NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna   -  Tutte le date link per partecipare da casa:    meet.google.com/yj...

martedì 15 settembre 2020

Lucano XLIII. Pharsalia VIII (vv. 244-367)

Lesbo - il campo profughi di Moria dopo l’incendio
il 10 settembre 2020. (Annalisa Camilli)

PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT 
HELLENIKA QUI GREEK QUI


Argomenti

I Lesbi manifestano fedeltà a Pompeo e alla sua causa e lo invitano a rimanere nell’isola. Sono stati conquistati dal pudor, dalla probitas, dalla modestia casti vultus di Cornelia. Pompeo ne è commosso e lieto. Ma vuole ripartire. La felicità dell’uomo di potere viene smontata da Lucano e da altri autori tra cui Euripide, Seneca, Tasso. Un esempio di metodo comparativo

Pompeo che a Farsalo non aveva pianto, a Lesbo pianse.

La folla di Mitilene parla al comandante sconfitto: gli chiede di restare: iacet insula Ponto, - Caesar eget ratibus (118 - 119), l’isola è situata nel mare e Cesare è senza navi.

Gli offrono i tesori dei templi, soldati. “Quantum valet, utĕre Lesbo” (124) fai uso di Lesbo per quanto vale. Pompeo rispose tali pietate virorum - laetus in adversis et mundi nomine gaudens esse fidem lieto per tale affetto degli uomini nelle avversità e gioiendo a nome del mondo perché la lealtà esiste ancora.

Ho fatto venire qui mia moglie dice: hic mihi Roma fuit (133) qui per me è stata Roma. Dopo la sconfitta sono venuto da voi. Ora devo viaggiare. Ho deciso di ricercare in quali terre ci sia la legge divina e dove il crimine - Nam quaerere certum est fas quibus in terris, ubi sit scelus (141 - 142). Chiede al nume, se ce n’è ancora uno con lui di fargli incontrare altri popoli simili a quelli di Lesbo.

Pompeo fece imbarcare Cornelia e i Lesbi piangono per lei che è piaciuta a tutti con il pudor e la probitas, la modestia casti vultus, mai arrogante, mai nulli gravis hospita (157).

Quando il suo destino era ancora in piedi - stantis adhuc fatis, vixit quasi coniuge victo” 158. Viveva cioè modestamente.

Il sole ea caduto nel mare fino a metà del suo disco infuocato. Poi si fa notte. Pompeo è incerto verso quale parte del mondo dirigersi Si consulta con il pilota della nave doctus taciti servator Olympi con il dotto osservatore del cielo silenzioso. Il comandante vinto rimane incerto: ordina solo di restare lontano dalla Tessaglia. “cetera da ventis” (190). Il resto affidalo ai venti

Nunc portum Fortuna dabit (192), ora sarà la fortuna a darci un porto. Il pilota fece girare le vele e virò la poppa verso sinistra torsit et in laevum puppim dedit (194). Manovrò come l’auriga moderator equorum (199) il quale costringe il cocchio ad avvicinarsi alla meta senza urtarla –cogit inoffensae currus accedere metae - (201) Risorge il sole mostrando le terre e coprendo le stelle: “Ostendit terras Titan et sidera texit” (202).

I superstiti di Farsalo vanno incontro a Pompeo: primo è il figlio Sesto, procĕrum mox turba fidelis - la folla dei maggiorenti. La Fortuna non gli aveva portato via i re al suo servizio.

Ordina infatti a Deiotaro tetrarca della Galazia di andare verso Oriente dal re dei Parti e di ricordargli che Pompeo aveva sostenuto gli Arsacidi frenando l’ira romana per il massacro di Carre.

Dovrà chiedere all’alleato di attraversare l’Eufrate: vinci Roma volet, (238), Roma vorrà essere vinta. Deiotaro indossa la veste strappata a un servo: “in dubiis tutum est inopem simulare tyranno” 241 nelle situazioni incerte è cosa sicura per il tiranno fingersi povero.

Il vero povero conduce una vita quanto meno preoccupata rispetto ai padroni del mondo - quanto igitur mundi dominis securius aevum - verus pauper agit! (242 - 243)


Come viene smontata la felicità dell’uomo di potere

Seneca maledice il potere.

Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente: "Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis" (Oedipus,vv.7 - 8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!

Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.

Per Seneca, " per questo uomo di potere… il potere è un nucleo irriducibile di male - insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[1].

"Il tema fondamentale di tutto il teatro senecano… è che potere e regno, condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies[2], la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell'Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo"[3].

Anche il Vangelo di Matteo sembra denunciare il potere come nucleo di male: Satana mostra a Gesù Cristo omnia regna mundi (pavsa~ ta;~ basileiva~, 4, 4, 8), tutti i regni del mondo e glieli offre: “Haec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris” (tau`tav soi pavnta dwvsw) , te li darò tutti, se tu prostrandoti mi adorerai.

Ebbene, come avrebbe potuto fare tale offerta, se tutti i regni del mondo non fossero stati suoi?  

Questo tema è presente nella tragedia greca.

Ione sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de; - luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621 - 628).

E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea: torna nell' Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli onori li invidio di meno"(17 - 20).

 Del resto l'invidia del potente per l'umile si ritrova parecchi secoli più tardi in Guerra e Pace (p. 577): "Discutiamo pure - disse il principe Andrej - Tu parli di scuole - continuò, e piegava un dito - parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui - disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto - dalla sua condizione d'animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l'unica felicità possibile sia la felicità animale... Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me..."

Questo topos è presente nella letteratura italiana. Nell'episodio di Erminia tra i pastori della Gerusalemme liberata un vecchio, pentito delle "inique corti" e fattosi rusticus, spiega a Erminia, giunta in fuga la notte precedente dall'accampamento cristiano sulle rive del Giordano, in quale luogo sereno e lontano dalla guerra si trovi:"O sia grazia del Ciel che l'umiltade/d'innocente pastor salvi e sublime,/o che, sì come folgore non cade/in basso pian ma su l'eccelse cime,/così il furor di peregrine spade/sol de' gran re l'altere teste opprime,/né gli avidi soldati a preda alletta/la nostra povertà vile e negletta.// Altrui vile e negletta, a me sì cara/che non bramo tesor né regal verga,/né cura o voglia ambiziosa o avara/mai nel tranquillo del mio petto alberga./Spengo la sete mia ne l'acqua chiara,/che non tem'io che di venen s'asperga,/e questa greggia e l'orticel dispensa/cibi non compri a la mia parca mensa"[4].

Nel Riccardo III di Shakespeare, il duca di Gloucester, non ancora re, simula una ripugnanza del potere per dissimularne la brama: lord Rivers, cognato del re Edoardo IV, gli dice che lui e i suoi figli hanno sempre seguito il re, dunque” so should we, you, if you should be our king”, faremmo lo stesso con voi, se foste re. E Riccardo risponde: “If I should be? I had rather be a pedlar! - Far be it from my heart, the thought thereof ” (I, 3), se fossi re? Preferirei essere un venditore ambulante! Sia lontano dal mio cuore un pensiero del genere!

Questa battuta rientra nella falsità del Potere. Magari svilupperemo anche questo topos.



[1] G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9

[2] Fedra 1127.

[3] Gianna Petrone, op. cit., p. 360.

[4] Gerusalemme liberata, VII, ottave 9 - 10.

Nessun commento:

Posta un commento