Il Prometeo, dunque. Famosa lirica, di sublime spessore soggettivo, che si può dire sia il manifesto dello Sturm und Drang, cioè di quella tempesta e azione intrisa di morale egualitaria, dove l'assoluto protagonista è il Genio, al vertice dell'Arte e della Vita. Eroe mitico che combatte contro ogni Autorità political correct, ideologia che trionferà con Napoleone e che reggerà la società occidentale fino a Nietzsche, con Marx nella figura della classe operaia e in Freud con l'Io soggettivo. Ma veniamo all'Inno. Intanto, va detto che ci troviamo di fronte a un verseggiare libero,senza alcuna rima, salvo nell'ultima strofa, dove Menschen e Weinen, freuen sich e wie ich, fino all'iniziale Hier sitz'ich, riecheggiano le parole di Lutero di fronte ai giudici ecclesiastici di Worms nel 1521, che ebbe a proclamare Qui mi me ne sto, aggiungendo Goethe forme Menschen, Ein Geschlecht, das mir gleich sei; zu leiden, zu weinen und zu freuen sich, un dein nicht zu achten: (plasmo uomini a mia immagine, una stirpe che mi somigli nel soffrire, nel piangere e che goda e si rallegri e non si curi di te), strofa che appunto ha per ultima parola Ich tradendo infine il suo Ego (vd. l'ottima traduzione di Mario Specchio, in Antologia della poesia tedesca, Mondadori, 2005, pagg. 163-165). Eppure, l'Inno si era aperto, con una preghiera di lode agli Dei. Ma il saluto di riverenza diventa subito una maledizione contro loro stessi, palesemente una derisione buffonesca. Qui, Wolfgang si paragona a un fiore di campo, strappato da un bimbo discolo che corre per i campi e che va giocando da prepotente contro la Natura. A Zeus dice con disprezzo: Continua a velare il tuo Cielo con vapori di nubi; tu che tratti querce e monti al pari del bimbo che strappa i fiori della terra … ma lascia stare le mie cose, che tu stesso hai creato, risparmia la mia capanna, non spegnere il mio focolare, non avere invidia del mio fuoco che ti tolsi per aiutare gli uomini! Nondimeno alla seconda strofa monta la sua polemica contro gli Dei perché vi nutrite e siete ammirati con doni e da lodi di bambini e poveretti, accecati da vacue promesse. Altrimenti, morireste, o impotenti Dei, falsi e bugiardi, perché vivete di speranze mai soddisfatte. Nella terza strofa, il Poeta rivela le ragioni della sua dura invettiva. La storia di ogni uomo - da Prometeo a Goethe - passa dallo stadio di fanciullo inesperto e di umile virgulto che guardava con paura il sole; a quello di chi credeva che lì sul cielo ci fosse un orecchio disponibile a prestare ascolto alle mie preghiere, che capisse la mia disperazione. Nulla di più falso e di più inutile: Wolfgang alle strofe nr. 4 n. 5 pone in forma di domanda retorica e di dialogo breve le sue profonde perplessità sul Dio e sugli Dei di ogni epoca, dall'età classica all'età medievale e moderna, chiede e dimostra con pathos ineguagliabile e con aggettivi e forme verbali l'ambiguità del Dio: Chi mi prestò soccorso contro la alterigia dei tuoi affiliati titani? Chi mi mise nello stato di inerte vittima del tuo servizio? Morto e schiavo? A me che ero tuo fedele e ardente adepto, che ti ero grato per avermi creato, non mi hai risposto con l'inganno? Io che fui buono e disponibile, perché mi ha lasciato nel dolore? Perché hai taciuto quando ti chiesi di intervenire a cambiare il destino? E qui, alla strofa quinta, compare il vero fattore della vita, das ewige Schicksal, che in concorso col Die allmächtige Zeit, sono le vere mani invisibili che guidano la vita dell'uomo. Cioè il tempo onnipotente e l'eterno destino, i fili che reggono il burattino che noi uomini - e anche Dio! - ci reggono.
