martedì 1 settembre 2020

Massimo Cacciari IX, "Il lavoro dello spirito" (I capitolo, pagine 26-28)


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Massimo Cacciari Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano, 2020

(I capitolo, pagine 26-28)

Argomenti
La fratellanza non facile. L’ipocrisia di chi detiene il potere e del Politico in genere.

“Uguaglianza e libertà formano sul piano mondano una contraddizione insuperabile - contraddizione che soltanto attraverso il termine di ‘fratellanza’, di una cristiana fratellanza, può trovare conciliazione” (p. 27).
Perfino la stessa fratellanza familiare del resto non esclude l’odio come si può leggere nel Riccardo III di Shakespeare o nel Tieste di Seneca e come non è impossibile constatare nei fatti reali.

“Ma ‘fratellanza’ non può assumere alcun significato nell’ordine immanente dello spazio politico, sia in senso machiavellico che hobbesiano”.
In effetti il Riccardo III di Shakespeare è “il principe che ha letto Il Principe. La politica è per lui pura pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte amorale come quella di costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni umane sono argilla, e anche gli uomini sono un’argilla di cui si può fare quel che si vuole.”[1]

Lo spazio politico include spesso la famiglia, quello economico la include sempre, e questi ambiti tolgono molto, se non tutto, alla fratellanza cristiana.
“Tuttavia, non è concepibile alcun ordine, alcuna gerarchia nel mondo contemporaneo che non riconosca tali idee e che non venga creduta perseguirle”.

Tale credito si regge anche sull’eterna ipocrisia del potere, cioè di chi lo detiene. Ancora Machiavelli e Shakespeare con l’aggiunta di Plutarco.
Nel XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli ricorda "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce: "Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".

Riccardo viene aizzato dai suoi alleati a vendicarsi dei suoi nemici: “ But then I sigh, and, with a piece of Scripture, - Tell them that God bids us do good for evil: - And thus I clothe my naked villainy - With odd old ends stol’n forth of Holy Writ - And seem a saint, when most I play the devil” (Riccardo III, I, 3), ma allora io sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi scampoli della Sacra Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il diavolo.

Lisandro, il comandante spartano che concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi, se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).

Torno a Cacciari: “Illusorio pensare di governare le masse poste al lavoro semplicemente con re, generali, papi e gesuiti, attraverso programmi informati a una logica puramente mondana. Impossibile un Politico che si presenti nella forma del padrone - figura, questa, che anche il capitalista appunto vuole - deve sempre allontanare da sé” (p. 28).

Come fece Giulio Cesare quando alla festa dei Lupercalia, il 15 febbraio del 44, rifiutò il diadema che Antonio gli porse più di una volta. Il popolo lo approvò ma i senatori un mese dopo lo uccisero nella curia.

In effetti quel rifiuto del simbolo regale era stata una manifestazione dell’ipocrisia del potere: infatti, a detta di Cicerone, Cesare ripeteva spesso due versi delle Fenicie di Euripide tradotti in latino.
Nella tragedia greca Eteocle considera la tirannide la divinità più grande (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda” v. 506), e, pur di averla, egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo contraddice: "ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524 - 525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
 Cicerone dunque considera questo Eteocle, o addirittura Euripide, meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis , III, 82).

Nemmeno nelle famiglie il potere assoluto viene tollerato da molti figli
L’Elettra di Sofocle dice alla madre: “io ti considero padrona non meno che madre nei miei confronti (kai; s j e[gwge despovtin - h] mhtevr j oujk e[lasson eij" hJma'" nevmwElettra , 597 - 598), io che conduco una vita misera. Durante la scena del matricidio, Clitennestra colpita da Oreste grida “w\moi pevplhvgmai (Elettra, 1415) e la ragazza, che era stata maltrattata dalla madre, urla in antilabé con la donna ferita:” pai'son, eij sqevnei", diplh'n " (v. 1415), colpisci ancora, se ce la fai. [2]
Sentiamo la conclusione di Cacciari con una conferma dell’ipocrisia del Politico, la sua necessità di recitare.
 “Anzi: il Politico vale, cioè detiene effettivo potere, proprio realizzando l’idea che nel sistema non si dia alcun padrone, che esso funzioni davvero eliminando ogni disuguaglianza. Fine affatto impossibile, e tuttavia indispensabile affermarlo, non solo per giustificare l’esistenza del Politico, bensì per determinarne la stessa efficacia” (p. 28).

Pesaro 1 settembre 2020, or 17,12
giovanni ghiselli









[1] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[2] Quella di Hugo Von Hofmannstal grida "come un demone: Colpisci! Un'altra volta!" (Elektra del 1904).

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