NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 5 settembre 2020

Leopardi e i classici 3. Conferenza di Cento (12 settembre ore 17)


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La solidarietà tra gli uomini

Leopardi aveva suggerito una relazione polemica con la natura, ma nello stesso tempo un rapporto di solidarietà e amore tra gli uomini: “Costei chiama inimica; e incontro a questa /congiunta esser pensando,/siccome è il vero, ed ordinata in pria/l’umana compagnia,/tutti fra se confederati estima/gli uomini, e tutti abbraccia/con vero amor, porgendo/valida e pronta ed aspettando aita/negli alterni perigli e nella angosce della guerra comune”[1].

Marco Aurelio, imperatore (161 - 180 d. C.) e filosofo, scrive (Ricordi , II, 1): noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin").

Anche se non c’è la schiavitù, non c’è vera libertà se non c’è uguaglianza.
Le caste indiane ispirano l’inattività
Leopardi nello Zibaldone, commentando l’ Indiké di Arriano[2] (9, 10 sgg.) riflette sull’assenza della schiavitù tra gli Indiani. Il Recanatese sostiene che il sistema delle caste preserva gli Indiani dalla schiavitù: “Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza” (919). Tale libertà però è limitata assai, poiché senza uguaglianza non può esserci piena libertà. Questa divisione in caste elimina le speranze di avanzamento e non presenta “i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. (921)… una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorché libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore” (922)... “ nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera… così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti che distruggono appoco appoco l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica” (923).

Il determinismo geografico

Leopardi nello Zibaldone assume la teoria ippocratica della connessione fra la terra e l'uomo in lode degli Italiani e dei Marchigiani in particolare: "Ne' luoghi d'aria sottile, gl'ingegni sogliono esser maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più acuti e più portati e disposti alla furberia. I più furbi p. abito e i più ingegnosi p. natura di tutti gl'italiani, sono i marchegiani: il che senza dubbio ha relazione colla sottigliezza ec. della loro aria[3]. Similmente gl'italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il piede ne' termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia più viva, più animata, uno sguardo più penetrante e più arguto che non è quello de' convicini, né de' romani stessi che pur vivono nella società e nell'uso di un gran capitale"(p. 3891).

Il capitolo finale (122) delle Storie di Erodoto, risale, per ragioni genealogiche, a un episodio antico. Artembare, antenato di Artaicte, governatore dell’Ellesponto sconfitto e ucciso dagli Ateniesi, aveva proposto a Ciro il Vecchio, il fondatore dell'impero, di trasferire il popolo persiano dalla sua terra "piccola, scabra e montuosa" in un'altra "migliore". L'occasione era offerta dalla vittoria sul re dei Medi Astiage. I Persiani erano favorevoli, ma Ciro non volle: disse che "da luoghi molli di solito nascono uomini molli ("filevein ga;r ejk tw'n malakw'n cwvrwn malakou;" a[ndra" givnesqai", IX, 122, 3): infatti non è della stessa terra produrre frutti meravigliosi e uomini valenti in guerra. Sicché i Persiani si allontanavano desistendo, vinti dal parere di Ciro, e preferirono comandare abitando una terra infeconda piuttosto che essere servi di altri coltivando pianure fertili". Sono queste le ultime parole di Ciro e di Erodoto.

I modelli
Leopardi dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Madame di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.)"[4].
L’utilizzo dei testi precedenti come modelli si vede già nel “vino Ismarico” di Archiloco, un vino menzionato nel IX canto dell’Odissea e offerto al Ciclope.

Contro la filosofia. L’antica ruggine

Leopardi afferma addirittura che la filosofia causò la fine della grandezza di Roma: “Or bene che giovò a Roma la diffusione, l’introduzione della virtù filosofica , e per principii? La distruzione della virtù operativa ed efficace, e quindi della grandezza di Roma (11 Dicembre 1821)”[5].
Nella Repubblica di Platone, Socrate manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e della poesia che non consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la Musa drogata (th;n hjdusmevnhn[6] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi nei confronti della seconda, probabilmente dedotte dai comici. Ne riporto una: “mevga~ ejn ajfrovnwn keneagorivasin”, grande nelle vuote ciance degli stolti.

Il sapere non è sapienza, afferma Euripide nelle Baccanti ( v. 395) e Pindaro nell’ Olimpica IX sostiene che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai[7] qeouv" - ejcqra; sofiva, vv. 37 - 38), e aggiunge che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv - aijpeinaiv, 107 - 108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle. 

giovanni ghiselli


[1] La ginestra (del 1836, vv. 126 - 135).
[2] 95 - 180.
[3] L'alta considerazione dei marchigiani sembra risentire di questo passo di Cicerone:"Athenis tenue caelum, ex quo etiam acutiores putantur Attici " (Cicerone, De fato, 7), ad Atene l'aria è sottile, e anche per questo gli Attici sono ritenuti più perspicaci. 
[4]Zibaldone , 2185 - 2186.
[5] Zibaldone, 2246.
[6] Da hJduvnw, “condisco”.
[7] Cfr. ludibrium e ludus

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