a Katina, a Helena, a Kaisa, a Päivi; pensai pure a Josiane, a Faina, a
Claudio in galera da un anno, a Fulvio che, infelicemente sposato, andava a
piangere tutte le sere sulla riva del mare, siccome la moglie non gli piaceva
più, a Bruno morto da quattro mesi, alla mia bambina non nata, a me stesso
senza amore, senza amici, là nella puszta, trentenne solo e infelice, come
quando ci ero arrivato la prima volta, ragazzo ventenne grasso, depresso,
miope, foruncoloso, inetto, del tutto inadatto a essere amato, nel luglio del
1966[2]. Non avevo acquisito niente di solido in tutti quegli
anni. Lapidi e fantasmi. Potevo sì trattarli come care immagini, icone belle
dentro di me, però vicino a me non c’era anima viva. Quale piega poteva
prendere la mia vita così desolata? Avrei passato il tempo che mi restava, ogni
sera come quella di agosto, da sordido anacoreta che rimugina tristi pensieri,
o sarei andato in cerca di altre donne da donnaiolo più o meno contraccambiato,
mai pago, piuttosto ognora vago di esperienze nuove, sempre più dissolute,
finché annoiato dalla facilità degli adultèri avrei cercato di soddisfare
libidini inaudite?[3].
Come la meretrice Augusta o come un vecchio sibarita annoiato della vita.
Avevo fatto l’amore con una donna incinta di un altro;
una incinta di me aveva abortito. Quale poteva essere la prossima tappa
erotica?
L’avrebbero detto i giorni a venire che sono i
testimoni più sapienti[4].
Avevo una cartolina: la scrissi a Päivi di cui mi era
rimasto in mente l’aspetto migliore: l’interesse per la cultura, lo spirito e
la bellezza.
Le tradussi in inglese questi versi di Dante: “Or puoi
la quantitate/comprender dell’amor ch’a te mi scalda,/quand’io dismento nostra
vanitate,/trattando l’ombre come cosa salda”[5]. E conclusi: “Ti amo.
gianni, o piuttosto la svigorita ombra di gianni”.
Poi andai a procurarmi un’altra birra grossa. Sedetti
e bevvi ancora. Veramente ne avevo bisogno poiché non mangiavo da un paio di
giorni, durante i dì e le notti passati a guidare la mia automobile nera, scura
come può essere un feretro.
Me ne nutrii e inebriai quasi del tutto. Quindi, mezzo
ubriaco, fui preso da un’immensa pietà per me stesso, uomo adulto, già più che
trentenne, affettivamente fallito, senza una donna, senza un amico al mondo che
mi pensasse volendomi bene. Mia madre, forse, ma era lontana e con altri
problemi.
Compassione per me stesso dunque, solo e senza
affetti, compassione per il povero Bruno morto ante diem, quando
per giunta era tutto contento di godersi la vita, a dire il vero un po’
disordinata, ma non più della mia. Nei miei confronti non era stato proprio un
amico, però l’anno prima, lì a Debrecen, tra i giovani in festa su quella
terrazza con lui potevo discutere; quel giorno invece, il 15 agosto del 1975,
il dì del redde rationem, ero solo del tutto, senza nemmeno un
gatto o un cane da accarezzare, non più giovanissimo, pressocché disperato di
trovare ancora l’amore, l’amicizia, la gioia di vivere e di lottare. In quel
momento neanche il mio impegno di educatore mi consolava: mi avevano dato una
scuola dove non potevo impiegare tutta la mia forza mentale che, rimanendo
senza esercizio, presto si sarebbe afflosciata. Ero proprio solo nel mondo e
non avevo niente da fare che mi piacesse. Come dopo il liceo. Come quando,
quasi sei anni più tardi, la notte fra il 12 e il 13 giugno del 1981, Ifigenia
sarebbe scivolata nel pozzo.
Appena il sole fu tramontato, bevvi la terza birra,
enorme, e piansi. Piansi provando una strana consolazione, piansi a lungo,
tanto non c’era nessuno.
