venerdì 4 settembre 2020

Leopardi e i classici 2. Conferenza di Cento (12 settembre ore 17)

Zibaldone

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La poetica sull’indefinito

Nello Zibaldone di Leopardi leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» (1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto corale, a più voci, entra in questa poetica del vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804).

La brevità necessaria.
Leopardi apprezza molto anche la brevità degli autori. “Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).

“Non era molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente sa con dieci parole dire meglio che uno sciocco con cento”[1].

L’Anonimo Sul sublime sconsiglia il polisindeto, la ripetizione delle congiunzioni copulative, poiché queste smussano e fanno cadere l'aspro incalzare delle passioni (Sul Sublime, 21). Impacciare la passione con le congiunzioni è come legare le membra di chi corre.

La semplicità, l'essenzialità elegante è distintiva dello stile stesso di Orazio poeta. Lo si può ricavare da queste parole di Nietzsche: "Non ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue quel che lì è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni, questo maximum, in tal modo realizzato, nell'energia dei segni - tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia diventa in paragone qualcosa di troppo popolare - nent'altro che loquacità sentimentale"[2].

Il bello e l’utile.
Il kalovn e il sumfevron: cfr. la Medea di Euripide dove Giasone "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi all’ex amante fellone, beffeggiandolo.

Leopardi in Il pensiero dominante del 1831 condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59 - 64). Giasone ricaverà dolore dal suo privilegiare l’utile.
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi del 1835:" anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar (...) sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61 - 67).

La terapia del rovesciamento: mettersi nei panni (o nei piedi degli altri).
Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”[3].

Nella commedia L’arbitrato (Epivtreponte") di Menandro (342 - 391), Carisio, il marito che si crede tradito, rinuncia all’intransigenza nei confronti della moglie Panfile dalla quale crede di essere stato tradito. C’è stato un equivoco e lui prima ancora di sapere come sono andate le cose liquida il presunto tradimento subito come un "infortunio involontario della donna"(ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594), dice.
 Il protagonista di questa commedia ripropone la formula antica della dovxa macchiata, però ma poi la supera, dicendo ironicamante ( ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwnL’arbitrato, v. 588), io l’uomo che non fa errori, badando alla reputazione.
 Un’espressione che anticipa il Vangelo di Giovanni:"chi di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon (8, 7).
Nel testo evangelico non si tratta di un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei portano al tempio una donna còlta in adulterio (mulierem in adulterio deprehensam , 8, 3) e chiedono al Cristo, che insegnava in quel luogo, se dovesse essere lapidata secondo la legge mosaica. Lo dicevano per metterlo alla prova e magari poterlo accusare. Gesù allora si diede a scrivere con il dito sulla terra. E siccome lo incalzavano, il Redentore, rizzatosi, disse loro:" qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per terra. Tutti gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la assolse, come tutti gli altri, aggiungendo:"vade et amplius iam noli peccare " (8, 11), vai e non peccare più.

Nella nostra breve vita mortale recitiamo parti diverse durante le diverse età.

Leopardi: “Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere (…) di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza ecc.”[4].

Le quattro parti della vita in Orazio
Orazio nell' Ars poetica[5] distingue le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita. Dobbiamo ricordarcene noi insegnanti per avvicinarci alla comprensione dei nostri ragazzi.
Dunque:"aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), devi considerare bene i costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie età: il puer il quale gestit paribus colludere (159), smania di giocare con i suoi compagni, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi l' imberbus iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Più avanti negli anni, conversis studiis aetas animusque virilis/quaerit opes et amicitias, inservit honori (vv. 166 - 167), cambiate le inclinazioni, l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Poi c'è il vecchio: "difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum" (vv. 173 - 174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi. 

Sentiamo anche Shakespeare che distingue sette ruoli nella vita umana: " All the world's a stage - And all the men and women merely players" (As you like it [6], II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti della vita umana". Segue la descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell'innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".

La fine della recita di Augusto
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti - e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.
La “corta buffa”[7] era giunta al termine.

Epitteto afferma che noi siamo solo attori nel dramma della vita, poiché il regista che assegna le parti è un altro: allora “il tuo compito è “uJpokrivnasqai provswpon kalovn” recitare bene la parte, ma sceglierla è affare di un altro: “ejklevxasqai d j aujto; allou” (Manuale, 17)

Pesaro 4 settembre ore 17, 40 giovanni ghiselli

p. s
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[1] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 176.
[2] Crepuscolo degli idoli, Quel che debbo agli antichi, 1.
[3] Zibaldone, 1376.
[4] Zibaldone, 1473.
[5] Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[6] 1599 - 1600.
[7] Dante, Inferno, VII, 61.

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