Marco Porcio Catone
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Argomenti
Molti pompeiani vogliono arrendersi a Cesare ma Catone li arringa apostrofandoli e li fa vergognare fino a pentirsi. I luoghi del mito divenuti terra desolata. Excursus su gli storiografi antichi e il mito. Tucidide, Cesare, Asinio Pollione, Erodoto, Livio, Tacito, Arriano.
Fremit interea discordia vulgi - intanto
rumoreggia la discordia del volgo (IX, 217) castrorum bellique piger
post funera Magni (218)
Il capo dei Cilici afferrò le insegne di Catone e fuggì. Catone secutus
litus in extremum (221) gli disse: “ Magnum
Fortuna removit: - iam pelago, pirata redis” - 223 - 224, la Fortuna ha
tolto di mezzo Magno e tu torni subito a fare il pirata nel mare.
Uno dei soldati che si preparavano all’imbarco chiede a Catone - da
veniam - 227: loro amavano Pompeo, non la guerra civile. Ora causa
nostra perit (230) la nostra causa è perduta. Perierunt
tempora vitae, mors eat in tutum - 233 - 234, i tempi della vita sono
andati in malira, almeno la morte sia messa al sicuro.
“sub iura togati - civis eo” (238 - 239), mi sottopongo al potere
legale di un cittadino con la divisa di Roma.
La toga è la divisa del romano in
pace, è "quell'indumento così fortemente marcato, dal punto di vista
dell'identità e dell' "appartenenza" romana, da costituire una vera e
propria "uniforme de la citoyennetè" (F. Dupont, La vie
quotidienne du citoyen romain sous la république, Hachette, Paris, 1989, p.
290.). La toga costruisce il corpo del cittadino alla maniera di una veste
rituale…" M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 345.
Ora è il momento di obbedire a Cesare: quisquis Magno vivente
secundus, - hic mihi primus erit (239 - 240) chiunque sia stato il
secondo quando Pompeo ea vivo, questo per me sarà il primo.
Pensando a Pompeo dice: “te solum in bella secutus - post te fata sequar”
242 - 243. Tutto è tenuto dalla fortuna di Cesare: Fortuna cuncta tenentur -
Caesaris (244 - 245). Solo Cesare può offrire salvezza ai vinti.
Morto Pompeo, la guerra civile è una scelleratezza: Pompeio scelus
est bellum civile perempto (248), finché fu vivo era fides.
Cesare è un
console romano e anche tu Catone dovresti seguire il potere legittimo - Sic
ille profatus - insiluit puppi iuvenum comitante tumultu 251 - 252,
detto questo saltò sulla nave mentre lo accompagnava il tumultuare dei giovani.
“ indiga serviti fervebat litore plebes” (Lucano, Pharsalia,
IX, v. 254), la plebe, bisognosa di farsi schiava, brulicava sulla
spiaggia
Catone replica che dunque hanno combattuto non per lo stato romano ma per
dei padroni - pro dominis - 257 Ora bella fugis quaerisque iugum
cervice vacanti (261) fuggi le guerre e cerchi un giogo con il collo
il collo che ne è privo e non sai vivere senza un re. Nunc causa
pericli - digna viris (261 - 262), ora la causa del pericolo è degna
di uomini veri.
Ora: cum prope libertas, quando la libertà è vicina.
Unum Fortuna reliquit - iam tribus e dominis (265 - 266).
Pudeat! 266 c’è da vergognarsi! O famuli turpes,
domini post fata prioris - itis ad heredem (274 - 275) servitori
sconci che dopo la morte del padrone di pima ne cercate l’erede.
Intanto rapiatur in undas - infelix coniunx Magni prolesque Metelli (275
- 276) si trascini in mezzo alle onde l’infelice sposa di Magno e figlia di
Metello, e conducete a morte i figli di Pompeo e Ptolomaei vincite
munus - superate il dono di Tolemeo. Riceverete compensi anche per la mia
testa!
Il solo fuggire è delitto da ignavi ignavum scelus est tantum fuga (283)
Al sentire queste parole di Catone i fuggitivi tornarono indietro come le
api quando sentono il suono del bronzo dei cembali di Frigia (culto di Cibele)
e il pastore senza preoccupazioni gioisce sull’erba hiblea siccome ha salvato
la sua ricchezza - gaudet in Hyblaeo securus gramine pastor –divitias
servasse suas (290 - 291). Cfr. Virgilio Georgica IV, 64 -
66.
