venerdì 25 settembre 2020

Giuseppe Moscatt: Wolfgang Goethe, tragediografo moderno. A 230 anni dalla pubblicazione del “Torquato Tasso”

Wolfgang Goethe, tragediografo moderno. A 230 anni dalla pubblicazione del “Torquato Tasso”

di

Giuseppe Moscatt

 

Il 16 - 02 - 1807, al teatro nazionale di Weimar, andava in scena uno dei drammi meno noti del massimo uomo di cultura della Germania moderna, Wolfgang Goethe. Il dramma era stato ideato ed elaborato però da molto tempo, qualche anno prima del famoso “Viaggio in Italia”. Infatti, nei suoi diari appariva già un abbozzo del personaggio principale della scena, “Torquata Tasso” (1780) e nel 1781, durante gli anni di amministratore a Weimar, aveva pronto i primi due atti. E' noto quale fu il travaglio psicologico che lo afflisse fino alla segreta decisione di abbandonare la Corte di Weimar, dove i giochi di potere che si sviluppavano lo avevano messo alle corde e che soprattutto gli impedivano di continuare a scrivere e a studiare, quasi un limite del suo essere per la poesia. Il 2 settembre del 1786, approfittando di un momento di riposo dalle fatiche di governo - che dal 1776 lo aveva visto consigliere segreto a seguito del Principe Carlo Augusto e che per il decennio successivo lo aveva regolarmente stipendiato per quel ruolo dietro le quinte di quell'Amministrazione - Goethe partì di notte a notte da Karlsbad, città termale, e fino al giugno del 1788 resterà in giro per l'Italia. Porterà con sé la bozza del dramma, visiterà Ferrara e Roma, le città del Tasso, fino a quella chiesa di S. Onofrio dove il collega e sodale giacerà per sempre (16 - 2 - 1787). Successivamente, fra il mese di aprile e novembre dello stesso anno, le meditazioni su come proseguire l'azione del dramma ebbero un punto di svolta: nel 1785 era stata pubblicata una biografia del Tasso da parte del padre Serassi in cui veniva dato conto dello stato di estrema prostrazione di quel poeta, dilaniato nell'animo da turbamenti morali, professionali e d'amore che il vivere nella corte ferrarese lo avevano portato alla follia. Nelle lunghe serate romane, fra visite archeologiche, amori popolari e gite nella campagna romana, la sua nuova tragedia raggiunse l'epilogo, un evento che chiuderà definitivamente la seconda fase della sua vita culturale. Integrato da un fondamentale antagonista - il cortigiano segretario di stato Antonio Montecatino, più volte citato dal biografo - la compagine dei personaggi risulta alquanto scarna: mentre il futuro amico Schiller aveva individuato ben 15 personaggi e svariate comparse nel suo già noto dramma “I Masnadieri”, in scena dal 13 - 1782 e ben cinque atti densi di dialoghi, colpi di scena e vari movimenti di palcoscenico con un numero di figuranti non indifferenti per l'epoca; Goethe mette in scena invece appena 5 personaggi: Torquato il protagonista; Eleonora d'Este, la sorella del duca, amata impossibile; Antonio Montecatino, il nemico di Tasso, l'antagonista segretario di Stato che simboleggiava la cultura ipocrita dei cortigiani. Gli altri due erano meri comprimari, in funzione di “spalla” dei primi tre, Alfonso II, il duca di Ferrara e Eleonora Sanvitale, dama di compagnia della sorella. Ma non è solo questa la differenza con le tragedie dell'epoca, dove primeggiavano in Germania le opere di Shakespeare, Lessing e Molière. Nella prima traduzione in italiano - quella di Casimiro Varese del 1876 per la casa editrice Le Monnier di Firenze, risultano 120 pagine di versificazione e comunque cinque atti, molti versi di meno per esempio del già citato dramma di Schiller, dove la traduzione di Andrea Maffei consta di quasi 200 pagine. Nondimeno, la trama appare semplice e quindi si capisce perché l'editore Göschen lo pubblicò soltanto nel 1790, dopo non pochi mesi dal ritorno di