Quando tornai a Debrecen in bicicletta, nell’estate
del 201111, trentasei anni più tardi, una sera al tramonto, lasciati gli amici
Fulvio, Maddalena, Alessandro, andai a rivedere il casinetto del tennis. La
terrazza dove si danzava la sera è prospiciente lo stadio dove correvo di giorno.
Erano quasi le otto, non c’era anima viva.
Bevvi di nuovo una birra e pensai ancora una volta
alle mie Finlandesi di Debrecen. A Elena incinta, a quando lei e io eravamo uni
e bini come con la mamma mia, a Kaisa l’adultera dagli occhi azzurri, a Päivi
che nel 1974 aveva abortito la bambina che aspettava da me; pensai a Bruno Pera
morto nemmeno trentenne, a me stesso, rimasto come sempre strutturalmente solo,
ma non insicuro e infelice come quando arrivai a Debrecen la prima volta,
ragazzo malconcio, nel luglio del 1966.
Nel frattempo diverse altre amanti italiane e
straniere mi avevano lasciato. Tutte, tranne tre o quattro, mi avevano
lasciato, o mi ero fatto lasciare io da loro, non lo so.
Veramente le tracce di alcune rimanevano in me.
Lì a Debrecen però pensavo soprattutto alle Finlandesi
tornate a camminare sulla loro terra boscosa, a nuotare nei laghi dove le
folaghe si tuffano a gara, dove veleggiano i cigni dal collo ricurvo come le
prue, e zampettano le anatre azzurre. Non sapevo nemmeno se fossero ancora vive
su questa terra meravigliosa. Erano state loro a renderla tale ai miei occhi, a
farmela amare.
“Eravate a me care e ora nemmeno una è qui con me a
bere la birra, tra sorrisi e carezze, come si faceva allora”.
Affetti solidi li avevo acquisiti in tutti quegli
anni. Fulvio, Maddalena e Alessandro erano venuti a Debrecen, in bicicletta con
me. 1200 chilometri: una prova non piccola.
Le donne mie benedette però erano volate via
come uno stormo di uccelli spaventati da uno sparo. Eterna gratitudine anche a
loro.
[1] Sera dell’addio.
[2] Vedi il capitolo L’arrivo a Debrecen,
presente nel blog. Forse lo scriverò di nuovo, con senno rinnovato.
[3] Cfr. quanto scrive Tacito di Messalina, la meretrix
Augusta: "iam (...) facilitate adulteriorum in
fastidium versa, ad incognitas libidines profluebat " (Annales,
XI, 26) oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava
andare a dissolutezze inaudite
[4] Cfr. Pindaro Olimpica I "
"(vv.33 - 34)
[5] Purgatorio XXI, 133 - 136.
Forse avrei pianto anche se qualcuno mi avesse visto. Piansi finché sopra il mio tavolino di ferro arrugginito si accese una piccola lampada; allora asciugai le lacrime, aprii un quaderno che avevo con me, e scrissi queste parole: “15 agosto 1975, ore 19,45. Sulla terrazza del casotto di fianco allo stadio è già quasi buio. Questo luogo per me è un campo santo, ma non un campo di morti, è un santuario di tante care persone vive nella memoria. Mi vengono in mente tutti: Fulvio, Danilo deditum vino, Luigino, Ulderico, Stefania, Elizabeth, Ezio, Alfredo, Claudio, Bruno, Silvano, Eeva, Damaris, Faina, Katina, Kaisa, Helena, Josiane, Päivi, Päivi e la nostra bambina.
Quasi tutti spariti: non sono più con me, qui nella
nostra polis fatata, piena di fate. E di fato. Dove siete finiti, poveri cari?
Anche tu Bruno mi sei caro adesso. Se tu fossi ancora
qui con me, almeno potrei litigare come facevamo nel tempo della tua vita
mortale: eravamo come una coppia di gladiatori allenati da Eros che, generoso
qual era con noi, premiava entrambi con quello che volevamo.