E' questa la cruda verità che già Eschilo aveva annunziato nel suo Prometeo incatenato, quando esaltò l'uomo e sminuì il Dio, ché anzi fa di Prometeo e dell'uomo la coscienza critica del moderno divenuto maturo ed indipendente. Già perché la strofa n. 6 sintetizza mirabilmente l'uomo medievale che si è rassegnato al Destino: O forse ti immaginavi dovessi io odiare la vita, magari fuggire nel deserto perché non tutti fiorirono i miei sogni di pace e di benessere sbocciati nel mio cuore al tempo che sollevai lo sguardo nel mondo? Ecco perché da Uomo maturo e libero pensatore nel pieno della mia tempesta d'animo, mi pongo a contemplare con gioia la mia nuova vita, ho per programma la liberazione della stirpe umana, che ho una nuova fede nella natura, ora che ho scoperto la sofferenza e il dolore e il piacere, ora che ho cessato di credere che Altri si curano di me, ora che ho capito che solo a me spetta la scelta di come vivere! (strofa settima). La chiusura dell'Inno vede dunque il punto di arrivo del percorso del Poeta, novello Prometeo, qui più che incatenato, quanto e piuttosto liberato. Tuttavia, dieci anni dopo le certezze subiscono una rotta. Appena due anni dopo l'esplosiva ode, conosce la donna che sembra finalmente quella della sua vita, Lili Schönemann. E di getto compone l'equivalente dramma del Prometeo, Il Clavigo. E già dopo la visita a Weimar e alla Svizzera, su invito del principe Carl August, forse perché colà incontra la nuova musa, Charlotte von Stein, rompe la relazione con la povera Lili e si trasferisce a Weimar. Qui compone ancora un variante al Prometeo, l'inno, Das Göttliche (1783): vale a dire se gli uomini che credono di essere Geni possono ancora credere negli Dei. La domanda nuova è ora: se sei un Genio, allora fai del bene e dai aiuto a chi soffre! E' la conseguenza dello spirito prometeico oppure la nostalgia di avere abbandonato la fede libertaria per diventar ministro di Carl August? Vale la pena vendersi alle regole di corte? Non era un tradimento alla Natura dell'Uomo? La luce del sole illumina tutti gli uomini, buoni e cattivi, i più bravi e i più ignoranti, onesti e cattivi..... ma non siamo sempre liberi di scegliere il bene e il male.
Dunque, continuiamo ad essere comunque dei Geni; anche se del male, nel terribile vortice dalle convenzioni sociali che ci assalgono nelle Corti dove un eroe può perdere la sua etica. E qui il germe dell'eroe Egmont e del Torquato Tasso, drammi che scriverà proprio nel suo drammatico primo decennio di Ministro del piccolo Stato, quando fino al 1787 dirigerà la Commissione per la guerra e le strade, viaggerà verso il Reno come giornalista di guerra al seguito di Carl August e sovrintenderà alla manutenzione delle strade e ripristinerà le miniere di Ilmenau. Però già pensa e ripensa il suo dramma capolavoro, Il Faust, (parte 1° pubblicato solo nel 1808). Nei primi abbozzi, il c.d. Urfaust, costruisce anche la figura del diavolo Mefistofele, che nel versetto n. 2047 affermerà: Chi si prova ad essere come Dio, è come colui che sa del bene e del male - e a teatro, Mefisto guarda intensamente il dott. Faust - ma anche Noi diavoli siamo stati illuminati da Dio....Riferimento biblico sicuramente, anche se una certa malizia del Poeta viene