martedì 15 settembre 2020

Debrecen 1979. 40. Pensieri di un cervello stanco alla fine di una stagione felice

Marcel Proust
Osservavo la sala con attenzione perché affiorassero i ricordi. Volevo fare i raffronti tra quella sera del 1979 e l’archetipo dell’approdo a Debrecen nel luglio 1966. Comparativismo tra gli anni vissuti. Svolgevo all’indietro il filo dal gomitolo della mia vita mortale. C’erano le stesse tende bianche e gialle non molto pulite di allora, le colonne corinzie, i pilastri, gli stucchi e il medesimo aedo invecchiato con il repertorio immutato. Non era cambiato quasi niente. Verso le due entrò un gruppo chiassoso di slavi. Come tredici anni prima avevo paura. Temevo un’altra volta di rimanere escluso dalla bellezza, dalla gioia di vivere.
“ Ifigenia se ne sta andando - pensavo - comunque in questi ultimi mesi mi ha fatto crescere. Il potenziamento da lei ricavato mi servirà a trovarne altre migliori. Il destino non mi vedrà prostrato ai piedi di una che non tiene fede alle promesse. Non diverrò mai il suo famulus”.
Dopo un piatto di carne senza patate né pane, mi alzai e mi incamminai verso il collegio. Avevo deciso di percorrere quei quattro chilometri a piedi: non dovevo prendere nemmeno un grammo: la prossima femmina umana meritava ogni mia attenzione e la prima premura doveva essere quella di presentarmi a lei nella forma migliore. I 5000 metri quotidiani e il desinare frugale contribuivano a questo. Più i quattro chilometri che dovevo percorrere a piedi in quel pomeriggio da fauno esaurito. Mi venne in mente che il primo significato del latino frugi è “onesto”. Fare esercizio, l’ascesi pagana, e mangiare con moderazione limitandosi al necessario è una forma di onestà verso se stesso. E chi non lo è con se stesso tanto meno lo sarà con gli altri. Mi sovvenne che quando ero arrivato obeso a Debrecen odiavo la mia persona e detestavo la vita. Ero carente di identità e vuoto di ogni bene. Per questo mangiavo con ingordigia. Dunque un bel progresso l’avevo fatto da allora grazie alle amanti che avevano rafforzato la mia volontà, accresciuto il mio amor proprio, potenziato la mia identità e scemato la mia insicurezza.
“Quando viene a trovarmi in casa - pensavo - quella mette disordine. Fa cadere di tutto: libri, quaderni, cioccolata, caffè, vino, formaggio, prosciutto. Di questi cibi va pazza.
 Né si china a raccogliere alcuna cosa. Non pulisce quanto ha sporcato, non asciuga quanto ha bagnato. Se riuscisse a trasferirsi da me, mi ridurrebbe a suo servo. Ancora è bella ma, se non pone limiti alla sua ingordigia, tra pochi anni, già sui trenta, sarà una bella lardellona, poi, sui quaranta una lardellona e basta. In ogni caso non è una persona generosa: lo sta ribadendo con questa sollecitudine nello scrivere e spedirmi una lettera della quale le ho detto chiaramente di avere bisogno: pensa cosa succederebbe se tu avessi bisogno di un farmaco o di qualunque altra assistenza!”
Quando arrivai in collegio e non trovai posta, pensai: “Che miserabile, che infame! Eppure se mi scrivesse mi renderebbe felice. Guarda come ti sei ridotto! Sei diventato lo zimbello di quella cutrettola!”
Quindi salii in camera per prendere I Guermantes e trarre qualche consolazione dalla sprezzatura che Proust attribuisce ai nobili: la neglegentia, l’ajmevleia celebrata dai miei classici. Dovevo imparare da loro la noncuranza di chi mi voleva male
 
giovanni ghiselli

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