lunedì 28 settembre 2020

Lucano LVIII. Pharsalia X (X vv. 1-52). Cesare, Alessandro Magno, i consoli romani e Napoleone

Cesare e Alessandro

Argomenti

Cesare va a ispirarsi sulla tomba di Alessandro Magno. Lucano e Seneca quali detrattori del condottiero macedone. Lo rimpiccioliscono come farà Tolstoj con Napoleone. Tito Livio confronta Alessandro con i consoli vissuti al tempo del macedone. I Romani hanno conseguito vittorie più meritevoli su nemici più forti dei rammolliti Persiani e degli sdilinquiti Indiani battuti dal Macedone.

 

Cesare dunque sbarcò sulle sabbie maledette dell’Egitto e subito “pugnavit fortuna ducis fatumque nocentis - Aegypti” (3 - 4) la fortuna del duce si scontrò con il destino del colpevole Egitto.

Cesare discordia sensit pectora - et ancipites animos si accorse che discordi erano i petti e divisi in due parti gli animi dal rumoreggiare della folla fremitu vulgi (11) che si lamentava che i fasci e il diritto romano venissero inseriti nei propri.

Cfr. le guerre per esportare la democrazia o i costumi discinti tra popoli parte dei quali non ne voleva sapere.

Comprese inoltre Magnumque perisse non sibi non era morto a proprio vantaggio. Tum, vultu semper celante pavorem, scese nell’antro scavato per la tomba di Alessandro.

Illic Pellaei proles vesana Philippi, - felix praedo, iacet, terrarum vindice fato - raptus” (20 - 22) lì giace il figlio pazzo di Filippo di Pella, trascinato via dal destino vendicatore delle terre - desolate da lui. I suoi resti non dovrebbero stare sacratis adytis in una cella consacrata ma spargenda totum per orbem avrebbero dovuto essere sparsi per tutto il mondo. Però la Fortuna pepercit - manibus risparmiò il cadavere (23 - 24).

Leggiamo ora il ribaltamento dell’arcanum imperii indicato nella parte precedente (Pharsalia IX, 1076 - 1078) .

Lui è “non utile mundo - editus exemplo, terras tot posse sub uno - esse viro” (X, 25 - 27), un non utile esempio per il mondo di come tante terre possano sottostare a un solo uomo.

Alessandro disertò le spelonche dei suoi avi, despexit Athenas, disprezzò Atene vinta da suo padre, “perque Asiae populos fatis urguentibus actus” (30) spinto dal destino che lo incalzava, humana cun strage ruit (31) si precipitò in mezzo ai popoli dell’Asia con strage di uomini.

Mescolò fiumi sconosciuti con il sangue: con quello dei Persiani l'Eufrate, degli Indiani il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum - gentibus (35 - 36), stella infausta per i popoli.

Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: "occurrit suprema dies, naturaque solum - hunc potuit finem vaesano ponere regi (41 - 42).

La natura è più selettiva e aristocratica di qualsiasi società umana.

 

Nel De beneficiis [1] Seneca presenta Alessandro come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculi Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : lui era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator. E’ il lato buono di Ercole che ha pure un dark side.

Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus, oblitus non ferocissima tantum, sed ignavissima quoque animalia timeri ob malum virus" (I, 13, 3).

Il Macedone era meno ricco di Diogene al quale poteva offrire meno di quanto egli poteva rifiutare (V, 4, 4). Alessandro era povero poiché non si accontentava mai: “tantum illi deest quantum cupit” (VII, 2, 6).

Cfr. Napoleone in Guerra e pace di Tolstoj.

Tolstoj spiega i successi di Napoleone che era "un uomo senza convinzioni, senza consuetudini, senza tradizioni, senza nome, e che non è neppure francese" come necessari perché potesse compiersi "il movimento di carattere militare dei popoli europei da oriente a occidente"[2].

Poi doveva esserci il movimento inverso, allora "improvvisamente, al posto di quei casi e di quella genialità , che in modo così progressivo lo hanno guidato finora, con una serie ininterrotta di successi, verso lo scopo prestabilito, si profilano una quantità incalcolabile di casi contrari, dal raffreddore di Borodino al gelo e alla scintilla che incendia Mosca; e invece della genialità , appaiono una stupidità e una viltà senza ragioni"[3].

 

“Napoleone è uno dei soggetti classici di biografia in quanto reputato personaggio sicuramente ‘decisivo’, eppure per il Tolstoj di Guerra e pace è quasi una marionetta perché la storia è fatta dalla somma degli infiniti e contraddittori voleri delle masse”[4].

  

Alessandro Magno dunque fu Terrarum fatale malum (Pharsalia X, 34) mescolò fiumi ignoti, l’Eufrate dei Persiani e il Gange degli Indiani con il sangue - e fu sidus iniquum - gentibus (36 - 37), stella ostile al genere umano.

 

Il Macedone, se fosse vissuto più a lungo sarebbe andato verso il tramonto del globo seguendo la curvatura della terra - “isset in occasus mundi devexa secutus” (39) ma occurrit suprema dies (41) gli andò contro l’ultimo giorno e la natura potuit finem vaesano ponere regi (42), potè imporre un termine al re pazzo. Non migliore è il giudizio di Lucano su Giulio Cesare, altro massacratore di genti, compresa la propria, finito male lui stesso.

