domenica 26 marzo 2023

Il valore della lealtà. Natio comoeda sumus.


 

Fides e perfidia.

Ricordo a quanti politici, gazzettieri e imbonitori da fiera che ci riempiono di menzogne che la Fides per i Romani dagli antiqui mores era un valore forte. Riferisco quindi un episodio di lealtà premiata raccontato da Tito Livio.

La fides è per i Romani un valore forte e vincente: Tito Livio racconta che i Falisci, nel 394, in guerra con i Romani guidati da  Furio Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Falerii a lui affidati. "Fides Romana, iustitia imperatoris in foro et curia celebrantur" (V, 27, 1), nel foro e nel senato (di Falerii) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma, in senato, per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio sotto il governo romano che con le loro leggi, e che con l'esito di quella guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano:" vos fidem in bello quam praesentem victoriam maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus" (V, 28, 13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immediata; noi, sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria. Nel buon tempo antico dunque l'osservanza della fides pagava.

 

Non è sentito in maniera così forte e cavalleresca questo valore della lealtà da parte dei Greci. Quale testimonianza di questa affermazione sulla scarsa fides  dei Greci ricordo l’episodio del cavallo di Troia (Danaumque…insidiae[1]) e riferisco un motto di Lisandro il quale concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).

Giovenale nella terza satira mette in rilievo la tendenza dei Greci a fare scena: “Natio comoeda est. Rides: maiore cachinno/concutitur; flet , si lacrimas conspexit amici,/nec dolet…si dixeris ‘aestuo’, sudat (vv.100-102 e v. 103), è una razza di commedianti. Tu ridi: quello è scosso da una risata più grossa; piange, se ha visto le lacrime dell’amico…se avrai detto ‘ho caldo’, suda. 

 

 

La perfidia plus quam punica[2]di Annibale e quella italica di Machiavelli hanno avuto dei maestri negli Elleni. 

 

Nel XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli ricorda  "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".

Machiavelli poi ha avuto tanti altri discepoli

Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids us do good for evil:-And thus i clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ,-And seem a saint, when most I play the devil (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro,e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere. Sentiamo ora un pensiero tratto dai Ricordi (141) di Guicciardini " la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita”3: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".

 

Così fanno ancora nel “palazzo” e fanno schifo alla maggior parte del popolo che non li vota.

 

Note

 

1Cfr. Eneide, 2, vv. 309-310: “ Tum vero manifesta fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è evidente la lealtà e si scoprono gli inganni dei Danai.  E’ il momento della scoperta dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte aveva cercato di mettere in guardia i Troiani gridando: “equo ne credite, Teucri./Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis” (Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i Danai anche quando portano doni. 

 

2Tito Livio, Storie,  XXI, 4

 

3 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana , 2,  p. 107

 

Bologna 26 marzo 2023 ora –legale hoc erat in votis - 9, 56 giovanni ghiselli

p. s.

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