mercoledì 9 settembre 2020

Leopardi e i classici 10. Conferenza di Cento (12 settembre ore 17)

Tacito

Argomenti
Storiografia greca e latina delle vicende successive a Vespasiano
La sapienza silenica che nega la vita e la negazione della negazione
Lingua parlata e lingua scritta

Fino a quando la lingua greca “durò nel suo primo e ottimo stato, diversità tra lingua parlata e scritta, fu piccola” (850): Erodoto leggeva in pubblico le sue storie e veniva applaudito. Tito Livio e Tacito non sarebbero piaciuti alla moltitudine. Le orazioni scritte di Cicerone sono diverse da come le recitava.

 Tacito, Livio e Dante
“Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio l’anno 17, nacque Tacito … verso il 54 di Cristo, cioè 37 anni dopo. Quanto progresso potevano aver fatto le cognizioni universali ec. e lo spirito umano generalmente, in sì poco tempo? Eppure quale differenza di profondità. Anzi si può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno” (1353).
Lo stile di Dante è il più forte che si possa concepire “perché ogni parola presso di lui è un’immagine” (Zibaldone,2043). Nello stile di Tacito ogni parola è un pensiero.

Maggior durata della storiografia greca rispetto a quella latina
“In proposito della prontissima decadenza della letteratura latina, e della lunghissima conservazione della greca, è cosa molto notabile, come dopo Tacito, cioè dall’imperio di Vespasiano in poi, (fino al quale si estendono le (Zibaldone, 2732) sue storie la storia latina restò in mano dei greci, e le azioni nostre furono narrate da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima della traslocazione dell’imperio a Costantinopoli, e dopo questa da Procopio, Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la storia del nostro imperio da Vespasiano in poi, sarebbe quasi cieca, non avendo altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli Augustipiene di errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di Orosio e d’altri tali più miserabili ancora”.
Gli scrittori miserabili delle biografie sono Svetonio e quelli cui la tradizione attribuisce l’Historia Augusta (IV sec.Elio Lampridio, Giulio Capitolino etc.)

Alcuni pensieri "attuali" di Giacomo Leopardi in attesa del film Il giovane favoloso di Martone.
Dopo averlo visto: un film meno che mediocre. E' guardabile grazie al protagonista Elio Germano che è bravo.
Livio

La sapienza Silenica
Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti fa scattare incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui:"zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai, - - kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.865 - 867), invidio i morti, quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni malignità a Euripide, sostiene, malignamente, che la resipiscenza di Admeto è fasulla:" Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[1].

 L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è silenicamente manifestata anche da Leopardi:" In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[2].

Leopardi, nella Storia del genere umano , non manca di ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie sileniche:" Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll'estinto".

 Detti memorabili di Filippo Ottonieri: “Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato”

Leopardi usa la massima monostica, e quasi silenica " o{n oiJ qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo" (fr. 583 Jäkel) " di Menandro, definito "principe" della commedia nuova nello Zibaldone (3487).
La gnwvmh fa da epigrafe al Canto Amore e Morte in questa traduzione:
" Muor giovane colui ch'al cielo è caro".

Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello del 1824, il mago Malambruno dice al diavolo Farfarello: “Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere”.
E Farfarello conclude: “dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela”

 Lucrezio compiange la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre vagito:"puer (...) nudus humi iacet, infans, indigus omni - vitali ausilio, cum primum in luminis oras - nixibus ex alvo matris natura profudit,/ vagituque locum lugubri complet, ut aequumst/cui tantum in vita restet transire malorum "[3].
Cfr. Leopardi : “Nasce l’uomo a fatica,/ed è rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento /per prima cosa; e in sul principio stesso/la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato” (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia del 1829, vv. 39 - 44)

Cicerone ci racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale catturato da Mida, e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo ricco e potente quanto Creso, gli diede questo insegnamento:" non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[4], non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto.

Seneca, per consolare Marzia che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana, insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data all'insaputa, e conclude: "Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui "[5], pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, compiuta una breve età, tornare al più presto all'integrità originaria.

Petronio nel Satyricon: dove, se si fanno bene i conti, il naufragio è dappertutto[6] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est" (115, 17), attribuisce il desiderio di morire alla Sibilla:"Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n qevlw - "(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli - Sibilla, cosa vuoi? - rispondeva lei - morire voglio".

La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà, dall'impotenza e dalla sterilità: "Itaque dii pedes lanatos habentquia nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi giacciono nell'abbandono.
E più avanti (129, 6): "adulescens, paralysin cave", giovane, guardati dalla paralisi.

La misura apollinea e omerica costituisce un antidoto a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi qavnaton ge parauvdaOdissea, XI, 488) poiché sarebbe disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su tutte le ombre svigorite del regno dei morti.

Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[7], Od. XI, 489)"[8].

Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga; r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi sono comprabili e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[9].

Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14 Ottobre 1828)”[10].
Le anime dei morti evocate da Odisseo nella Nevkuia sono “teste svigorite”, ajmenhna; kavrhna (Odissea, XI, 29)
Con Platone però tutto cambia

Concludo con una formulazione dostoevskijana di questa sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “aggiunse subito dopo”[11].

Pesaro 9 settembre 2020 ore 9, 35 giovanni ghiselli
p.s.

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[1]Mangiare Dio , p. 127.
[2]Dialogo di Tristano e di un amico .
[3]De rerum natura , V, 222 - 225.
[4]Tusculanae I, 48.
[5]Consolatio ad Marciam , 22.
[6] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est ",
(115, 17)
[7] infinito atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).
[8]F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[9] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17 - 18,
[10] Zibaldone, 4399.
[11] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

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