Catone rimise in esercizio quegli animi che non avevano imparato a
sopportare la calma. Prima marcia sulla sabbia, poi l’attacco a Cirene che
l’aveva chiuso fuori. Catone vince ma non si vendica: poenaque de
victis sola est vicisse Catoni (299). Poi vuole muovere verso i regni di
Giuba ma le Sirti si frapponevano La Natura ha lasciato le Sirti in dubbio tra
mare e terra Syrtes in dubio pelagi terraeque reliquit cun daret mundo
primam figuram
E’ una invia sedes (307) sede impraticabile: le acque sono
interrotte da guadi e la terra è scoscesa fino al fondo dove pecipitano i
flutti che hanno superato la sabbia. La natura ha abbandonato il luogo e lo ha
reso inservibile. Oppure è stato Titano che nutrendo i suoi raggi con l’acqua
del mare Titan ponto sua lumina pascens (313) ha risucchiato
le acque vicine alla zona torrida –aequora subduxit zonae vicina perustae 314
Tuttora il mare lotta con Febo che lo vuole asciugare - “et nunc pontus
adhuc Phoebo siccante repugnat”. 315
La siccità minaccia il territorio vicino alle Sirti. Motivo ecologico
Già ora l’onda che nuota sopra la terra è poca e l’acqua che manca per
largo spazio è destinata a sparire - nam iam brevis unda superne - innatat
et late periturum deficit aequor 317 - 318.
Le navi in mare vengono assalite da una tempesta ventosa. Molte
imbarcazioni si incagliano. Alcune arrivano alla palude di Tritone (in
Tunisia), altre rimangono distrutte. Tritone che si sente quando soffia con la
sua conchiglia piena di vento ama quel luogo e lo ama Pallade patrio
quae verice nata che nata dalla testa del padre (350), toccò la Libia
prima delle terre nam proxima caelo est, - ut probat ipse calor 351
- 352
Minerva dunque vide il suo volto nell’acqua calma di un lago, poggiò i
piedi sulla riva “et se dilecta Tritonida dixit ab unda” 354 e dall’onda
amata chiamò se stessa Tritonide.
Vicino scorre il Lethon che, come raccontano, trae l’oblio dalle acque
dell’inferno - infernis, ut fama, trahens oblivia venis (356).
Vicino c’è il giardino delle Esperidi “insopiti quondam tutela draconis” (357)
una volta in custodia di un serpente insonne. Ma ora è un pauper
hortus, spoliatis frondibus dopo che le fronde sono state spogliate
(delle mele da Ercole.)
E’ invido chi richiama i poeti al vero invidus (…) qui
vates ad vera vocat - 359 - 360. “annoso qui famam derogat aevo”
359, chi toglie al tempo antico quanto i racconti favolosi
Fuit aurea silva, ci fu un bosco d’oro e rami pesanti di tesori e di
biondi germogli rami graves divitiis et fulvo germine, e danze
di vergini guardiane del bosco splendente vigineusque chorus nitidi
custodia luci e il drago condannato all’insonnia che abbracciava gli alberi
incurvati dal metallo brillante (l’oro delle mele).
L’Alcide Ercole portò via il valore agli alberi e la fatica al bosco - abstulit
arboribus pretium nemorique laborem (365), quindi consegnò al tiranno
argivo Euristeo i pomi splendenti.
Excursus su gli storiografi antichi e il mito
Anche diversi storiografi, pur dopo Tucidide il quale presenta la sua opera
come priva di mito (I, 22, 4), non se la sentono di eliminare dalla loro opera
le favole belle che illudono gli uomini.
Sentiamo dunque un capitolo metodologico
della Storia di Tucidide: “ la mancanza
del favoloso di questi fatti to; mh; muqw'de" aujtw'n verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente
che li giudichino utili quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti
accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o
molto simili, secondo la natura umana". - " I 22, 4.
Tucidide è l’inventore della storia politica e saranno Polibio che ripete
formule ticididèe, e Giulio Cesare a seguire le sue orme nella razionalità. Su
Polibio un’altra volta
Nella sua opera sulla Guerra civile, Giulio Cesare non
fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la
sua grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio del 49: il passaggio
del Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora:
“il dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il
Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più
“indipendente” e acuto: Asinio Pollione.
Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico - giuridiche
della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I,
7)”[1].
