di
Giuseppe Moscatt
Il 16 - 02 - 1807, al teatro nazionale di Weimar, andava in
scena uno dei drammi meno noti del massimo uomo di cultura della Germania
moderna, Wolfgang Goethe. Il dramma era stato ideato ed elaborato però da molto
tempo, qualche anno prima del famoso “Viaggio in Italia”. Infatti, nei suoi
diari appariva già un abbozzo del personaggio principale della scena, “Torquata
Tasso” (1780) e nel 1781, durante gli anni di amministratore a Weimar, aveva
pronto i primi due atti. E' noto quale fu il travaglio psicologico che lo
afflisse fino alla segreta decisione di abbandonare la Corte di Weimar, dove i
giochi di potere che si sviluppavano lo avevano messo alle corde e che
soprattutto gli impedivano di continuare a scrivere e a studiare, quasi un
limite del suo essere per la poesia. Il 2 settembre del 1786, approfittando di
un momento di riposo dalle fatiche di governo - che dal 1776 lo aveva visto
consigliere segreto a seguito del Principe Carlo Augusto e che per il decennio
successivo lo aveva regolarmente stipendiato per quel ruolo dietro le quinte di
quell'Amministrazione - Goethe partì di notte a notte da Karlsbad, città
termale, e fino al giugno del 1788 resterà in giro per l'Italia. Porterà con sé
la bozza del dramma, visiterà Ferrara e Roma, le città del Tasso, fino a quella
chiesa di S. Onofrio dove il collega e sodale giacerà per sempre (16 - 2 - 1787).
Successivamente, fra il mese di aprile e novembre dello stesso anno, le
meditazioni su come proseguire l'azione del dramma ebbero un punto di svolta:
nel 1785 era stata pubblicata una biografia del Tasso da parte del padre
Serassi in cui veniva dato conto dello stato di estrema prostrazione di quel
poeta, dilaniato nell'animo da turbamenti morali, professionali e d'amore che
il vivere nella corte ferrarese lo avevano portato alla follia. Nelle lunghe
serate romane, fra visite archeologiche, amori popolari e gite nella campagna
romana, la sua nuova tragedia raggiunse l'epilogo, un evento che chiuderà
definitivamente la seconda fase della sua vita culturale. Integrato da un
fondamentale antagonista - il cortigiano segretario di stato Antonio
Montecatino, più volte citato dal biografo - la compagine dei personaggi
risulta alquanto scarna: mentre il futuro amico Schiller aveva individuato ben
15 personaggi e svariate comparse nel suo già noto dramma “I Masnadieri”, in
scena dal 13 - 1782 e ben cinque atti densi di dialoghi, colpi di scena e vari
movimenti di palcoscenico con un numero di figuranti non indifferenti per
l'epoca; Goethe mette in scena invece appena 5 personaggi: Torquato il
protagonista; Eleonora d'Este, la sorella del duca, amata impossibile; Antonio
Montecatino, il nemico di Tasso, l'antagonista segretario di Stato che
simboleggiava la cultura ipocrita dei cortigiani. Gli altri due erano meri
comprimari, in funzione di “spalla” dei primi tre, Alfonso II, il duca di
Ferrara e Eleonora Sanvitale, dama di compagnia della sorella. Ma non è solo
questa la differenza con le tragedie dell'epoca, dove primeggiavano in Germania
le opere di Shakespeare, Lessing e Molière. Nella prima traduzione in italiano -
quella di Casimiro Varese del 1876 per la casa editrice Le Monnier di Firenze,
risultano 120 pagine di versificazione e comunque cinque atti, molti versi di
meno per esempio del già citato dramma di Schiller, dove la traduzione di Andrea
Maffei consta di quasi 200 pagine. Nondimeno, la trama appare semplice e quindi
si capisce perché l'editore Göschen lo pubblicò soltanto nel 1790, dopo non
pochi mesi dal ritorno di Goethe a Weimar (il 18 - 6 del 1788), quando ormai la
stesura era ben definita nella sua natura di intima dichiarazione e
riconoscimento dei suoi legami con la realtà quotidiana di quella società.
