sabato 12 settembre 2020

Leopardi e i classici 14. Conferenza di Cento (12 settembre ore 17). APPENDICE

Raffaello, gli Dei greci in degli affreschi a Villa Farnesina, Roma

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APPENDICE
Argomenti vari
 
Ha ragione, come quasi sempre, Leopardi quando scrive che "niuna cosa estrinseca... fa venerande " le opere quanto "l'averle noi studiate e venerate da fanciulli"[1].
 
La paura degli dèi
Sentiamo Leopardi: “Gli antichi dèi della Grecia ec. erano nell’immaginazione de’ greci ec. e ne’ loro simulacri ec., di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l’origine della religione fu il timore ec… (14 Ottobre 1828)”[2].
Cfr. il dramma satiresco Sisifo (di Crizia? Euripide?) che contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi poiché le leggi non bastavano a inceppare i malvagi quando agivano di nascosto:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente ("lavqra/")[3].
 
Omero e la Bibbia. Tutto è pieno di dèi.
Leopardi avvicina la Bibbia a Omero: “La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri nella sua Vita. (Così Dante nell’italiano, ec.). Non per altro se non perch’essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà”[4].
 
Zibaldone di Leopardi: “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! Quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. Ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec! E così de’ fiori ec. Come appunto i fanciulli” (pp. 63 - 64).
Ciparisso si trasformò in un cipresso - kupavrisso" - per il dolore di avere ammazzato per sbaglio un cervo cui voleva bene
 
Talete: tutto è pieno di dèi. Qalh'" wj/hvqh pavnta plhvrh qew'n ei\nai"[5]
  
L’abisso orrido, immenso della morte “scoscesa”.
Odissea I, 11 - 12. :"Allora tutti gli altri, quanti evitarono la morte scoscesa/erano a casa, schivata la guerra ed il mare".  
 
L' aggettivo aijpuv" fa vedere la morte come un precipizio. A tale immagine si può accostare quella di Leopardi: "infin ch'arriva/colà dove la via/e dove il tanto affaticar fu volto:/abisso orrido, immenso,/ov'ei precipitando, il tutto oblia"[6].
 
Ma forse è ancora più calzante La morte di Ivan Il’ ič :"egli smaniava dentro quel sacco nero, nel quale implacabile, invisibile, la forza di qualcuno continuava a spingerlo...Egli sentiva che il suo gran patire era di dovere entrare in quella buca buia...Ad un tratto una forza lo urtò nel petto, nel fianco, ancora più forte oppresse il suo respiro, ed egli sprofondò nella buca"[7].
 
L’eroismo sta nel non cedere
 
Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore:" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38 - 40).
 
L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura: Achille  cedere nescius [8], non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto, e gli risponde: "ouj lhvxw"[9], non cederò.
  
L’eroismo del “non cedere” viene attribuito da Lucrezio a Epicuro. Leggiamo alcuni versi del I libro del De rerum natura i quali celebrano l’epica vittoria del maestro greco sulla superstizione con la denuncia della gravis religio che opprimeva tutto il genere umano prima che venisse un Graius homo il quale osò sollevare gli occhi e opporlesi
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra (I, 66 - 67)
Epicuro è il tipo dell'eroe che non cede mai: quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti/ murmure compressit caelum (68 - 69), anzi volle effringere primus claustra portarum naturae (70)
qundi la religio pedibus subiecta vicissim - obteritur (78 - 79). C'è la nemesi.
non è la mia ratio a essere empia, sostiene, ma è la religio quella che peperit scelerosa atque impia facta. Lucrezio fa l'esempio del sacrificio di Ifigenia sacrificata casta inceste (98) quale hostia "exitus ut classi felix faustusque daretur" (100). Tantum religio potuit suadere malorum (101).
  
“L’eroismo ci trascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado che avevano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22 Settembre 1828)”[10].
 
Contro la filosofia
 Leopardi smonta la filosofia, anche se la chiama “sapienza”: “Che cosa dunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? E la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi (…) E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia”[11].
Cfr. “Il sapere non è sapienza” di Euripide.
Due versi chiave delle Baccanti (395 - 396) proclamano:
Il sapere non è sapienza to; sofo;n d j ouj sofiva
e avere la pretesa di comprendere fatti non mortali
 - to; te mh; qnhta; fronei`n
 
Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia di Callimaco, il poeta di Cirene afferma che il sapere tante cose è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" - poluidreivh calepo;n kakovn, o[sti" ajkartei' - glwvssh" - , molto sapere è un grave male per chiunque non è padrone della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello" (fr.75 Pf, vv. 8 - 9).
 