Ne De bello civili, Caesar apud milites
contionatur , e denuncia il fatto che nella repubblica si sia
introdotto novum exemplum…ut tribunicia intercessio armis
notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto dei tribuni veniva
censurato e soffocato con le armi. Perfino Silla che aveva spogliato la tribunicia
potestas, tamen intercessionem liberam reliquisse. Bisognava dunque andare
a Roma per ripristinare la legalità.
Insomma la più famosa fanfaronata di Cesare non ce l’ha raccontata lui
stesso.
“Asinio, che ancora portava nell’animo il ricordo fascinoso del capo, e
tuttavia voleva a suo modo esercitare una critica “indipendente”, dipinse
invece un “passaggio del Rubicone” in cui il lettore ritrovava ancora l’ansia e
la gravità di quella decisione suprema”. Il racconto di Asinio lo ricostruiamo
attraverso storici più tardi[2].
“Tra il racconto di Cesare, scritto forse verso il 46 a. C., e quello di Asinio,
che cominciò le sue Historiae verso il 30, corrono quindici
anni, o più; ma la differenza non è solo nelle date; è più significativa e
radicale; Cesare, scrittore “tucididèo”, ossia razionale, non poteva
intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa impresa…le Historiae di
Asinio potevano riflettere la vera situazione, in maniera più adeguata, senza
preoccupazioni apologetiche…Il Cesare autentico è però un incontro della
razionalità tucididèa…con la passione politica, che lo animò in questi momenti
decisivi”[3].
Cesare “Non permetteva, anche se ciò possa deluderla, che il suo cuore
disponesse della sua testa”[4].
Erodoto fa questa dichiarazione
metodologica a proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con
penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato
in un’isola posta davanti alla costa africana: “tau'ta eij mh;
e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2), queste cose non so se
sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti a proposito di
un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav
legovmena, peivqesqaiv ge me; n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire
le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.
Tito Livio nel suo
proemio scrive: “Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decōra
fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare
nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana
divinis primordia urbium augustiora faciat” (Praefatio, 6), i
racconti tramandati che risalgono al periodo precedente la fondazione della
città e quelli addirittura anteriori alla città da fondare, racconti che si
addicono più alle narrazioni poetiche che ai seri documenti storici, non ho
intenzione di confermare né di smentire. Alle antichità si concede questa
licenza di rendere più venerabili i primordi delle città mescolando l’umano con
il divino.
Quindi Curzio Rufo: “Equidem
plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec
subducere, quae accepi” (Historiae Alexandri Magni, 9, 1, 34), per
conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la
sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle
che ho ricevuto. Quindi, a proposito del cadavere di Alessandro che giaceva nel
sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, non ancora
degenerato: “Traditum magis quam creditum refero” (10, 10,
12).
Poi Tacito, Historiae,
II, 50.
Ut conquirere fabulosa et fictis
oblectare legentium animos procul
gravitate coepti operis crediderim,
ita vulgatis traditisque
demere fidem non ausim. die, quo
Bedriaci certabatur, avem
invisitata specie apud Regium
Lepidum celebri luco conse -
disse incolae memorant, nec deinde
coetu hominum aut cir -
cumvolitantium alitum territam
pulsamve, donec Otho se ipse
interficeret; tum ablatam ex oculis:
et tempora reputantibus
initium finemque miraculi cum
Othonis exitu competisse.
Come reputerei lontano dalla serietà
dell’opera iniziata andare in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori
con delle invenzioni, così non oserei togliere credito a tradizioni diffuse.
Nel giorno in cui si combatteva a
Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò in
un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato né
scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che
svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla
vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio
coincide con la fine di Otone. Siamo nell’aprile del ’69.
Pure Arriano a proposito
della morte di Alessandro riporta una notizia alla quale non crede, della quale
anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che il
macedone, sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire
accreditando la fama di una sua assunzione in cielo, in quanto nato da un dio.
Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere
nato dio. Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste
notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le
ignori, più che per il fatto che esse sembrino credibili pista; a raccontarle. (Anabasi di
Alessandro, 7, 27, 3)
giovanni ghiselli
[1] S. Mazzarino, Il pensiero
storico classico, 2, p. 199 - 200.
[2] P. e. Svetonio, Caesaris vita,
32.
[3] S. Mazzarino, Il pensiero
storico classico, 2, p. 201.
[4] B. Brecht, Gli affari del
signor Giulio Cesare, p. 22.
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