Aveva ritrovato il terreno comune col poeta italiano: come il Tasso, Goethe ha
un moto violento interiore contro la corte e i relativi intrighi, un desiderio
d'amore per una donna di quell'ambiente gretto e invidioso, dove la sua natura
onesta di artista lo aveva visto sempre come un emarginato, a stento tollerata
fin dal suo arrivo nel 1775 e, poi, anche apprezzata per il suo lavoro
amministrativo intelligente quanto per l'occulta azione di Governo, specialmente
nella gestione delle miniere, dove si specializzò in Mineralogia. Amò all'epoca
una sola donna, la baronessa Charlotte von Stein, sicuramente la più colta tra
le tante che conobbe e che non solo non lo riamò esplicitamente, ma soltanto lo
considerò come un amico, spesso formale, nella sua dorata cerchia di corte,
poco più di un precettore per il figlio Fritz. Insomma, un borghese estraneo
alla nobiltà, un poeta che non poteva stare alla pari della loro classe, poco
più di un maestro di cappella che aveva solo il favore del Duca, per Tasso
Alfonso secondo, per Goethe il Principe Carlo Augusto, circostanza non da poco
che però lo rese inviso al segretario di Stato Antonio, perfettamente
ricostruito nella sinuosa e ipocrita persona di quel Montecatino descritto dal
Serassi or ora citato. Nella prima scena, Tasso consegnerà al Duca la copia
della “Gerusalemme liberata” appena conclusa e la principessa Eleonora la
corona d'alloro. quasi la ripetizione del momento in cui Goethe presentò a
Carlo Augusto il suo “Egmont” e che trovò nella baronessa Charlotte qualche
segno di approvazione, forse interpretato per qualcosa di più. Ma ecco apparire
sulla scena Antonio, il segretario, emblematico dell'invidia che a Corte
prosperava. Con fare insolente verso il poeta, a sua volta inebriato d'amore e
di gloria, Antonio cambia discorso e cita piuttosto la bravura dell'Ariosto e
suggerisce al Duca di cingerne d'alloro il busto. Alfonso - e Carlo Augusto! - cade
nella trappola; Eleonora - e Charlotte! - seguono il loro Duca e lo lasciano
nelle mani di Antonio, falso e bugiardo, fautore di ben altri poeti più legati
all'interesse del loro capo. Scena che a sua volta arieggia le tante
discussioni politiche delle segreterie di Weimar sulla politica sociale del
piccolo ducato, nel quale la borghesia mercantile veniva soffocata dalla
fiscalità improduttiva nobiliare. Il dialogo fra i due è accesissimo, ma
diventa ardente quando Antonio si mette di mezzo tra Tasso/Goethe e Eleonora
d'Este, alludendo alla sua mediazione per goderne i favori. Tasso scoppia e
snuda la spada. Riappare il Duca e la colpa del Tasso è evidente. Viene subito
incarcerato, malgrado le grida di innocenza e l'ambigua difesa di Antonio,
dialogo dove traspare ancora l'analoga vicenda che Goethe visse durante un
alterco che ebbe a Corte e che ebbe nell'altro poeta di Weimar, Wieland, un
debolissimo sostegno. Neppure la mediazione della dama Eleonora Sanvitale,
segreta ammiratrice di Tasso, avrà buoni risultati. Cessati gli arresti, il
poeta di Sorrento, sempre più esagitato, esplode la sua amarezza e nel giardino
di Belriguardo - unica “location” dell'intera tragedia - chiede alla sorella
del Duca di fuggire con lui, lontano da quel luogo così infelice. Sobillati
ancora da Antonio, Alfonso e le due Eleonore - l'una spaventata, l'altra piena
di rancore - fuggono dalla villa, non senza avere etichettato negativamente il
Tasso rimasto ormai povero e pazzo, come Hölderlin che nel 1795 aveva
abbandonato la Corte di Weimar, senza essere capito da Goethe e Schiller,
altrettanto chiusi nel loro mondo che ritenevano non degno per il giovane
cantore del mito classico. Qual era allora il messaggio del Vate di
