martedì 22 settembre 2020

Lucano IL. Pharsalia IX (vv. 218-367)

Marco Porcio Catone

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Argomenti

Molti pompeiani vogliono arrendersi a Cesare ma Catone li arringa apostrofandoli e li fa vergognare fino a pentirsi. I luoghi del mito divenuti terra desolata. Excursus su gli storiografi antichi e il mito. Tucidide, Cesare, Asinio Pollione, Erodoto, Livio, Tacito, Arriano.

 

Fremit interea discordia vulgi - intanto rumoreggia la discordia del volgo (IX, 217) castrorum bellique piger post funera Magni (218)

Il capo dei Cilici afferrò le insegne di Catone e fuggì. Catone secutus litus in extremum (221) gli disse: “ Magnum Fortuna removit: - iam pelago, pirata redis” - 223 - 224, la Fortuna ha tolto di mezzo Magno e tu torni subito a fare il pirata nel mare.

Uno dei soldati che si preparavano all’imbarco chiede a Catone - da veniam - 227: loro amavano Pompeo, non la guerra civile. Ora causa nostra perit (230) la nostra causa è perduta. Perierunt tempora vitae, mors eat in tutum - 233 - 234, i tempi della vita sono andati in malira, almeno la morte sia messa al sicuro.

sub iura togati - civis eo” (238 - 239), mi sottopongo al potere legale di un cittadino con la divisa di Roma.

 

La toga è la divisa del romano in pace, è "quell'indumento così fortemente marcato, dal punto di vista dell'identità e dell' "appartenenza" romana, da costituire una vera e propria "uniforme de la citoyennetè" (F. Dupont, La vie quotidienne du citoyen romain sous la république, Hachette, Paris, 1989, p. 290.). La toga costruisce il corpo del cittadino alla maniera di una veste rituale…" M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 345.

 

 Ora è il momento di obbedire a Cesare: quisquis Magno vivente secundus, - hic mihi primus erit (239 - 240) chiunque sia stato il secondo quando Pompeo ea vivo, questo per me sarà il primo.

Pensando a Pompeo dice: “te solum in bella secutus - post te fata sequar” 242 - 243. Tutto è tenuto dalla fortuna di Cesare: Fortuna cuncta tenentur - Caesaris (244 - 245). Solo Cesare può offrire salvezza ai vinti.

Morto Pompeo, la guerra civile è una scelleratezza: Pompeio scelus est bellum civile perempto (248), finché fu vivo era fides. Cesare è un

console romano e anche tu Catone dovresti seguire il potere legittimo - Sic ille profatus - insiluit puppi iuvenum comitante tumultu 251 - 252, detto questo saltò sulla nave mentre lo accompagnava il tumultuare dei giovani.

 “ indiga serviti fervebat litore plebes” (Lucano, Pharsalia, IX, v. 254), la plebe, bisognosa di farsi schiava, brulicava sulla spiaggia

 

Catone replica che dunque hanno combattuto non per lo stato romano ma per dei padroni - pro dominis - 257 Ora bella fugis quaerisque iugum cervice vacanti (261) fuggi le guerre e cerchi un giogo con il collo il collo che ne è privo e non sai vivere senza un re. Nunc causa pericli - digna viris (261 - 262), ora la causa del pericolo è degna di uomini veri.

Ora: cum prope libertas, quando la libertà è vicina.

Unum Fortuna reliquit - iam tribus e dominis (265 - 266).

Pudeat! 266 c’è da vergognarsi! O famuli turpes, domini post fata prioris - itis ad heredem (274 - 275) servitori sconci che dopo la morte del padrone di pima ne cercate l’erede.

 

Intanto rapiatur in undas - infelix coniunx Magni prolesque Metelli (275 - 276) si trascini in mezzo alle onde l’infelice sposa di Magno e figlia di Metello, e conducete a morte i figli di Pompeo e Ptolomaei vincite munus - superate il dono di Tolemeo. Riceverete compensi anche per la mia testa!