Goethe a Weimar (il 18 - 6 del 1788), quando ormai la stesura era ben definita nella sua natura di intima dichiarazione e riconoscimento dei suoi legami con la realtà quotidiana di quella società. Aveva ritrovato il terreno comune col poeta italiano: come il Tasso, Goethe ha un moto violento interiore contro la corte e i relativi intrighi, un desiderio d'amore per una donna di quell'ambiente gretto e invidioso, dove la sua natura onesta di artista lo aveva visto sempre come un emarginato, a stento tollerata fin dal suo arrivo nel 1775 e, poi, anche apprezzata per il suo lavoro amministrativo intelligente quanto per l'occulta azione di Governo, specialmente nella gestione delle miniere, dove si specializzò in Mineralogia. Amò all'epoca una sola donna, la baronessa Charlotte von Stein, sicuramente la più colta tra le tante che conobbe e che non solo non lo riamò esplicitamente, ma soltanto lo considerò come un amico, spesso formale, nella sua dorata cerchia di corte, poco più di un precettore per il figlio Fritz. Insomma, un borghese estraneo alla nobiltà, un poeta che non poteva stare alla pari della loro classe, poco più di un maestro di cappella che aveva solo il favore del Duca, per Tasso Alfonso secondo, per Goethe il Principe Carlo Augusto, circostanza non da poco che però lo rese inviso al segretario di Stato Antonio, perfettamente ricostruito nella sinuosa e ipocrita persona di quel Montecatino descritto dal Serassi or ora citato. Nella prima scena, Tasso consegnerà al Duca la copia della “Gerusalemme liberata” appena conclusa e la principessa Eleonora la corona d'alloro. quasi la ripetizione del momento in cui Goethe presentò a Carlo Augusto il suo “Egmont” e che trovò nella baronessa Charlotte qualche segno di approvazione, forse interpretato per qualcosa di più. Ma ecco apparire sulla scena Antonio, il segretario, emblematico dell'invidia che a Corte prosperava. Con fare insolente verso il poeta, a sua volta inebriato d'amore e di gloria, Antonio cambia discorso e cita piuttosto la bravura dell'Ariosto e suggerisce al Duca di cingerne d'alloro il busto. Alfonso - e Carlo Augusto! - cade nella trappola; Eleonora - e Charlotte! - seguono il loro Duca e lo lasciano nelle mani di Antonio, falso e bugiardo, fautore di ben altri poeti più legati all'interesse del loro capo. Scena che a sua volta arieggia le tante discussioni politiche delle segreterie di Weimar sulla politica sociale del piccolo ducato, nel quale la borghesia mercantile veniva soffocata dalla fiscalità improduttiva nobiliare. Il dialogo fra i due è accesissimo, ma diventa ardente quando Antonio si mette di mezzo tra Tasso/Goethe e Eleonora d'Este, alludendo alla sua mediazione per goderne i favori. Tasso scoppia e snuda la spada. Riappare il Duca e la colpa del Tasso è evidente. Viene subito incarcerato, malgrado le grida di innocenza e l'ambigua difesa di Antonio, dialogo dove traspare ancora l'analoga vicenda che Goethe visse durante un alterco che ebbe a Corte e che ebbe nell'altro poeta di Weimar, Wieland, un debolissimo sostegno. Neppure la mediazione della dama Eleonora Sanvitale, segreta ammiratrice di Tasso, avrà buoni risultati. Cessati gli arresti, il poeta di Sorrento, sempre più esagitato, esplode la sua amarezza e nel giardino di Belriguardo - unica “location” dell'intera tragedia - chiede alla sorella del Duca di fuggire con lui, lontano da quel luogo così infelice. Sobillati ancora da Antonio, Alfonso e le due Eleonore - l'una spaventata, l'altra piena di rancore - fuggono dalla villa, non senza avere etichettato negativamente il Tasso rimasto ormai povero e pazzo, come Hölderlin che nel 1795 aveva abbandonato la Corte di Weimar, senza essere capito da Goethe e Schiller, altrettanto chiusi nel loro mondo che ritenevano non degno per il giovane