Francoforte? Declamare il proprio stato di insofferenza verso il mondo dei
parrucconi, adoperando la sua grande capacità versificatoria, difendendo le
ragioni del cuore con una lingua impetuosa e con un’enfasi personale figlia del
titanismo del “Prometeo” giovanile e del “Werther" che lo aveva lanciato
fra i poeti dello “Stürm
und Drang” attorno al 1770, fra Francoforte e Strasburgo, insieme a Herder,
Hamann, Lenz, Burger e il giovane Schiller. Stupisce del dramma, non solo la
rapidità dei monologhi, ma anche la intelligente scansione delle scene e la
leggerezza nel dimostrare la tragicità dell'azione scenica. Come stupirà anche,
alla fine del V atto, la lucida follia del Tasso che se ne scuserà di fronte al
pubblico, fatto che lo porterà all'isolamento e alla follia, anche se la
combinazione fra la follia e la poesia richiamano la figura di Amleto, per
personaggio che il giovane Wolfgang aveva stigmatizzato in un suo saggio
giovanile del 1771. Mentre la Duchessa Eleonora lo rifiuterà per l'esagerata
tensione emotiva; Antonio, con un colpo di scena da teatro pirandelliano,
invece nel finale lo accoglierà nel proprio castello, divenendo l'unico amico
che rimarrà a Torquato nell'ultima fase della sua triste vita. Il pubblico del
1807 non comprese il finale e si limitò a un glaciale giudizio di povertà di
azione, come quando oggi ci si è trovati dinanzi a lunghi monologhi o a
dialoghi troppo elaborati, come avvenne con Beckett e con Handke negli anni
'60, che sono stati spesso discussi per essere troppo soggettivamente legati
all'io del protagonista. Eppure la prima rappresentazione in Italia del
“Tasso”, avvenuta a Ferrara nel 1954, proposta dal “Comitato per le
celebrazioni di Torquato Tasso”, fu raccomandata da un grande studioso di
Goethe, Bonaventura Tecchi, meriterebbe attenzione. Tecchi infatti mise in luce
che in “Tasso”, Eleonora e Antonio ciascuno per proprio conto, albergava un
destino di rassegnazione che non li portava per niente al compromesso. Il
rimanere sulla loro posizione di nobildonna, di ipocrita adulatore e di
rivoluzionario indomabile, non rendeva né a loro, né alla società. Ecco perché
Goethe non arrivò ancora una volta alla scelta del suicidio come gli era
sembrato obbligato il suo “Werther”. In realtà, nello stesso petto
dell'Olimpico battevano tre cuori. il cuore della pace, come quello di
Eleonora, desiderosa di superare la conflittualità permanente con chi l'amava.
Il cuore di chi l'amava di nascosto e il cuore di Antonio, che la proteggeva ad
ogni costo dal cieco ribellismo di Torquato, folle d'amore e di risentimento
contro chi né lo capiva, né ormai più lo sopportava. Conformismo, rassegnazione
e rivolta si fronteggiavano nell'autore stesso. Goethe, ancora una volta era di
fronte a una scelta: rifiutato il “titanismo” delle prime opere, non riusciva
però a raggiungere un livello di sufficiente integrazione col mondo. Al ritorno
dal “Viaggio in Italia” tentò di mettere a frutto quella pace interiore che
aveva colà ritrovato. E ci riproverà col viaggio dell'anima nel “Wilhelm
Meister” e nelle future conclusioni delle “Affinità elettive”. Intanto,
nell'aprile del 1808, mentre serpeggiavano le critiche a quello strano “Tasso”,
un nuovo amore gli si parava, la giovane Bettina Brentano. Che costituirà
occasione di un nuovo svelamento del suo Io, la costante resurrezione del suo
animo libero, perché, come confidò all'amico Schiller, alquanto perplesso,
“merita la libertà colui che la difende e la conquista giorno dopo giorno!” Non
sappiamo cosa ne poteva pensare all'epoca la povera Christiane Vulpius, sua
consorte dopo 20 anni di vita comune con tale Genio…
Giuseppe Moscatt
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