“L’uomo rinunci dunque alla sua saggezza. Perché, dice un verso singolare, la saggezza non è saggezza: “To; sofo;n d’ouj sofiva”. E non è inutile notare che la pretesa saggezza dell’uomo è designata con una parola neutra, molto intellettuale[12], una parola che le dà un carattere di artificiosità; mentre la parola sofiva - che indica la saggezza ritrovata dall’uomo quando riesce a rinunciare al suo spirito critico - è una buona vecchia parola della lingua corrente ed è di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo carattere vitale e fecondo”[13].
 
- to; te mh; qnhta; fronei`n ( Baccanti, v. 396): Sull'incomprensibilità da parte della mente umana dei misteri della divinità si esprime anche Dante:"Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/che tiene una sustanza in tre persone./State contenti, umana gente, al quia ; ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria"[14].
E pure il suo Ulisse pecca, come Edipo, per la presunzione e l'uso eccessivo dell'intelligenza, tant'è vero che l'autore, all'inizio del canto dei consiglieri fraudolenti, afferma:"Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/quando drizzo la mente a ciò ch'i' vidi,/e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,/perché non corra che virtù nol guidi;/sì che, se stella bona o miglior cosa/m'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m'invidi"[15].
 
Ricordiamo quanto afferma il personaggio Socrate nell’Alcibiade II di Platone.
“Vedi dunque quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?” 
Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge
“E chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male (Alcibiade II 147b)”
Infine Re Lear e San Paolo.
Re Lear : “Per apprendere come veramente stiano le cose, Lear è costretto a perdere del tutto la ragione, seguendo così il modello disegnato da Paolo[16]: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per divenire sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”. La citazione paolina, non a caso, proviene proprio dal Libro di Giobbe[17][18].
 La caritas secondo l'apostolo Paolo è il valore massimo:"Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens[19], se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, però non avessi la carità, diverrei un rame risonante o un cembalo che squilla.
"Nunc autem manet fides, spes, caritas, tria haec; maior autem ex his est caritas"[20] ora dopo tutto restano fede, speranza e carità, questi tre pilastri, ma la più grande è la carità.
In Delitto e castigo Raskolnikov vorrebbe essere uno straordinario e invece impara la carità proprio dall’ambiente degradato di Marmeladov e in particolare da Sonia la prostituta che gli insegnerà pure ad amare e ad essere felice,
Dio comunque perdonerà Sonja come ha perdonato la peccatrice che ha molto amato.
La posizione di Raskolnikov quando ammira gli straordinari e vuole essere come loro è il rovescio di quella del coro delle menadi di Euripide le quali affermano di volere
tenere la mente e l’anima lontane
dagli uomini straordinari;
ciò che la massa 
più semplice crede e pratica,
questo io vorrei accettare (Baccanti, vv. 428 - 432).

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[1]Sono parole tratte, credo senza stravolgerne il senso complessivo dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e adattate al nostro discorso.

[2] Zibaldone, 4399.

 [3] Sono parole di un frammento (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.

[4] Zibaldone, 1028.

[5] Aristotele, Sull'anima, 411a 8.

[6]Canto notturno, 32 - 36.

[7]In Tolstoj Romanzi brevi , p. 304.

[8]Orazio, Odi , I, 6, 5 - 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille incapace di cedere. 

[9] Iliade , XIX, v. 423.

[10] Zibaldone, 4390.

[11] Zibaldone, 305.

[12] Guidorizzi definisce il sofovn: “una forma laica e razionale di sapienza” (Euripide, Baccanti, p. 202).

[13] A. Bonnard, La civiltà greca, p. 471.

[14]Purgatorio , III, 34 - 39.

[15]Inferno , XXVI, 19 - 22.

[16] Prima Lettera ai Corinzi 3, 18: “sapientia enim huius mundi stultitia est apud DeumhJ ga;r sofiva tou' kovsmou touvtou mwriva para; tw' qew' ejstin.

[17] Giobbe, 5, 13.

[18] Piero Boitani, Il Vangelo secondo Shakespeare, p. 47.

[19] Ep. Ad Conrinthios, I, 13, 1.

[20] Ad Corinthios, I, 13, 13.


1 commento:

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