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Pompeo vorrebbe dirigersi a Oriente per chiedere aiuto ai Parti ma
Lentulo lo sconsiglia.
Il determinismo geografico. La guerra “scitica” perduta da Dario (intorno
al 514 a. C.) , Napoleone (1812) e Hitler (1942)
Pompeo continua la navigazione Ephesonque relinquens et placidi Colophona maris (244 - 245) poi rasenta le rocce schiumeggianti della piccola Samo - spumantia parvae - radit saxa Sami (245 - 246). Poi passa accanto a Cnido claramque relinquit - sole Rhodon, e Rodi luminosa di sole. O pure famosa per il culto del Sole. Il Colosso di Rodi era una statua di Apollo cinta dai raggi. Si avvicina alla Panfilia. Entra nella piccola Faselide con pochi abitanti . Poi riparte e vede il Tauro. Costeggia la Cilicia di cui aveva sconfitto i pirati. Entra nel porto di Siedra ancora nella Cilicia dove parla ai maggiorenti. Fa coraggio a se stesso e ai suoi dicendo: “Non omnis in arvis - Emathiis cecidi, nec sic mea fata premuntur - ut nequeam relevare caput cladesque receptas - excutere” (266 - 269).
Crede di
potere scuotere dalla propia testa la catastrofe subita.
Cfr. "non
omnis moriar " di Orazio, Carm. III, 30, 6)
Mario si rialzò dalla rovina libica, mentre me pulsum leviore manu fortuna tenebit? (271). Ho ancora mille navi e forze sparpagliate, ho grande fama e un grande nome. Tolomeo XIII è sospetto per la giovane età aetas Niliaci nobis suspecta tyranni est 281.
Ardua quippe
fides robustos exigit annos (282) invero una lealtà difficile richiede maturità. Il Mauro Giuba è
ambiguo.
Pompeo
guarda all’Oriente, oltre l’Eufrate, che è sotto un cielo diverso, un polus
alter che volge notti e giorni dell’Assiria
Et polus
Assyrias alter noctesque diesque - vertit (292) hanno un mare separato dal nostro
dall’onda di altro colore discolor unda (293), un mare rosso.
Pugnandi sola vuluptas (294) amano combattere.
Come scriverà Tacito a proposito dei Germani cui sembra ignavia guadagnarsi con il sudore ciò che può essere conquistato con il sangue: "pigrum quin immo et iners videtur sudore adquirere quod possis sanguine parare "(Germania, 14).
Sono bravi a cavalcare e con l’arco. I Parti hanno usato bene le frecce tratte dalle faretre scitiche uccidendo Crasso. Frecce che non hanno solo la forza del ferro ma sono imbevute di veleno saturantur tela veneno 304. vulnera parva nocent fatumque in sanguine summo est (305), la morte è già nel sangue vicino alla pelle. Contro Cesare manderò gli orientali cuncta revolvens - vitae fata meae (316 - 317), se svolgo all’indietro tutto il destino della mia vita, dall’Oriente ho sempre ricevuto venerazione.
Ma Pompeo sentì mormorare i capi. Lentulo lo accusa di volere asservirsi ai Parti: Solos tibi, Magne, reliquit - Parthorum Fortuna pedes?” 334 - 335, la Fortuna ti ha lasciato solo i piedi dei Parti? Intende per prostrarsi davanti a loro di voler diventare Parthorum famulus (339).
Ogni popolo
che nasce tra le brine del nord omnis in Arctois populus quicumque
pruinis nascitur è indomitus bellis et mortis amator (363 - 364),
invece andando verso Oriente – quidquid ad Eoos tractus mundique
teporem - ibitur emollit gentes clementia caeli ( 365 - 366),
dovunque si andrà verso plaghe d’Oriente e il tepore del mondo, la clemenza del
clima rende molli i popoli.
Cfr. il
determinismo geografico
C'è una corrispondenza fra la terra, il clima e
gli uomini.