L’anno scorso su questa terrazza celebravamo
ancora Eros e Dioniso cui sono care le danze e battevamo le mani alle fanciulle
d’Europa quando, come puledre balzavano agitando celeri i piedi e lanciavano in
aria le chiome quali Baccanti che folleggiano munite di tirso.
Mi vengono in mente tutti gli anni veloci trascorsi da
quando ne avevo ventuno: là nello stadio che ora si abbuia, nell’orto botanico
dalle piante strane, nel prato in mezzo ai collegi pieno di sole e di ragazze,
nel bosco , sul ponticello di legno, al Vigadó, al Palma, all’Aranybika, al
Müvesz[1], a Hortobágy, sul tram numero uno. Perfino sul tram,
a parte la prima volta che ci salii[2] nel 1966 da ragazzo terrorizzato, ho passato le
ore più belle della mia vita mortale con voi, in quest’ambiente di studio, di
vacanza e di amori dove non c’è mai stata competizione cattiva, livida invidia,
cupo risentimento, sordo e cieco rancore. Qui si veniva per imparare a vivere,
a fare l’amore. Una delle mie povere zie lo chiamava malevolmente “quel casino
di Debrecen”, mentre questo era un luogo sacro a Eros e a sua madre Afrodite
che ci riunivano in questa città incantata perché venerassimo con devozione il
loro nume possente.
Afrodite entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di
Euripide si presenta così “Pollh; me;n ejn brotoi'"
koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea, sono
chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
Tale mi apparve Elena la sera della conoscenza del
1971. Ce la misi tutta per farmi benedire da lei.
Dove siete finiti amici della mia gioventù? Sono
stanco Päivi, tanto stanco di inseguire la felicità senza raggiungerla. Avremmo
dovuto acciuffarla quando ci è passata davanti, poiché quella femmina - femina
- qhvlu" - felix - qhlhv - come la felicità, come la sorte, è capricciosa, e
ci ha presentato un solo kairov", un’occasione chiomata davanti ma calva di dietro.
Adesso, ispirato da due litri di birra, capisco, e,
anche se non sono un profeta[3], forse prevedo e presoffro tutto[4]. Magari pregòdo anche qualcosa.
A parte la sbornia di adesso, ricordi la terra
desolata di Eliot, amore, e gli altri nostri autori - accrescitori? Quasi ci
eccitavamo nel citarli. Sì, poi facevamo l’amore. Era una cultura porno o santa
la nostra? Santa, santa,: tutto era santo qui a Debrecen.
Dove la troverò un’altra straordinaria come eri tu un
anno fa?
Ebbene, io non sono un profeta, non sono nemmeno un
aiuto profeta come il ragazzo che sostiene Tiresia cacciato dall’empio tiranno,
se non altro poiché non sono più un ragazzo, ma non perdo i capelli per Bacco,
né divento canuto, grazie a Dio, e non ingrasso per niente, né ingrasserò, e se
questa sera ho bevuto birra a dismisura e ora sono ubriaco come Danilo,
tuttavia non sono ingrassato perché oggi non ho mangiato, ieri neppure, e
domani misurerò la giornata a cucchiaini di caffè[5].
Comunque non desidero la morte, anzi: crastinum
si adiecerit deus, laetus recipiam[6].
Ti devo ancora la mia snellezza. Päivi. Se un giorno
tu volessi vedermi di nuovo, mi troverai belloccio come quando mi amavi. Io
dunque non sono Tiresia cui erano note l’una e l’altra Venere[7], poiché ne conosco una sola,
Non sono Lazzaro, né sono Er figlio di Armenio,
Pamfilo di stirpe, entrambi morti e trascinati alla nuova nascita con la
velocità delle stelle cadenti, ma so che continuerò a cercare l’amore e tante
volte ancora lo troverò. E’ il mestiere più bello del mondo amare le donne e
farsi riamare da loro. Se per un giorno, un mese o un anno da ciascuna di loro,
non importa. Aborrisco il matrimonio ma adoro l’amore.