cantore del mito classico. Qual era allora il messaggio del Vate di Francoforte? Declamare il proprio stato di insofferenza verso il mondo dei parrucconi, adoperando la sua grande capacità versificatoria, difendendo le ragioni del cuore con una lingua impetuosa e con un’enfasi personale figlia del titanismo del “Prometeo” giovanile e del “Werther" che lo aveva lanciato fra i poeti dello “Stürm und Drang” attorno al 1770, fra Francoforte e Strasburgo, insieme a Herder, Hamann, Lenz, Burger e il giovane Schiller. Stupisce del dramma, non solo la rapidità dei monologhi, ma anche la intelligente scansione delle scene e la leggerezza nel dimostrare la tragicità dell'azione scenica. Come stupirà anche, alla fine del V atto, la lucida follia del Tasso che se ne scuserà di fronte al pubblico, fatto che lo porterà all'isolamento e alla follia, anche se la combinazione fra la follia e la poesia richiamano la figura di Amleto, per personaggio che il giovane Wolfgang aveva stigmatizzato in un suo saggio giovanile del 1771. Mentre la Duchessa Eleonora lo rifiuterà per l'esagerata tensione emotiva; Antonio, con un colpo di scena da teatro pirandelliano, invece nel finale lo accoglierà nel proprio castello, divenendo l'unico amico che rimarrà a Torquato nell'ultima fase della sua triste vita. Il pubblico del 1807 non comprese il finale e si limitò a un glaciale giudizio di povertà di azione, come quando oggi ci si è trovati dinanzi a lunghi monologhi o a dialoghi troppo elaborati, come avvenne con Beckett e con Handke negli anni '60, che sono stati spesso discussi per essere troppo soggettivamente legati all'io del protagonista. Eppure la prima rappresentazione in Italia del “Tasso”, avvenuta a Ferrara nel 1954, proposta dal “Comitato per le celebrazioni di Torquato Tasso”, fu raccomandata da un grande studioso di Goethe, Bonaventura Tecchi, meriterebbe attenzione. Tecchi infatti mise in luce che in “Tasso”, Eleonora e Antonio ciascuno per proprio conto, albergava un destino di rassegnazione che non li portava per niente al compromesso. Il rimanere sulla loro posizione di nobildonna, di ipocrita adulatore e di rivoluzionario indomabile, non rendeva né a loro, né alla società. Ecco perché Goethe non arrivò ancora una volta alla scelta del suicidio come gli era sembrato obbligato il suo “Werther”. In realtà, nello stesso petto dell'Olimpico battevano tre cuori. il cuore della pace, come quello di Eleonora, desiderosa di superare la conflittualità permanente con chi l'amava. Il cuore di chi l'amava di nascosto e il cuore di Antonio, che la proteggeva ad ogni costo dal cieco ribellismo di Torquato, folle d'amore e di risentimento contro chi né lo capiva, né ormai più lo sopportava. Conformismo, rassegnazione e rivolta si fronteggiavano nell'autore stesso. Goethe, ancora una volta era di fronte a una scelta: rifiutato il “titanismo” delle prime opere, non riusciva però a raggiungere un livello di sufficiente integrazione col mondo. Al ritorno dal “Viaggio in Italia” tentò di mettere a frutto quella pace interiore che aveva colà ritrovato. E ci riproverà col viaggio dell'anima nel “Wilhelm Meister” e nelle future conclusioni delle “Affinità elettive”. Intanto, nell'aprile del 1808, mentre serpeggiavano le critiche a quello strano “Tasso”, un nuovo amore gli si parava, la giovane Bettina Brentano. Che costituirà occasione di un nuovo svelamento del suo Io, la costante resurrezione del suo animo libero, perché, come confidò all'amico Schiller, alquanto perplesso, “merita la libertà colui che la difende e la conquista giorno dopo giorno!” Non sappiamo cosa ne poteva pensare all'epoca la povera Christiane Vulpius, sua consorte dopo 20 anni di vita comune con tale Genio…

 

Giuseppe Moscatt

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