giovedì 10 settembre 2020

Debrecen 1979. 39. La giornata variopinta come la vita

Aranybika terasz
La giornata variopinta come la vita

Mercoledì 8 agosto fu una giornata variopinta: ricca di casi diversi tra loro, senza però lettera alcuna da Ifigenia. In compenso conobbi meglio Isabella, la più fine e umanamente carina delle due ragazze napoletane arrivate a Debrecen dopo l’esame di maturità. Aveva lo stile della persona bene educata che parla con rispetto e ascolta con attenzione dando maggiore importanza a quanto sente dire che alle proprie parole, poi rilancia gli argomenti ascoltati con partecipazione.
Quando, per esempio, mi chiese cosa facessi a Debrecen oltre studiare, e le dissi, tra l’altro, che almeno una volta al giorno correvo i 5000 metri allo stadio, mi domandò se volevo essere cronometrato con precisione da lei.
Non fraintendermi lettore malizioso: questa ragazzina non aveva alcuna mira erotica nei miei confronti né io nei suoi: forse cercava semplicemente uno stimolo per fare ginnastica anche lei, grassottella com’era, e voleva piacere di più al suo Diego rimasto a Napoli che correva lui pure. L’avrei conosciuto l’anno successivo e l’avrei sfidato sui 5000 metri in quella stessa pista di Debrecen. Racconterò questo agone che vinsi contro tanti ragazzi italiani e stranieri pur da corridore annoso quale già ero, largamente decano del gruppo di agonisti.
Parlavo volentieri con questa ragazzina siccome avvertivo in lei qualità di educazione e di spirito che a Ifigenia difettavano. Sicché quella mattina provai meno dolore del solito per l’attesa fallita della posta promessa.
La sofferenza dell’espresso mancato venne in buona parte anestetizzata dalla presenza della nuova giovanissima amica. Non ero ancora sicuro però che il male mio fosse operabile, cioè che Ifigenia potesse essermi estirpata dall’anima senza che io ne morissi. Stavo assai meglio comunque, grazie a Isabella e andai nella così detta “terrazza” dell’Aranybika a bere una birra e osservare il passaggio di femmine e maschi di tutte le età.
Quella terasz era di fatto un recinto ligneo che circondava sedie con tavolini metallici, bianchi, bucherellati e si trovava sul marciapiede di fianco all’ingresso del grande hotel della città.
Osservavo con simpatia le persone che passavano. Soprattutto le giovani donne che sorridevano benevolmente alla vita. Alcune anche a me riempiendomi di contentezza.
Volevo obliare il mostro che non mi scriveva, Scilla o Cariddi o Ecate, o Erittón cruda che fosse.
Dopo una ventina di minuti andai all’Hungaria, il primo locale dove ero entrato appena giunto a Debrecen, tanti anni prima, nel 1966, sul far della notte, spaurito, sprovveduto e sperduto in quel paese di cui nulla sapevo e non conoscevo alcuna persona.
Là dentro avevo trovato tanta gente immersa nel fumo e nel chiasso dell’ora di cena.
Nel 1979 ci entrai di nuovo e sedetti. Mi tornò davanti agli occhi il mio aspetto spaventato di allora: la paura di perdermi, di non trovare un ruolo in quel paese e nella vita. Uno spavento che esasperavo per potere capirlo a fondo e , quindi, esorcizzarlo. Per lo stesso motivo tredici anni più tardi mi lasciavo tormentare da una donna di bella presenza e di dubbio valore: volevo capire, arrivare a capire quello di cui più avanti sarei stato sicuro: che non ricevere quella lettera e soffrirne era meglio che riceverla ed esserne contento perché continuare ad amare quella donna portava alla sciagura . Vincere peius erat, citando Lucano[1]. Sarebbe stato il trionfo della banalità, della volgarità, della morte.
 
giovanni ghiselli


[1] Pharsalia, VII, 706

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