“Si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci”, come
diceva Claudio prima che lo chiudessero in una tetra prigione. Debrecen rimane
il luogo dei ricordi più belli. Io ne sarò l’aedo, come ha predetto Fulvio,
sarò io il cantore ispirato dalla santità di questa cittadina tutta piena di
dèi. Le mie muse saranno le finniche amatae nobis quantum amabuntur
nullae. Sono ubriaco, ma un poco di latino e di Catullo li ricordo
tuttavia. E lo cito. Chi vuol essere lieto sia. Però le sante Muse erano nove,
le mie finniche quattro o cinque, al massimo sei. Appena la sufficienza. Devo
completare il numero, colmare lo svantaggio rispetto alle figlie della
Memoria che sanno dire molte menzogne simili al vero, ma anche la verità[8].
Le italiane incontrate sinora adesso non entrano nel
conto.
Piuttosto
l’Elena cecoslovacca e la Ciuvassa Faina. Josiane l’ho perduta con rimpianto.
Scusami Päivi ma chi a una sola è fedele, con le
altre è crudele. Don Giovanni era un bel tipo. Mi piace. Debrecen rimane il
luogo dei ricordi più belli, dei giorni più felici della mia giovinezza
fuggente, la città dove ho conosciuto e frequentato gli amici più cari di questi
trent’anni di vita: Prima di tutti Fulvio che mi ha salvato dalla disperazione
rompendo gli odiosi catorci della cittadella di Dite dov’ero racchiuso, poi
Ezio, Alfredo, Luigi, Silvano, Danilo, ubriaco sempre, come me adesso, e
rubicondo.
Come sta facendosi il cielo, laggiù, sulla sinistra,
sopra la curva occidentale della pista da corsa.
Poi le mie donne migliori, le più intelligenti, le più
belle. Il catalogo non ha importanza. Mia passion predominante? Dopo i
fallimenti con le adultere scafate, con le intellettuali tristi e spietate, con
le colleghe nevrotiche, cercherò una giovin principiante[9].
Tra gli uomini il più bello, adesso che sei morto lo
ammetto, eri tu Bruno Pera. Delle donne Helena Sarjantola, sì la pregnante fascinosa.
Forse per me anche un poco annosa. Coetanei eravamo noi due. Fulvio ogni tanto
dice con una certa concitazione: “eh sì eh, Gianni, la donna deve essere
giovane!” Poi si calma e aggiunge: “l’uomo no!”
Farò come Massimissa che ebbe un figlio a ottant’anni
suonati[10].
Allora, nel 2027 o
Detto questo alzai verso il cielo il bicchiere quasi
svuotato e la testa con la bocca che schiumeggiava di birra.
Pensieri di un cervello ebbro in una stagione triste.
[1] E’ un locale di Debrecen, come gli altri
nominati subito prima. Significa “artista”.
[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog
[3] Cfr. T. S. Eliot, Il canto d’amore di
Alfred Prufrock, 84.
[4] Il doloroso grido "io ho presofferto
tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: dall'Eneide dove
il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato disgrazie:"non
ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinave surgit;/omnia praecepi atque
animo mecum ante peregi "(VI, 103 - 105), nessun aspetto delle
fatiche, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io ho presofferto tutto e
ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente. In Curzio Rufo, Dario dice
all’eunuco che gli portava la brutta notizia della morte della moglie Statira:
“cave miseri hominis auribus parcas: didici esse infelix, et
saepe calamitatis solacium est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non
risparmiare le orecchie di un pover’uomo. Infine il Tiresia di
Eliot:"and I Tiresias have foresuffered all ", ed io
Tiresia ho presofferto tutto (La terra desolata, 243).
[5] Cfr. di nuovo Il canto d’amore di Alfred
Prufrock di Eliot.