Il solo fuggire è delitto da ignavi ignavum scelus est tantum fuga (283)

 

Al sentire queste parole di Catone i fuggitivi tornarono indietro come le api quando sentono il suono del bronzo dei cembali di Frigia (culto di Cibele) e il pastore senza preoccupazioni gioisce sull’erba hiblea siccome ha salvato la sua ricchezza - gaudet in Hyblaeo securus gramine pastor –divitias servasse suas (290 - 291). Cfr. Virgilio Georgica IV, 64 - 66.

 

Catone rimise in esercizio quegli animi che non avevano imparato a sopportare la calma. Prima marcia sulla sabbia, poi l’attacco a Cirene che l’aveva chiuso fuori. Catone vince ma non si vendica: poenaque de victis sola est vicisse Catoni (299). Poi vuole muovere verso i regni di Giuba ma le Sirti si frapponevano La Natura ha lasciato le Sirti in dubbio tra mare e terra Syrtes in dubio pelagi terraeque reliquit cun daret mundo primam figuram

E’ una invia sedes (307) sede impraticabile: le acque sono interrotte da guadi e la terra è scoscesa fino al fondo dove pecipitano i flutti che hanno superato la sabbia. La natura ha abbandonato il luogo e lo ha reso inservibile. Oppure è stato Titano che nutrendo i suoi raggi con l’acqua del mare Titan ponto sua lumina pascens (313) ha risucchiato le acque vicine alla zona torrida –aequora subduxit zonae vicina perustae 314

Tuttora il mare lotta con Febo che lo vuole asciugare - “et nunc pontus adhuc Phoebo siccante repugnat”. 315

 

La siccità minaccia il territorio vicino alle Sirti. Motivo ecologico

Già ora l’onda che nuota sopra la terra è poca e l’acqua che manca per largo spazio è destinata a sparire - nam iam brevis unda superne - innatat et late periturum deficit aequor 317 - 318.

Le navi in mare vengono assalite da una tempesta ventosa. Molte imbarcazioni si incagliano. Alcune arrivano alla palude di Tritone (in Tunisia), altre rimangono distrutte. Tritone che si sente quando soffia con la sua conchiglia piena di vento ama quel luogo e lo ama Pallade patrio quae verice nata che nata dalla testa del padre (350), toccò la Libia prima delle terre nam proxima caelo est, - ut probat ipse calor 351 - 352

Minerva dunque vide il suo volto nell’acqua calma di un lago, poggiò i piedi sulla riva “et se dilecta Tritonida dixit ab unda” 354 e dall’onda amata chiamò se stessa Tritonide.

Vicino scorre il Lethon che, come raccontano, trae l’oblio dalle acque dell’inferno - infernis, ut fama, trahens oblivia venis (356). Vicino c’è il giardino delle Esperidi “insopiti quondam tutela draconis” (357) una volta in custodia di un serpente insonne. Ma ora è un pauper hortus, spoliatis frondibus dopo che le fronde sono state spogliate (delle mele da Ercole.)

E’ invido chi richiama i poeti al vero invidus (…) qui vates ad vera vocat - 359 - 360. “annoso qui famam derogat aevo” 359, chi toglie al tempo antico quanto i racconti favolosi

Fuit aurea silva, ci fu un bosco d’oro e rami pesanti di tesori e di biondi germogli rami graves divitiis et fulvo germine, e danze di vergini guardiane del bosco splendente vigineusque chorus nitidi custodia luci e il drago condannato all’insonnia che abbracciava gli alberi incurvati dal metallo brillante (l’oro delle mele).

L’Alcide Ercole portò via il valore agli alberi e la fatica al bosco - abstulit arboribus pretium nemorique laborem (365), quindi consegnò al tiranno argivo Euristeo i pomi splendenti.

 

Excursus su gli storiografi antichi e il mito

 

Anche diversi storiografi, pur dopo Tucidide il quale presenta la sua opera come priva di mito (I, 22, 4), non se la sentono di eliminare dalla loro opera le favole belle che illudono gli uomini.

 

Sentiamo dunque un capitolo metodologico della Storia di Tucidide: “ la mancanza del favoloso di questi fatti to; mh; muqw'de" aujtw'n verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente che li giudichino utili quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la natura umana". - " I 22, 4.

