Tacito |
Argomenti
Storiografia greca e latina delle vicende
successive a Vespasiano
La sapienza silenica che nega la vita e la
negazione della negazione
Lingua parlata e lingua scritta
Fino a quando la lingua greca “durò nel suo primo e ottimo stato, diversità
tra lingua parlata e scritta, fu piccola” (850): Erodoto leggeva in pubblico le
sue storie e veniva applaudito. Tito Livio e Tacito non sarebbero piaciuti alla
moltitudine. Le orazioni scritte di Cicerone sono diverse da come le recitava.
Tacito, Livio e Dante
“Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio l’anno 17,
nacque Tacito … verso il 54 di Cristo, cioè 37 anni dopo. Quanto progresso
potevano aver fatto le cognizioni universali ec. e lo spirito umano
generalmente, in sì poco tempo? Eppure quale differenza di profondità. Anzi si
può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno”
(1353).
Lo stile di Dante è il più forte che si possa concepire “perché ogni parola
presso di lui è un’immagine” (Zibaldone,2043). Nello stile di Tacito
ogni parola è un pensiero.
Maggior durata della storiografia greca rispetto
a quella latina
“In proposito della prontissima decadenza della letteratura latina, e della
lunghissima conservazione della greca, è cosa molto notabile, come dopo Tacito, cioè dall’imperio di
Vespasiano in poi, (fino al quale si estendono le (Zibaldone, 2732) sue
storie la storia latina restò in
mano dei greci, e le azioni nostre furono narrate da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima
della traslocazione dell’imperio a Costantinopoli, e dopo questa da Procopio,
Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la storia del nostro imperio da Vespasiano in
poi, sarebbe quasi cieca, non
avendo altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli
Augusti, piene di errori di
fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di
Orosio e d’altri tali più miserabili ancora”.
Gli scrittori miserabili delle biografie sono Svetonio e quelli cui la
tradizione attribuisce l’Historia Augusta (IV sec.Elio Lampridio,
Giulio Capitolino etc.)
Alcuni pensieri "attuali" di Giacomo Leopardi in attesa del
film Il giovane favoloso di Martone.
Dopo averlo visto: un film meno che mediocre. E' guardabile grazie al
protagonista Elio Germano che è bravo.
Livio |
La sapienza Silenica
Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti fa scattare
incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo
sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per
lui:"zhlw' fqimevnou", keivnwn
e[ramai, - - kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.865 -
867), invidio i morti,
quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni
malignità a Euripide, sostiene, malignamente, che la resipiscenza di Admeto è
fasulla:" Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini
piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[1].
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è
silenicamente manifestata anche da Leopardi:"
In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un
gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di
loro. Oggi non invidio più né
stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e
solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la
fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro
di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei
tempo a risolvermi"[2].
Leopardi, nella Storia del genere umano , non manca di
ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie
sileniche:" Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità,
e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli
uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume
riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono,
che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e
morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano
congratulandosi coll'estinto".
Detti memorabili di Filippo Ottonieri:
“Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto
sia più spediente il non esser nato”
Leopardi usa la massima monostica, e quasi silenica " o{n oiJ
qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo" (fr. 583 Jäkel) " di Menandro, definito "principe"
della commedia nuova nello Zibaldone (3487).
La gnwvmh fa da epigrafe
al Canto Amore e Morte in questa traduzione:
" Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello del 1824, il
mago Malambruno dice al diavolo Farfarello: “Di modo che, assolutamente
parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere”.
E Farfarello conclude: “dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo,
io sono qui pronto per portarmela”
Lucrezio compiange
la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre
vagito:"puer (...) nudus humi iacet, infans, indigus omni - vitali
ausilio, cum primum in luminis oras - nixibus ex alvo matris natura profudit,/
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst/cui tantum in vita restet transire
malorum "[3].
Cfr. Leopardi : “Nasce l’uomo a fatica,/ed è rischio di morte il
nascimento./Prova pena e tormento /per prima cosa; e in sul principio stesso/la
madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato” (Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia del 1829, vv. 39 - 44)
Cicerone ci
racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale
catturato da Mida, e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo ricco
e potente quanto Creso, gli diede questo insegnamento:" non nasci
homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[4], non nascere per l'uomo è di gran
lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto.
Seneca, per consolare
Marzia che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana,
insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data
all'insaputa, e conclude: "Itaque, si felicissimum est non nasci,
proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui "[5],
pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo,
compiuta una breve età, tornare al più presto all'integrità originaria.
Petronio nel Satyricon: dove, se si fanno bene i conti, il
naufragio è dappertutto[6] "Si bene calculum
ponas, ubique naufragium est" (115, 17), attribuisce il desiderio di
morire alla Sibilla:"Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis,
vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv
qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n
qevlw - "(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi
io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli - Sibilla,
cosa vuoi? - rispondeva lei - morire voglio".
La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà,
dall'impotenza e dalla sterilità: "Itaque dii pedes lanatos habent, quia
nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18), così gli dèi
hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi giacciono
nell'abbandono.
E più avanti (129, 6): "adulescens, paralysin cave",
giovane, guardati dalla paralisi.
La misura apollinea e omerica costituisce un antidoto a tale pessimismo:
Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la
bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille
nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi
qavnaton ge parauvda, Odissea, XI, 488) poiché sarebbe
disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su
tutte le ombre svigorite del regno dei morti.
Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille nella Nevkuia dice al
figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io
preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un
uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su
tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con
impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a
Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[7], Od. XI, 489)"[8].
Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha
lo stesso valore della vita: “ouj ga; r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude
la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi sono comprabili e pure
bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de;
yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni
indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli
Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo
destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio,
dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro
introdotto da un grande poeta”[9].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore
de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti
non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno
dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un
esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14
Ottobre 1828)”[10].
Le anime dei morti evocate da Odisseo nella Nevkuia sono “teste svigorite”, ajmenhna; kavrhna (Odissea, XI, 29)
Con Platone però tutto cambia
Concludo con una formulazione dostoevskijana di questa sapienza
antisilenica: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “
dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima
dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su
una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con
intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e
rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita,
per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che
morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma
vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è
un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “aggiunse subito dopo”[11].
Pesaro 9
settembre 2020 ore 9, 35 giovanni ghiselli
p.s.
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(115, 17)
[7] infinito atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come
vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley,
"Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla
terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes era il
fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di
Odisseo , p. 39).
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