[6] Cfr. Seneca, Ep. 12, 9.
[7] . Ovidio, Metamorfosi III,
323 Venus huic erat utraque nota.
[8] Cfr. Esiodo, Teogonia, 27.
[9] Sto echeggiando qualche battuta del libretto di
Da Ponte del Don Giovanni musicato da Mozart.
[10] Nel XXXVI libro delle sue Storie Polibio
racconta che durante il secondo anno (
La storia di Päivi 36.
Preghiera alle amiche e agli amici.
L’apprendistato che dura tutta la vita.
Non volli che la tristezza prevalesse con voluttà depravata.
Mi venne in mente di nuovo Tacito: “Feminis lugere
honestum est, viris meminisse "[1]
Mentre i fumi dell’alcol esalati svanivano a poco a
poco, rivolsi una preghiera alle persone care le cui immagini aleggiavano lievi
nel cielo sopra di me. Ora so che erano diventati gli exemplaria
aeterna di amici, amiche e amanti che avrei incontrato nel seguito
della mia vita e forse nelle prossime esistenze terrene. Elena l’ oujsiva[2] dell’amore, l’ijdeva di Afrodite, Danilo l’incarnazione di Dioniso,
Fulvio l’exemplar dell’amico
e così via.
Mi sentivo plenus his figuris quas Plato ideas
appellat immortales, immutabiles, infaticabiles[3].
“Il ricordo di voi, la memoria del tempo felice
passato insieme, rimarrà un bene prezioso, un tesoro conservato per costruire
la felicità futura, la mia e quella delle persone cui vorrò bene nei prossimi
anni.
Voi, donne della mia vita, mi avete nobilitato e
potenziato rendendomi sempre meno debole, più capace di amare e meno incapace
di farmi amare; poi, quando siete dileguate, mi avete comunque lasciato una
forza che non è andata via. Avevi ragione tu Päivi: io rimango ottimista in
ogni caso, amantissimo della vita e assai curioso di lei.
E non smetterò di cercare la felicità, come quella che
ho provato nell’amore con te.
E tu Bruno, non eri un amico, anzi, eri un rivale
nell’agone premiato con i tesori veri, le donne, comunque sei sempre stato un
antagonista degno di me. Ci siamo battuti in maniera cavalleresca per ottenere
il favore delle femmine umane più belle. Devo ammettere che da vivo mi eri
antipatico soprattutto perché anche tu piacevi alle donne. Proprio per questo
te la sei goduta la breve vita che hai avuto in sorte, troppo breve ma per
niente insignificante né triste. A Roma vivevi in un appartamento con vista sul
Pantheon. Una sera ci siamo fatti una bevuta lì dentro, con Ezio e Alfredo.
Ricordi?
Siete ombre oramai, amici del tempo migliore, ma non
sono un vecchio stanco delle ombre che vivono dentro di me, un lassatus
senex in me viventibus umbris, non lo sarò mai. Continuerò a ricordarvi
sempre con affetto e con la gioia della nostra gioventù.
Non lamentarti, povero Bruno.
Non lamentarti neanche tu gianni ghiselli, e
soprattutto, non disperare: tu adesso sei Odisseo o Ulisse che dire si voglia,
non sei più Ettore, l’eroe perdente con il quale ti identificavi quando eri
bambino, né l’infelice Leopardi dalla vita annegata nel dolore. Nel frattempo
hai imparato a non affogare nel mare in tempesta. A tratti sei stato sommerso
dai flutti, ma sei riaffiorato sempre, come l’uomo maturo di Omero.
L’eroe della pazienza, dell’intelligenza e della
conoscenza.
Presto tornerà il tempo bello e meritamente potrai
gioire della luce del sole.
