Passai
la domenica aspettando e agognando la posta di lunedì. Arrivò quel
giorno, 6 agosto 1979, senza alcun segno. “Niuna nuova, mala nuova
- pensai - quella è diversamente impegnata”.
Mi
aggiravo nel bosco, cupo in volto. Verso l’una anche la “grande
foresta” si rabbuiò, poi si alzò un vento forte e iniziò a
piovere. Tornai di corsa nel collegio. I rami ancora fronzuti degli
alberi scossi dalla bufera sfregavano i vetri delle finestre chiuse
in fretta.
Si
andava davvero verso l’autunno. Tante foglie strappate dal vento
cadevano nei rigagnoli che scorrevano rapidi e le trascinavano via,
chissà dove, forse nel laghetto sotto il ponticello di legno. Così
prematuramente terminava la vita di quelle fronde e la bella
stagione. Finiva così anche la mia bella stagione amorosa.
Probabilmente in seguito a una tempesta di libidine scatenata da
qualche drudo marittimo nell’animo incostante di quella.
Avevo
voglia di piangere ma non dovevo lasciarmi abbattere dalle bufere.
“La notte sarà piena di stelle”, pensai. Anche i temporali
vengono da Dio e devono portare qualche cosa di buono.
Il
vento calò, la pioggia si mitigò. Aprìi una finestra. Odore di
terra bagnata, di fresco: profumo di rinnovamento. Un’altra donna
più fine, più buona. A un tratto sentìi un suono armonioso che
saliva da un piano inferiore. Scesi le scale per cercarne la fonte.
Nell’atrio c’era uno studente bruno, carino, che suonava un
flauto. La musica era di Mozart: “La K 550” disse il ragazzo. “Mi
piace: è un inno alla vita. Sei bravo”, gli feci.
Mentre
continuavo ad ascoltare, pensavo a possibili corrispondenze tra la
musica di Mozart e le miei gioie: serie, conquistate con tensione di
tutte le forze dell’anima e del corpo, sorridenti sopra le lacrime.
Intanto
anche il cielo si rasserenava. Uscìi dal collegio. Il sole era
ancora estivo ma rinnovato: caldo, però non afoso e scintillante
come non lo vedevo da maggio. Le foglie rimaste sui rami e
ondeggianti nel cielo ancora leggermente ventoso brillavano
asciugandosi ai raggi del dio che nutre la vita.
Mi
vennero in mente le mutande delle mie amanti. E l’artista
giovane di Joyce: “la molle biancheria segreta dove la carne
gocciava profumo e rugiada”[1].
Helena mi aveva insegnato a riporle sotto il cuscino per ritrovarle
quando era d’uopo sbrigarsi. Provavo un senso di benessere. Andai a
sedermi su una panchina al margine della radura con il laghetto
varcato dal ponticello di legno. La stessa dove mi ero seduto con lei
otto anni prima. La sera di piena estate e di luna grande, splendente
quando mi disse “sto imparando ad amarti”. Io non l’ho mai
disimparato.
Pesaro
4 settembre 2020, ore 11, 53 giovanni ghiselli
p.
s.
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