La solidarietà tra gli uomini
Leopardi aveva suggerito una relazione polemica con la natura, ma
nello stesso tempo un rapporto di solidarietà e amore tra gli uomini: “Costei
chiama inimica; e incontro a questa /congiunta esser pensando,/siccome è il
vero, ed ordinata in pria/l’umana compagnia,/tutti fra se confederati
estima/gli uomini, e tutti abbraccia/con vero amor, porgendo/valida e pronta ed
aspettando aita/negli alterni perigli e nella angosce della guerra comune”[1].
Marco Aurelio, imperatore (161 - 180 d. C.) e filosofo, scrive (Ricordi ,
II, 1): noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;"
sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le
due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura
("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin").
Anche se non c’è la schiavitù, non
c’è vera libertà se non c’è uguaglianza.
Le caste indiane ispirano
l’inattività
Leopardi nello Zibaldone, commentando l’ Indiké di
Arriano[2] (9,
10 sgg.) riflette sull’assenza della schiavitù tra gli Indiani. Il Recanatese sostiene
che il sistema delle caste preserva gli Indiani dalla schiavitù: “Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza” (919). Tale libertà
però è limitata assai, poiché senza uguaglianza non può esserci piena
libertà. Questa
divisione in caste elimina le speranze di avanzamento e non presenta “i grandi
vantaggi della libertà. Si troverà la quiete e la detta costituzione sarà
adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di
questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e
libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è
sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli
liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due
molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio;
tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve
seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa
parola, la poca forza nazionale ec. (921)… una conseguenza immancabile di
questa costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo,
ancorché libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo
stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore” (922)... “
nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione
libera… così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di
un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti che
distruggono appoco appoco l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e
cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica” (923).
Il determinismo geografico
Leopardi nello Zibaldone assume la teoria ippocratica della
connessione fra la terra e l'uomo in lode degli Italiani e dei Marchigiani in
particolare: "Ne' luoghi d'aria sottile, gl'ingegni sogliono esser
maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più acuti e più portati e
disposti alla furberia. I più furbi p. abito e i più ingegnosi p. natura
di tutti gl'italiani, sono i marchegiani: il che senza dubbio ha relazione
colla sottigliezza ec. della loro aria[3].
Similmente gl'italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il
piede ne' termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia più
viva, più animata, uno sguardo più penetrante e più arguto che non è
quello de' convicini, né de' romani stessi che pur vivono nella società e
nell'uso di un gran capitale"(p. 3891).
Il capitolo finale (122) delle Storie di Erodoto, risale,
per ragioni genealogiche, a un episodio antico. Artembare, antenato di
Artaicte, governatore dell’Ellesponto sconfitto e ucciso dagli Ateniesi, aveva
proposto a Ciro il Vecchio, il fondatore dell'impero, di trasferire il popolo
persiano dalla sua terra "piccola, scabra e montuosa" in un'altra
"migliore". L'occasione era offerta dalla vittoria sul re dei Medi
Astiage. I Persiani erano favorevoli, ma Ciro non volle: disse che
"da luoghi molli di solito nascono uomini molli ("filevein ga;r
ejk tw'n malakw'n cwvrwn malakou;" a[ndra" givnesqai", IX, 122, 3): infatti non è della stessa terra produrre frutti
meravigliosi e uomini valenti in guerra. Sicché i Persiani si allontanavano
desistendo, vinti dal parere di Ciro, e preferirono comandare abitando una
terra infeconda piuttosto che essere servi di altri coltivando pianure
fertili". Sono queste le ultime parole di Ciro e di Erodoto.
I modelli
Leopardi dichiara di "aver
contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie
di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità
quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata?
Anche Madame di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per
divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà
acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna
dirittamente al significato e valore del suo nome.)"[4].
L’utilizzo dei testi precedenti come
modelli si vede già nel “vino Ismarico” di Archiloco, un vino menzionato nel IX
canto dell’Odissea e offerto al Ciclope.
Contro la filosofia. L’antica
ruggine
Leopardi afferma addirittura che la
filosofia causò la fine della grandezza di Roma: “Or bene che giovò a Roma la
diffusione, l’introduzione della virtù filosofica , e per principii? La
distruzione della virtù operativa ed efficace, e quindi della grandezza di Roma
(11 Dicembre 1821)”[5].
Nella Repubblica di
Platone, Socrate manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e della
poesia che non consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in
particolare la Musa drogata (th;n hjdusmevnhn[6] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che insediano piacere e dolore nel trono della
città. Poi però il filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e
la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi nei confronti della seconda, probabilmente
dedotte dai comici. Ne riporto una: “mevga~ ejn ajfrovnwn keneagorivasin”, grande nelle
vuote ciance degli stolti.
Il sapere non è sapienza, afferma
Euripide nelle Baccanti ( v. 395) e Pindaro
nell’ Olimpica IX sostiene che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai[7] qeouv" - ejcqra; sofiva, vv. 37 - 38), e
aggiunge che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv - aijpeinaiv, 107 - 108), comprendono la forza
della natura e richiedono grandi energie per scalarle.
giovanni ghiselli
[3] L'alta considerazione dei marchigiani sembra risentire
di questo passo di Cicerone:"Athenis tenue caelum, ex quo etiam
acutiores putantur Attici " (Cicerone, De fato, 7),
ad Atene l'aria è sottile, e anche per questo gli Attici sono ritenuti più
perspicaci.
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