Non avvilirti: hai sofferto dolori più grandi di
questo, e da poluvtla~[4] li hai sopportati, da poluvmhti~[5] e polumhvcano~[6], li hai superati, anzi, ne hai tratto sempre
motivi di crescita. Quando in casa, o in parrocchia, tra gli scout, o in
caserma, perfino a scuola, volevano mangiarti il cervello per assimilarti al
conformismo di ognuno di quegli ambienti, hai sempre saputo difenderti con la
tua sensibilità, il tuo amor proprio, la tua intelligenza, la tua volontà di
ferro.
E ce l’hai fatta. Non sei diventato un morto vivente
come volevano loro, i conformisti.
Luoghi comuni incarnati, cumuli di banalità.
Ce l’hai fatta perché non hai mai disperato: sei
sempre rimasto deciso a trovare la felicità che ti spetta, magari con l’aiuto
di Atena che pur senza essersi manifestata del tutto, ti ha dato una mano ogni
volta, perché ti assomiglia e un giorno si lascerà incontrare da te”.
p. s.
Sto per andare a una cena cui mi hanno invitato le
ragazze e i ragazzi che portai alla maturità del 1977. Eravamo nel liceo
Minghetti, adolescenti loro, giovane insegnante apprendista io. Credo di essere
ancora apprendista: l’uomo intelligente e buono lo è per tutta la vita.
[1] "Per le donne è onorevole piangere,
per gli uomini ricordare". Tacito, Germania (27,
1)
[2] Cfr. Fedro 247 C “oujsiva o[ntw" ou\sa”, l’essenza che
essenzialmente è.
[3] Vfr. Seneca Ep. 65, 7.
[4] Odissea, 5, 354, paziente, che molto
sopporta
[5] Iliade I, v. 311 e v. 440, molto
intelligente
[6] Iliade II,
v. 173, ricco di risorse
La storia di Päivi 37.
Epilogo. Gli amici celesti. La
"circulata melodia"
Quando ebbi finito di scrivere queste parole, alzai
dal quaderno gli occhi e guardai oltre lo stadio, verso l’occidente dove si
vedeva ancora una striscia di colore acceso, rimasta a ricordarmi le estati
felici degli anni passati, a far presagire i tempi belli degli anni futuri: su
quella lista vermiglia, resistente al dilagare dell’azzurro che avanzava da
oriente screziandosi già della luce brillante dei primi astri, mi apparvero i
volti ridenti di tutti gli amici scomparsi eppure presenti.
Chiesi loro cosa volessero dirmi.
Risposero che non dovevo perdere la speranza, e non
potevo sciupare il tesoro di umanità che ciascuno di loro mi aveva donato, ma
con questo e con le mie forze dovevo continuare la lotta per la felicità, la
mia e quella delle persone che il destino mi avrebbe fatto incontrare.
Questo mi dissero i compagni dei miei vent’anni. Poi,
mentre l’azzurro cupo del cielo si costellava tutto, gli amici si presero per
mano, formarono una corona e cominciarono a cantare un canto popolare ungherese
[1] girando intorno alla luce più viva; quindi il
loro movimento diventò una danza gioiosa, rispondente alla circulata melodia [2] suonata dai violini degli tzigani, o degli
angeli, che consolarono del tutto il mio pianto e lo trasformarono in un
sorriso di speranza e fiducia.
Così vi ho visti riuniti per l’ultima volta, amici
ventenni dei miei venti anni lontani, così voglio ricordarvi e farvi vivere in
questa storia che anche voi mi avete ispirato: giovani, belli, felici, come
eravamo nelle estati “debrecine”, sorridenti come eravate in mezzo alle stelle
sopra lo stadio e il grande bosco di Debrecen la sera del 15 agosto del 1975,
quando i nostri venti anni ricchi di pathos terminarono e cominciò la
connessione dei sentimenti attraverso il logos, con una vita più responsabile,
autentica e seria; meno squilibrata, superficiale, egoista.
Fine del terzo dramma della trilogia ugrofinnica.
[1] Debrecenbe kéne menni, bisogna andare a
Debrecen, et cetera
[2] Dante, Paradiso XXIII, 109
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