fuori, come un segno di Dio indelebile e inviolabile. Confine ben più chiaro che compare nella successiva famosissima fiaba dell'Apprendista stregone del 1787, quando Goethe, durante il viaggio in Italia, in Sicilia poi conosce i familiari di Giuseppe Balsamo, cioè il personaggio ambiguo che fu il Conte di Cagliostro. L'abbozzo della commedia a lui ispirato - Il Gran Cofto - segna una nuova svolta e un passaggio critico dal suo ribellismo al principio di Autorità, che lo spinse alle vacanze dalla Corte di Weimar e al suo ritorno a casa … Appena infatti rimette piede a Weimar, due eventi lo travolgono: la fredda accoglienza del Principe Carl August e della stessa Baronessa von Stein: ma anche le notizie dl Parigi in Rivoluzione. Mentre Kant, Beethoven, Schiller da tutte le parti della Germania si levavano voci favorevoli, mentre nella sua Weimar, Herder e Wieland - ormai a lui legati senza se e senza ma - dichiaravano la loro approvazione; Wolfgang invece per il biennio successivo, ne fu freddamente cronista, ma non tanto persuaso. Poi il Terrore e il Termidoro, lo spingono al silenzio. I romantici - nel vedere la sua sempre più gelida condiscendenza e quanto più calda divenisse la sua simpatia per Napoleone, testimoniata da scritti e incontri con il futuro imperatore ormai noti - gli rimproveravano la marcia indietro sulla sua giovanile irruenza antiautoritaria.
Il Werther, il Prometeo, il Göttliche, cioè il divino dell'Uomo, l'Egmont - gioia di Beethoven e un errore a dire del maturo Goethe - dove erano finiti? Heine dopo avergli fatto visita a Weimar, quasi alla morte del Vate, lo giudicò ormai un freddo calcolatore. A metà '800, Engels lo considera soltanto interessato alle corti, all'estetica formale, alla ricerca di letterature nuove ed inusitate. Perfino, un Börne, poeta classico, ma rivoluzionario, gli rimprovera di essere un intellettuale rassegnato alla Restaurazione, un poeta borghese seduto e pasciuto, che aveva tradito lo spirito illuminista. Solo il vecchio amico Wieland e il nuovo sodale Schiller avevano capito il dramma interiore del maturo Wolfgang. Costoro avevano reincontrato Goethe al ritorno dall'Italia e lessero presto uno dei suo Epigrammi, pubblicati dopo il suo ennesimo viaggio a Venezia: I grandi uomini si arrovellano sul destino della Francia, dalla Bastiglia a Napoleone, e anche i piccoli uomini si fanno domande. E se cadde quel grande, perché? Forse perché fu al dispotismo di un Re che si avvicendò la tirannia di una frazione del popolo sul popolo? E a Puskin scriveva: la Rivoluzione Francese aveva rinnegato lo spirito innovativo dello Sturm und Drang... si era sviluppata nel terrore Giacobino... aveva prodotto la pax termidoriana prima e poi l'imperialismo borghese... il classicismo illuminista si era trasformato nel nazionalismo borghese... il Genio umanista era diventato Homunculus, cioè lo schiavo dell'interesse privato della tecnica (vd. Faust, parte seconda). Tremendo passaggio culturale incompreso dalla letteratura occidentale a lui contemporanea, ma che il Vate di Weimar ebbe a maturare rileggendo proprio quel Prometeo incatenato, in un contesto ben diverso dal momento in cui lo approcciò giovanissimo nella biblioteca del padre avvocato a Francoforte nel 1764.
