giovedì 17 settembre 2020

Lucano XLV. Pharsalia VIII (vv. 458-500)

Potino

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Argomenti
Il perfido eunuco Potino parla tra i cortigiani del Palazzo egiziano e propone la condanna a morte di Pompeo che sta arrivando.
Gli si oppone l’eunuco onesto Acoreo ricordando i doveri di gratitudine e lealtà nei confronti di chi aveva stabilito pegni sacri con Tolomeo XII, il padre del nuovo faraone, il fanciullo Tolomeo XIII, e di Cleopatra.
Ma Potino ribatte: “exeat aula - qui vult esse pius” (493 - 494) esca dal Palazzo chi vuole essere pio.
Confronto con altri autori su questo tema: Sofocle, Machiavelli, Shakespeare, Manzoni.
 
Quindi la proposta di Pompeo venne respinta. Sicché andarono verso Cipro dove c’è il culto di Venere nata dall’onda Pafia (città di Cipro) - si numina nasci credimus - aut quemquam fas est coepisse deorum (458 - 459) ed è lecito cedere che qualche dio abbia inizio.
Da Cipro poi verso l’Egitto. Era l’equinozio di autunno quando Libra pares examinat horas, la costellazione della bilancia pesa ore uguali e ripaga alla notte invernale noctique rependit hibernae la compensazione della perdita di primavera verni solacia damni.
 Si riuniscono i monstra (v. 474) della corte egiziana di Tolomeo XIII, giovanissimo fratello di Cleopatra.
Ricordo che siamo alla fine dell’estate successiva alla battaglia di Farsalo (48 a. C.) nella quale Cesare ha sconfitto Pompeo che è fuggito dalla Tessaglia e dopo varie tappe sta arrivando in Egitto per chiedere asilo e impetrare aiuto.
 I cortigiani dei regnanti Tolomei discutono su come si debba accogliere il perdente. Il vecchio Acoreo reso mite dall’età parla per primo e ricorda la lealtà dovuta a Pompeo e i sacra pignora defuncti patris (Tolomeo XII).

“Sed melior suadere malis et nosse tyrannos - ausus Pompeium leto damnare Pothīnus” (482 - 483) ma più bravo a persuadere i malvagi e mglior intenditore dei tiranni, Potìno ebbe l’ardire di condannare a morte Pompeo.
I suoi argomenti sono ascrivibili alla categoria del “diritto del più forte”, anticipata da Tucidide e chiarita completamente da Machiavelli.
Sentiamo questo eunuco di corte dunque il cui nome (poqeinov", “desiderato”) allude a rapporti sessuali abnormi.
 Potino prevale sul vecchio eunuco onesto Acòreo il quale aveva ricordato i meriti di Pompeo verso il precedente re Tolomeo XII, la lealtà (fidem) dovuta e i sacra pignora patris (481) e i sacri pegni di amicizia stabiliti tra Magno e il padre del fanciullo Tolomeo XIII.
Il malvagio consigliere castrato Potino comincia a parlare screditando la fides. “dat poenas laudata fides, cum sustinet - inquit - quos Fortuna premit” (485 - 486) la lealtà tanto elogiata fa pagare il fio quando cerca di sostenere quelli che la malasorte schiaccia. Bisogna cioè contribuire a calpestare quelli già premuti dalla cattiva fortuna.
Questo farabutto mi ha fatto venire in mente Giordano un giornalista spesso invitato nelle televisioni che con voce da castrato inveisce contro i disgraziati. 
Dunque: “Fatis accede deisque,/et cole felices, miseros fuge” (486 - 487), mettiti a fianco del destino e degli dèi, e onora quelli di successo, stai alla larga dei disgraziati.
Insomma lasciali al largo. Questo gridano ancora gli eunuchi malvagi.
Il castrataccio (cfr. Gasbarri - Rossini L’equivoco stravagante II, 3 quando Buralicchio ingannato, dice: “pezzo di birbantaccio! Volea darmi per moglie un castrataccio!”) continua a proferire infamie con mani sporche di sangue.
Potino dice : “sidera terra - ut distant et flamma mari, sic utile recto” (Pharsalia VIII, 487 - 488), le stelle sono tanto distanti dalla terra e la fiamma dall’acqua del mare quanto l’utile da ciò che è retto.
L’utile e il giusto sono incompatibili nella prospettiva del potere mentre in quella morale devono essere sempre associati.

 

Cleante di Asso, discepolo di Zenone e, dal 262 a. C., suo successore nella guida della scuola stoica considera veramente empi quelli che separano l'utile dal giusto secondo natura: “ajsebei'" ga;r tw'/ o[nti oiJ to; sumfevron ajpo; tou' dikaivou tou''' kata; novmon cwrivzonte"” (In Clemente Alessandrino, Strom. II 22, 131).
 
Su questa linea Cicerone che nel De officiis (III, 78), scrive, come morale della favola di Gige: “quod honestum non est, id utile ut sit effici non potest, adversante et repugnante natura”, ciò che non è onesto, non può essere reso utile, poiché la natura si oppone ed è contraria.
 
Tacito: “ Feminis lugere honestum est, viris meminisse " Germania (27, 1), per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare
Potino invece insiste sulla incompatibilità tra utile e rectum, tra pietas, virtus da una parte e summa potestas da tutt’altra.
 
