Il giorno seguente andai a Hortobágy
da solo. Partii alle quattro del pomeriggio dopo avere atteso tutti i passaggi
del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove
passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia
Giulia, aspettando ogni giorno per diverse ore almeno una cartolina della mamma
anche lei bella e bruna, pure lei ognora silente . Quel pomeriggio di fine
estate il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande
pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma
il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudirmi: avrei preso per buono finanche
un lampo pur quasi impercettibile della sua luce. Io l’avrei notato e ne sarei
stato immensamente felice.Hortobágy
Allora mi venne in mente il
pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi
che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. C’erano Bruno,
Silvano e due tedesche amiche loro. Sei giovani educati, contenti in due automobili.
Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla
Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Dio allora mi esaudì. Nei
cinque anni passati da allora il caro Bruno era morto e gli altri quattro erano
andati comunque lontano da me.
Non avevo desinato. Non ne avevo
sentito il bisogno. Farlo non mandante fame, senza la richiesta
della fame sarebbe stato un abominio.
Mi fermai sul luogo dell’atto magico
di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato.
Lo ero. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera della festa della
conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io la conobbi nel collegio
numero due. Nella luce del sole vedevo riflessa donna amata quantum
amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo
bisogno. Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno caro? Ci
bastava una ragazza fine e bellina assai, una per uno certo, se no si litigava.
I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a
te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle
donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età
allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egribikavér,
un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si
era giovani molto e ci si accontentava. Ragazzi ghiribizzosi eravamo. Tu caro
amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi
tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si
avvicinavano ai trenta però e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974
fu forse il limes, o limen se preferisci, da
giurisperito qual sei.
Tu non l’hai oltrepassato quel
confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico
meglio per te, per carità, non lo dico, però vero è che ti sei risparmiato
tanti orrori, tante delusioni, tante faticose miserie che rendono vecchi.
Poi con gli anni , mentre le forze
scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e
una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia,
intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse.
Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto.
Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura
Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove staremo bene come nel collegio
di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che
scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvo me
l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione e anche tu non omnis
morieris[2].
Mi ero seduto sul paraurti
posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi
ripartii e arrivai a Hortobágy. Salii sui gradini - sedili del teatro di legno
situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú
híd.
Luogo di ricordi e pure di attese di
eventi futuri: un anno dopo sul palcoscenico di quel piccolo teatro Ifigenia in
scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente, avrebbe
alzato le braccia al cielo gridando:
“O! for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention”[3]
Intanto Fulvio, l’amico caro e
profetico la fotografava.
Pesaro 30 settembre 2020 ore 18, 10
giovanni ghiselli
Statistiche del mio blog
Sempre1036374
Oggi173
Ieri261
Questo mese10876
Il mese scorso13215
[1] Cfr. Odissea, IV,
563ss.
[2] Cfr. Orazio Odi, III,
30, 6
[3] Shakespeare, Enrico V Prologo
vv. 12. Oh per una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo
dell’invenzione
Nessun commento:
Posta un commento