Il capitolo finale delle Storie di Erodoto contiene un monito per i
Persiani attribuito a Ciro, il fondatore dell'impero. Alcuni sudditi gli
avevano proposto di trasferire il popolo persiano dalla sua terra
"piccola, scabra e montuosa" in un'altra "migliore".
L'occasione era offerta dalla vittoria sul re dei Medi Astiage. Ma Ciro li
scoraggiò dicendo che "da luoghi molli di solito nascono uomini molli
("filevein ga;r ejk tw'n malakw'n cwvrwn malakou;" a[ndra"
givnesqai", IX, 122, 3): infatti non è della stessa terra
produrre frutti meravigliosi e uomini valenti in guerra. Sicché i Persiani si
allontanavano desistendo, vinti dal parere di Ciro, e preferirono comandare
abitando una terra infeconda piuttosto che essere servi di altri coltivando
pianure fertili". Così
si chiudono le Storie di Erodoto
Là vedi - illic
vides - laxas vestes - vesti larghe et fluxa virorum
velamenta e veli svolazzanti rivestiti dai maschi (Pharsalia,
VIII, 366 - 367).
La guerra scitica da Erodoto a Tolstoj. Guerra sottovalutata da Dario,
Napoleone e Hitler
Nel IV libro delle sue Storie Erodoto racconta la fallita spedizione del
grande re Dario contro gli Sciti descrivendo i costumi di questo
popolo, e il loro modo di guerreggiare, facendo terra bruciata, non molto
diverso dalla strategia dei Russi descritti da Tolstoj che in Guerra e
pace definisce ancora " piano di guerra scitica" quello
"mirante ad attirare Napoleone nelle regioni interne della Russia"
(p. 1031).
Erodoto
racconta che, mentre il grande re avanzava oltre l'Istro, gli Sciti si
ritiravano facendo terra bruciata. Quindi mandarono un araldo che portava come
doni a Dario: "o[rniqav te kai; mu'n kai; bavtracon kai;
oji>stou;" pevnte"(IV, 131), un uccello, un topo, una rana e
cinque frecce. Il re dei Persiani interpretò questi doni facendo associazioni
barocche e sbagliate: i nemici significavano che intendevano consegnargli se
stessi, la terra e l'acqua ("didovnai sfeva" te
aujtou;" kai; gh'n te kai; uJvdwr", 132)
congetturandolo in questo modo ("eijkavzwn th'/de"): il topo vive nella terra cibandosi come l'uomo, la rana
nell'acqua, mentre l'uccello è molto simile al cavallo, e con le frecce gli
Sciti consegnavano la propria forza. Ma era una congettura arzigogolata cui
Gobria, uno dei Sette che avevano abbattuto il mago, ne contrappose una
semplice e giusta. Gli Sciti infatti volevano dire: se divenuti uccelli non
volerete nel cielo, o Persiani, o diventati topi non penetrerete sotto terra, o
divenuti rane non salterete nelle paludi, non tornerete a casa colpiti da
queste frecce ("oujk ajponosthvsete ojpivsw uJpo; tw'nde tw'n
toxeumavtwn ballovmenoi", 132, 3). S. Mazzarino commenta questi capitoli
scrivendo: "Mai alcun racconto d'età classica è andato più innanzi sulla
via del simbolismo (...) nel racconto dei doni degli Sciti si passa dal
concreto all'astratto (...) non c'è una semplice rappresentazione, come
nei suvmbola monetali; c'è un rapporto fra diversi simboli,
l'uno connesso con l'altro. Qui non si tratta di intendere un simbolo, come
quando si riconosce un suvmbolon monetale.
Si tratta, invece, di intendere il linguaggio di quei simboli nei loro
rapporti. Perciò la spiegazione è incerta; e il simbolismo dei doni scitici
appare ad Erodoto, per le opposte esegesi di Dario e Gobria, per eccellenza
ambiguo (...) Al limite, potremmo persino confrontarlo con il simbolismo degli
indovini"[1].
[1]Il pensiero storico classico , I, pp. 144 - 145.
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