Filippo Corveddu, Formaggi |
Argomenti
Bisogni “fabbricati” e bisogni
davvero necessari. Leopardi con Epicuro
Leopardi e il formaggio parmigiano.
Gli Italiani considerati quali custodi di musei. Non basta una sola vita per
imparare la lingua greca.
L’italiano e il greco sono aggregati
di lingue. Come deve essere la traduzione. Il bello con semplicità. Il
brutto dell’affettazione.
Leopardi: “il capro nuoce anzi
distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto
se vi si lasciano appressare… Insomma i bisogni che l’uomo si è fabbricati,
anche i più semplici, rurali ed universali, e propri anche della gente più
volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura
dell’uomo non dev’essere solo di procacciare il necessario a questi bisogni,
con infiniti ostacoli, ma nel provvedere all’uno, guardare assai, perché quella
provvisione nuoce ad un altro bisogno. E pure è certo che più facilmente
potremo annoverare le arene del mare di quello che trovare una sola
contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e
manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di
qualunque animale, vegetabile ec.”[1].
Si può commentare utilizzando
l' Epistola a Meneceo di Epicuro[2]:
tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n), alcuni sono naturali (fusikaiv), altri vani (kenaiv), e tra i naturali alcuni sono anche
necessari (ajnagkai'ai, 127); ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di
mano:"to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130) . Ciò che è vano invece è
difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
Leopardi e i formaggi
Leopardi metterebbe il desiderio del
parmigiano tra i desideri non necessari.
Un formaggio poco naturale quindi
per niente signorile è considerato dal Recanatese il parmigiano. Trascrivo
alcune frasi di una lettera al padre perché tale “forma” emiliana non mi piace
Cibi che non fanno onore alle mense
«Carissimo signor padre, Ricevo la
cara sua del 31 gennaio. Già fin dal primo di questo mese il freddo qui, grazie
a Dio, è molto scemato, anzi abbiamo avuto qualche giorno quasi di primavera:
io ho ripreso le mie passeggiate campestri, e mi pare di essere rinato. Non ho
ancora veduto Fusello. Il dono che ella mi manda mi sarà carissimo, e mi
servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che
l’olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che
qui si stimano più del parmigiano, il quale non ardisce di comparire in una
tavola signorile: bensì vi comparisce una forma di formaggio della Marca,
quando se ne può avere, ed è cosa rara…»
Bologna, 8 febbraio 1826
Aggiungo che un cibo peggiore del
parmigiano, un anticibo è costituito dalle lasagne che si mangiano in Emilia o
i calamari surgelati poi fritti che disonorano le mense di Pesaro e di Fano. Ma
è tutta questione di gusti
Italiani custodi di musei. (Pieni
di opere d’arte “neo greche”)
Leopardi considera malinconicamente
la reputazione che hanno gli Italiani all’estero di essere “tanti custodi di un
museo”, quando va bene: “Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia
della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non
considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come
tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima
che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma
agli usufruttuarii, per così dire, delle diverse antichità, luoghi,
ruine, musei ec. (31 Marzo 1827)”[3].
Non basta una sola vita per imparare
la lingua greca.
Sul tempo richiesto dal greco
sentiamo Leopardi: “E come le scienze non hanno limiti conosciuti né forse
arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade
della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, né si può
conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, né basta l’avere
spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista
perfetto (Firenze, 20 Settembre, 1827)”[4].
Tradurre il greco. L’italiano e il
greco sono aggregati di lingue. Nel Fedro di Platone
coesistono tre lingue.
Leopardi ha tradotto, di
Isocrate, il Nicocle, A Demonico, A Nicocle e
l’Areopagitico. Vediamo come ha reso il pensiero del pincipe
dell’oratoria sul culto della parola (Nicocle 9): “E a dire di
questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno,
si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e
pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare”.
Ecco il testo greco e la mia
traduzione“eij de; dei' sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~
eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~ prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon,
alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta,
kai; mavlista crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”, se si deve tirare le somme su
questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con intelligenza viene
creato senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle azioni e dei
pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che hanno la più
grande capacità di pensiero[5].
Leggiamo anche alcune considerazioni
del Recanatese sulla traduzione perfetta: “La perfezion della traduzione
consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e.
greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in
tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è
ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone, 2134). La
lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una
lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre
“di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta
facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua
latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta
anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è
maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera
di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e
reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e
965).
“Amava moltissimo l’italiano perché
era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue
piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni
stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia
di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti.
Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima
nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e
Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[6].
Ma su queste tre lingue sentiamo di
nuovo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà
della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una
lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso
scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di
Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle
parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e
propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di
Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone,
2717).
Il bello con semplicità. Il brutto
dell’affettazione
Tucidide, II, 40, 1.
Difatti amiamo il bello con
semplicità e amiamo la sapienza senza mollezza; ci serviamo della ricchezza più
quale occasione per agire che come vanteria di parole, e l’essere povero non è
vergognoso ammetterlo per alcuno di noi, ma è vergognoso piuttosto non evitarlo
con l’operosità.
Leopardi avverte che la
semplicità viene fraintesa dagli imbecilli: “E’ curioso vedere, che gli uomini
di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere
semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze, 31 Maggio 1831)”[7].
Sentiamo il Nostro che elogia la
semplicità e condanna l’affettazione, la quale ne è l’antitesi: “La semplicità
è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento,
negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama il semplice (…) La semplicità è bella
perché spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una
cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo
perché è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli
uomini, non a se stessa, e alla natura”[8].
Cicerone consiglia una
semplicità elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De
officiis [9]
": quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem
dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis.
Adhibenda praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae
fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in
quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est " ( I, 130), viene lodata la
naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell'aspetto deve essere conservata
mediante il bel colore dell'incarnato, il colore con gli esercizi fisici.
Inoltre deve essere impiegata un'eleganza non sfacciata né troppo ricercata,
basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile. Lo stesso criterio si
deve adottare nel vestire dove, come nella maggior parte delle cose, la via di
mezzo è la migliore
Pirra di Orazio è simplex
munditiis (Odi I, 5, 5)
E' pure degna di menzione la polemica di Schopenhauer contro la filosofia arzigogolata e
oscura delle università, fatta di "ghirigori che non dicono nulla, e
offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più
comprensibili"[10].
bravissimo molto interessante e culturale
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