sabato 5 settembre 2020

Debrecen 1979. 36. La corsa festosa dopo la tempesta

József Attila

La corsa festosa dopo la tempesta

Il vento scuoteva i rami dei salici piegati in basso e tuffati nell’acqua fluttuante del lago ancora agitato dal vento. Si muovevano in modo strano come i remi stregati di un vascello fantasma.
Pensai che la vita, tolto il dolore irragionevole della lettera che non arrivava, era varia, piena e ricca di ogni bellezza. “Ma sì, mi dicevo - se ne ha trovato un altro, uno del suo stampo, tanto meglio per lei e pure per me. Negli ultimi tempi aveva cercato di ingelosirmi, per sottomettermi. Mezzucci  da comarelle che non ottengono il risultato sperato con un uomo della mia levatura. Io merito un amore senza sospetti, pensieri maliziosi, ignobili partite a scacchi, menzogne triviali.
Di pulizia e chiarezza ho bisogno”.
Il vento scuoteva le fogli facendomi cadere le gocce di pioggia  sulla testa che ne veniva ribattezzata. Il cielo era terso come non lo vedevo da tempo. In quell’atmosfera pulita Ifigenia non aveva più posto.
Alcuni ragazzini passavano con le biciclette dentro grandi pozze di acqua sollevando alti spruzzi. A casa avevo la mia Colnago che mi aspettava per altre scalate e per i giri autunnali nella campagna autunnale quando il grano emerge rinato e rinnova la vita.
Un amore vecchio, cattivo e malato per una donna che non mantiene le promesse è un cancro: antiquus amor cancer est[1]. Una orribile relazione: operabile,  da operare. Mi mossi verso lo stadio per correre i 5000 metri dovuti alla mia salute fisica e spirituale.
La pista di terra rossa era bagnata e pesante: non pensavo di fare un buon tempo. Invece presi subito un ritmo elevato. Al posto delle gambe snelle sentivo di avere delle ali. Schivavo le pozze dove si abbeveravano i cani, saltavo quelle più piccole con vespe, calabroni e farfalle. Talora dovevo allungare il percorso scostandomi dalla corsia più interna, intima al prato di un verde lucente. Correvo bene: procedevo con pathos e con logos, con tutta la potenza che avevo e sapevo di avere, con gioia. Il terriccio bagnato che ogni tanto mi schizzava addosso, non mi rallentava. Un quarto di giro oltretutto lo correvo lottando contro il vento, ma ero così forte e fiducioso in me stesso che avrei assorbito un uragano, come gli uomini dell’avvenire immaginati da József Attila: “essi saranno la mitezza e la forza”.
Impiegai 19 minuti e 27 secondi: il mio record fino a quel momento. Lo dedicai alle mie donne dell’avvenire.

giovanni ghiselli    


[1] Cfr. Satyricon, 42.

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