Ora, già muta l'interpretazione del nome, non più colui che profetizza, ma il sanscrito Pramathyus, cioè colui che ottiene il fuoco con la sfregatura di pietre. Lingua amata dal vecchio filologo curioso delle lingue orientali (vv. 85-87). Segue, l'amore di Prometeo per l'uomo e la sua pietà per chi soffre (per esempio, vv. 431-451), sentimento che da giovane lo portò a difendere i minatori di Ilmenau. Ma anche l'ostinatezza di Prometeo (vv. 999 e ss.) è un atteggiamento che lo distingue nel rappresentare a Teatro Götz von Berlichingen, quando nel 1773 rievoca quel mercenario e poeta ribelle all'autorità imperiale all'epoca delle guerre di religione fra luterani e cattolici. E poi il contraltare dell'uomo libero che contesta l'Autorità. Secondo Eschilo, Zeus è il Tiranno, come centro di potere (vv. 756 e ss.) quello necessario per mantenere l'Ordine e la Pace, magari quel Napoleone che amò diversamente dal sodale Schiller: oppure per il sanguinario despota traditore della Rivoluzione come fu Robespierre. E di qui, la scelta di essere sciolto dalle leggi umane e dai valori di convivenza civile (per es. vv. 224-225; oppure i vv. 186-197) che Goethe odierà nella figura dei tanti principini tedeschi incapaci di quella pace classica, di quella giustizia sociale e di quelle riforme democratiche che Costant e Madame de Staël dalla Svizzera proponevano a Napoleone Primo Console. Anzi, Eschilo fa dire a Prometeo (vv. 167-186) - anche in linea con la Restaurazione moderata di Metternich al Congresso di Vienna nel 1815 - che le libertà civili e le idee liberali parlamentariste anglosassoni costituiscono quella mediazione politica che traspare dal nuovo governo di Zeus dopo la detronizzazione di Saturno. Inoltre, Goethe rilegge il dramma esistenziale di Prometeo, dall'arroganza alla sofferenza e alla caduta finale, per non avere voluto resistere al limite del Destino e del Tempo, limiti naturali che anche gli Dei non possono oltrepassare (vv. 95-919; vv. 992 e ss.). Ma sono due i passaggi evolutivi che Goethe sente nel suo amino ormai melanconico e nostalgico. Quelle 12 bellissime Oceanine che appaiono su un cocchio alato fra le più alte vette di fronte a Prometeo incatenato al monte più alto della Scizia, tanto somigliano alla Baronessa von Stein, la sua Musa in estetica e in fede religiosa e che lo avvicina al Giansenismo di Manzoni, che proprio negli anni '20 del'800 verseggia sul Dio che affanna e che consola gli uomini giusti e perciò sofferenti, il Dio/Genio che vive e lavora per sé e per gli altri, in una Comunità dove tempo e destino non ci devono spaventare, quanto spronare al Progresso civile. Dove la tecnica - benché alquanto terribile per il vecchio Goethe del secondo Faust - è del pari mitigata dall'Arte del Genio.
Di qui, la finale speranza di una ottimale mediazione fra conoscenza empirica e ricerca del bello, maturata dalla nuova rilettura del pensiero di Eschilo fuori dalle interpretazioni anarchiche e rivoluzionarie di un Lenz, che a fine '700 aveva subornato la corrente dello Sturm und Drang su posizioni giacobine. Ed è questa la strada che prenderà uno dei maggiori epigoni del Prometeismo contemporaneo, Albert Camus, che nel 1946, nel contesto della raccolta di saggi L'estate e altri saggi solari, ristampata da Bompiani nel 2003 - proprio quando comincia a dubitare del meccanicismo sovietico di fede staliniana - si pone in antitesi con la lettura romantica di Shelley a sua volta influenzato dalle logiche luddiste. Ebbene, al pari dell'ultimo Goethe, Camus crede nella Natura capace di riassorbire gli eccessi della tecnica. Anzi propone di utilizzare l'Arte come un argine alla servitù delle macchine. Quando l'Uomo riuscirà a dare una finalità positiva al fuoco, quando cioè dà all'ambiente - l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco di Empedocle - il giusto rilievo naturale; allora l'intellettuale, ovvero l'artista geniale, ha combinato la giusta sintesi per vivere la sua libertà nel mondo, senza però mai dimenticare che un Limite Assoluto regge i fili dell'esistere, senza mai cadere nel pansoggettivismo che ci pone come quell'impavido apprendista stregone alla mercé dell'Ignoto.
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