Alessandro nullo herede relicto - totius fati lacerandas praebuit urbes (44 - 45) senza lasciare un erede del suo intero destino, offrì ai successori città da sbranare.

 In Oriente Alessandro è stato signore degli Arsacidi, quindi molto più bravo dei Romani. Non felix Parthia Crassis - exiguae secura fuit provincia Pellae (51 - 52). La Partia , non un successo per i due Crassi, fu una provincia sicura per la piccola Pella. Criminale fu Alessandro ma pur sempre più forte e capace di successo rispetto ai Romani guidati dal Crasso e da suo figlio.

Cfr. viceversa i giudizi comparativi di Tito Livio su Alessandro Magno e i consoli romani. 

 

Tito Livio[5] IX, 17 - 19.

 Alessandro morì giovane senza avere mai provato l’avversa fortuna: “nondum alteram fortunam expertus decessit ”. Ciro e Pompeo le furono esposti da una lunga vita. Nei consoli romani che lo avrebbero combattuto (Tito Manlio Torquato p. e.) c’era indoles eadem quae in Alexandro animi ingeniique (9, 17, 9) la medesima qualità naturale di coraggio e di ingegno che in Alessandro, e in più la disciplina militaris, la quale iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat ” (9, 17, 10), già fin dagli inizi della città tramandata di mano in mano, era giunta a una forma d’arte regolata da norme immutabili.

 

Tito Manlio Torquato durante la guerra contro i Latini (340 - 338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res solvisti " (Livio, 8, 7, 15) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[6].

Insomma la disciplina per i Romani del tempo di Al. era fas, legge divina, legge di natura, non mos, costume soggetto a mutamenti.

 

Non avrebbero ceduto ad Alessandro Manlio Torquato e Valerio Corvo insignes ante milites quam duces (Livio, 9, 17, 13) distinti come soldati prima che comandanti, né i Deci, devotis corporibus in hostem ruentes, che si erano precipitati contro il nemico con i corpi consacrati, né Papirio Cursore illo corporis robore, illo animi! (9, 17, 14) Nemmeno quel Senato di cui Cinea, ambasciatore di Pirro a Roma ex regibus constare dixit, disse che era formato da re, vinctus esset consiliis iuvenis unius (9, 17, 14), sarebbe stato vinto dagli accorgimenti di un giovane.

 Se Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo, i Deci, Papirio Cursore, o con i senatori avrebbe detto che non aveva a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem, che egli aveva sbaragliato incruentus, senza spargimento di sangue, mulierum ac spadonum agmen trahentem, mentre si tirava dietro uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna. Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).

Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi. Non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Referre in tanto rege piget superbam mutationem vestis et desideratas humi iacentium adulationes (9, 18, 4), rincresce ricordare in un re tanto grande lo sfarzoso cambiamento del modo di vestire e le desiderate adulazioni di quelli prosternati a terra, insopportabili ai Macedoni, et foeda supplicia et inter vinum et epulas, caedes amicorum et vanitatem ementiendae stirpis” (5), e gli orrendi supplizi e le uccisioni degli amici tra il vino e i banchetti e la vanità di mentire la stirpe. Alessandro per giunta fu un uomo dal breve destino, il popolo romano guerreggia con poche sconfitte da otto secoli. Certo nei tredici anni di Alessandro (336 - 323) la fortuna è stata meno varia che negli otto secoli dei Romani. I consoli avevano meno tempo per conseguire vittorie, erano osteggiati dai tribuni della plebe, potevano essere ostacolati dalla temerarietà o dall’incapacità del collega ed ebbero anche altre difficoltà.

Come armi: clupeus sarīsaeque illis (9, 19, 7), scudo e lunga asta; i Romani lo scutum , maius corporis tegumentum, et pilum, il giavellotto, arma che si lancia e colpisce con maggior forza dell’asta. Statarius uterque miles, sapevano combattere a piè fermo, ma la phalanx era immobile e unius generis, uniforme, mentre la romana acies era formata da diverse parti: hastati, i giovani, principes, triarii , e i velĭtes armati alla leggera, facili a dividersi e a riunirsi. Il soldato romano era ottimo nei lavori di fortificazione e quis ad tolerandum melior? Quale più bravo a sopportare la fatica? Ad Alessandro sarebbe bastato perdere una sola battaglia per perdere la guerra; i Romani non furono piegati da Caudio né da Canne. Se Al. avesse incontrato Sanniti e Cartaginesi avrebbe rimpianto i Persiani et cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, avrebbe detto di avere combattuto con delle donne. I Romani continueranno a vincere “modo sit perpetuus huius qua vivimus pacis amor et civilis curia concordiae”. 

 

 Bologna 28 settembre 2020, giovanni ghiselli



[1] In sette libri completati nel 64 d. C.

[2]Tolstoj, Guerra e pace , p. 1697.

[3] Guerra e pace , p. 1701.

[4] L. Canfora, Noi e gli antichi, p. 43.

[5] 59 - 17 d. C.

[6]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.

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