Tucidide è l’inventore della storia politica e saranno Polibio che ripete formule ticididèe, e Giulio Cesare a seguire le sue orme nella razionalità. Su Polibio un’altra volta

 

Nella sua opera sulla Guerra civile, Giulio Cesare non fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio del 49: il passaggio del Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.

Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico - giuridiche della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I, 7)”[1].

Ne De bello civiliCaesar apud milites contionatur , e denuncia il fatto che nella repubblica si sia introdotto novum exemplum…ut tribunicia intercessio armis notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto dei tribuni veniva censurato e soffocato con le armi. Perfino Silla che aveva spogliato la tribunicia potestas, tamen intercessionem liberam reliquisse. Bisognava dunque andare a Roma per ripristinare la legalità.

Insomma la più famosa fanfaronata di Cesare non ce l’ha raccontata lui stesso.

 

“Asinio, che ancora portava nell’animo il ricordo fascinoso del capo, e tuttavia voleva a suo modo esercitare una critica “indipendente”, dipinse invece un “passaggio del Rubicone” in cui il lettore ritrovava ancora l’ansia e la gravità di quella decisione suprema”. Il racconto di Asinio lo ricostruiamo attraverso storici più tardi[2]. “Tra il racconto di Cesare, scritto forse verso il 46 a. C., e quello di Asinio, che cominciò le sue Historiae verso il 30, corrono quindici anni, o più; ma la differenza non è solo nelle date; è più significativa e radicale; Cesare, scrittore “tucididèo”, ossia razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa impresa…le Historiae di Asinio potevano riflettere la vera situazione, in maniera più adeguata, senza preoccupazioni apologetiche…Il Cesare autentico è però un incontro della razionalità tucididèa…con la passione politica, che lo animò in questi momenti decisivi”[3].

 

Cesare “Non permetteva, anche se ciò possa deluderla, che il suo cuore disponesse della sua testa”[4].

 

Erodoto fa questa dichiarazione metodologica a proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana: “tau'ta eij mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti a proposito di un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me; n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.

 

 Tito Livio nel suo proemio scrive: “Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decōra fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat” (Praefatio, 6), i racconti tramandati che risalgono al periodo precedente la fondazione della città e quelli addirittura anteriori alla città da fondare, racconti che si addicono più alle narrazioni poetiche che ai seri documenti storici, non ho intenzione di confermare né di smentire. Alle antichità si concede questa licenza di rendere più venerabili i primordi delle città mescolando l’umano con il divino.

 

Quindi Curzio Rufo: “Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (Historiae Alexandri Magni, 9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto. Quindi, a proposito del cadavere di Alessandro che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, non ancora degenerato: “Traditum magis quam creditum refero (10, 10, 12).

 

Poi Tacito, Historiae, II, 50.

Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul

gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis traditisque

demere fidem non ausim. die, quo Bedriaci certabatur, avem

invisitata specie apud Regium Lepidum celebri luco conse -

disse incolae memorant, nec deinde coetu hominum aut cir -

cumvolitantium alitum territam pulsamve, donec Otho se ipse

interficeret; tum ablatam ex oculis: et tempora reputantibus

initium finemque miraculi cum Othonis exitu competisse.

Come reputerei lontano dalla serietà dell’opera iniziata andare in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori con delle invenzioni, così non oserei togliere credito a tradizioni diffuse.

Nel giorno in cui si combatteva a Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò in un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato né scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio coincide con la fine di Otone. Siamo nell’aprile del ’69.

Pure Arriano a proposito della morte di Alessandro riporta una notizia alla quale non crede, della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che il macedone, sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua assunzione in cielo, in quanto nato da un dio. Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere nato dio. Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino credibili pista; a raccontarle. (Anabasi di Alessandro, 7, 27, 3)

 

giovanni ghiselli



[1] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199 - 200.

[2] P. e. Svetonio, Caesaris vita, 32.

[3] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.

[4] B. Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare, p. 22.

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