L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani scritta alla fine del 57 o ai primi del 58, dice ai cristiani di Roma: ogni anima sia sottoposta alle autorità superiori: infatti non c’è autorità se non da Dio: “ouj ga;r e[stin ejxousiva eij mh; ajpo; Qeou 'non est enim potestas nisi a deo” (13, 1).
 
Che sia anche dio o gli dèi dalla parte del potere? Lo dicono gli Ateniesi nel dialogo con gli abitanti dell’isola di Melo avvertendoli del diritto che ha il più forte di imporre il proprio volere ai più debole:"riteniamo infatti che la divinità, per quanto si può suppore, e l'umanità in modo evidente in ogni occasione, per necessità di natura, dove sia più forte, comandi" (Tucidide, V, 2).
I Melii non obbediranno e gli Ateniesi li massacreranno.
Euripide subito dopo scriverà e farà rappresentare le Troiane (415 a. C.)
dove Andromaca accusa i Greci che ammazzano il suo bambino di essere loro i veri barbari: “w\ bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav - tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion; (Troiane, 764 - 765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente?
La strage di Melo ed altre, verranno in mente agli Ateniesi dopo la notizia della catastrofe di Egospotami (404) in un'associazione di delitto e castigo che fece temere conseguenze terribili.

La nave di Stato Paralo giunse al Pireo di notte e subito si diffuse la conoscenza del disastro, lungo le Mura, fino ad Atene. Ai cittadini in preda al panico tornano in mente le sciagure della guerra, non solo le pene subite, ma anche quelle inflitte con la previsione di doverle espiare attraverso altre sofferenze gravi.

"Sicché quella notte nessuno dormì, non solo perché piangevano i morti, ma ancora molto di più, se stessi, ritenendo che avrebbero subito i mali che avevano inflitto ai Meli che erano coloni di Sparta, dopo averli sopraffatti con un assedio, e anche agli abitanti di Istiea, di Sicione, di Torone, di Egina, e a molti altri Greci". (Senofonte Elleniche, II, 2, 3).
 
Il “castrataccio”[1] di Lucano continua a separare il potere dalla giustizia con queste parole: “Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta - incipit, evertitque arces respectus honesti “ (Pharsalia, VIII, 489 - 490), va in malora tutta la forza degli scettri se comincia a considerare quello che è giusto, e il riguardo dell’onestà rovescia le rocche. 
 
 - Plutarco nella Vita di Solone ricorda che il legislatore ateniese aveva detto: “to; i[son povlemon ouj poiei`” (14, 4), l’uguaglianza non provoca guerra. Della tirannide invece il legislatore ateniese aveva detto che è una bella fortezza ma non ha via di uscita (kalo;n me;n ei\nai th;n turannivda cwrivon, oujk e[cein d ‘ ajpovbasin”, 14, 8).
 
Libertas scelerum est quae regna invisa tuetur - sublatusque modus gladiis” (Pharsalia, VIII, 491 - 492) è la libertà di perpetrare delitti che mantiene i poteri odiati e la misura tolta alle spade. Il loro agire deve essere smisurato.
 
Manzoni riprende il tovpo" della violenza del potere nell' Adelchi quando il protagonista ferito consola il padre sconfitto:"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto.." (V, 8). E' il diritto del più forte.
Parini in Il Mattino (prima parte di Il Giorno) aveva già ricordato questo “dritto” stravolto: “e ben fu dritto/se Cortes e Pizzrro umano sangue/non istimar quel ch’oltre l’Oceàno/scorrea le umane membra, onde tonando/e fulminando/, alfin spietatamente/balzaron giù da’ loro aviti troni/re messicani e generosi Incassi;/poiché nuove così venner delizie,/o gemma degli eroi, al tuo palato!” (vv. 149 - 157).
 
Torniamo all’eunuco di Lucano dall’ideologia molto simile a quella di chi vuole lasciare morire nel mare i migranti, profughi che fuggendo da tanti orrori ne trovano altri da noi. Con il covid si sono aggiunti gli anziani lasciati o addirittura fatti morire nelle case di riposo.
Facere omnia saeve - non impune licet, nisi cum facis. Exeat aula - qui vult esse pius” (492 - 493), commettere ogni crudeltà impunemente non è lecito, se non quando lo fai. Esca dal palazzo chi vuole essere pio.
 
Lo dichiara Agamennone nell’Aiace di Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide e pietà sono incompatibili. 
Machiavelli: “Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere" (Il Principe XVIII. )
Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[2]. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture, - Tell them that God bids us do good for evil: - And thus i clothe my naked villainy - With odd old ends stol’n forth of Holy Writ, - And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro,e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere. Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini " la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita[3]: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".
 
Quindi: “Virtus et summa potestas - non coeunt; semper metuet quem saeva pudebunt” (Pharsalia VIII, 494 - 495), virtù e sommo potere non possono stare insieme; avrà sempre paura chi si vergognerà delle azioni crudeli.
L’eunuco suggerisce a Tolomeo XIII di restituire Nilo e Faro a sua sorella condannata se lui è stanco di regnare “Nilumque Pharomque - si regnare piget, damnatae redde sorori” 500. Cleopatra ovviamente.
 
 Pesaro 17 settembre 2020.
giovanni ghiselli

  



[1] Cfr. Gasbarri - Rossini L’equivoco stravagante II, 3 quando Buralicchio ingannato, dice: “pezzo di birbantaccio! Volea darmi per moglie un castrataccio!”.

[2] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.

[3]F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana , 2, p. 107

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