venerdì 11 settembre 2020

Leopardi e i classici 13. Conferenza di Cento (12 settembre ore 17)


Argomenti
La letteratura ateniese difetta della lirica. Scrivere per il popolo. Le illusioni e la ragione che le elimina e inferocisce le persone. Cicerone. Il comico antico e quello moderno. Un’aggiunta: L’umorismo di Pirandello
 
La cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io invece affermo che manca la lirica perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è per lo più impolitica, a parte i cori delle tragedie del resto ateniesi
 “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828)”[1].
Scrivere per il popolo, non per i critici.
 
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[2].
 
Ehrenberg
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari…Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto…questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri…Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica”[3].
 
Le illusioni e la ragione che le elimina e inferocisce le persone. Cicerone.
 Cicerone era il predicatore delle illusioni (Zibaldone, 22). Nell’ultimo tempo della libertà ateniese lo era stato Demostene.
La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile.
Cicerone cerca di persuadere i Romani a operare illusamente seguendo l'esempio dei maggiori. Ma predicavano invano contro i tiranni. La ragione aveva eliminato le illusioni. Non importava un fico la patria, la gloria, il vantaggio degli altri. Erano fatti egoisti. La ragione toglie le illusioni che legano gli uni agli altri e inferocisce le persone.
Senza illusioni non ci sarà mai grandezza di pensieri né forza e impeto e ardore d'animo né grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando uno è illuminato invece di cercare diletti e beni vani, come la gloria, l'amore della patria e la libertà, cerca i solidi, cioè i piaceri carnali osceni, insomma terrestri, diventa egoista né si vuole sacrificare per sostanze immaginarie. Un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo come sognano i filosofi del nostro tempo (la Staël), ma barbaro. La natura nemica della barbarie ci somministra le illusioni. Nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, né i Greci alle Termopili, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni e pochissimo filosofico. Le illusioni sono in natura, e senza illusioni l'uomo è snaturato. La ragione è un lume e la natura vuole essere illuminata dalla ragione, non incendiata.
 
Il comico antico e quello moderno
 
Leopardi nello Zibaldone (41 - 42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10 - 16 dello Stratiwvth", dove Filemone (361 - 263) stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno". 
Cfr L’umorismo di Pirandello: “In Aristofane non abbiamo veramente il contrasto, ma soltanto l’opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì e il no[4] egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell’educazione, e dello Stato, contro la tragedia di Euripide che snerva i caratteri e corrompe i costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili e atei, ecc.
(…) la burla è satira iperbolica, spietata. Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della verisimiglianza: egli non se ne cura perché si riferisce di continuo a cose e persone vere (…) e non crea una realtà fantastica come, ad esempio, lo Swift (…) Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale. Aristofane dunque, se mai, può essere considerato umorista soltanto se noi intendiamo l’umorismo nell’altro senso molto più largo, e per noi improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira, la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni”[5].
 
L’umorismo è il sentimento del contrario: "Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere...Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s' inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico".
Gli altri 2 esempi: Marmeladov di Delitto e castigo e Sant’Ambrogio di Giusti.
 
 
 

[1] Zibaldone, p. 4389.
[2] Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[3] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.
[4] Caratteristica dell’umorismo cfr. parte II cap. quarto.
[5] Pirandello, L’umorismo, p. 45.

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