Leo Genn interpreta Petronio nel film Quo vadis? |
Argomento
Elogio della neglegentia
(sprezzatura) e condanna della affettazione
La semplicità si radicalizza
nella neglegentia - ajmevleia (sprezzatura).
Così Petronio elegantiae
arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone, viene descritto
da Tacito: “habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua
haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora
et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem
simplicitatis accipiebantur" (Annales, XVI, 18), ed era
considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che
sperperano le proprie fortune, ma uomo dalla voluttà raffinata. Le sue
parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa
noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità.
Un correlativo stilistico letterario
di questa neglegentia è l'ajmevleia che l'Anonimo Sul
sublime [1] attribuisce
a Omero e ad altri grandi della letteratura come Sofocle, Pindaro,
Demostene e Platone. L'autore annovera Omero tra
i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti ("oujk ojlivga...
aJmarthvmata") i quali però non sono errori volontari
ma piuttosto sviste dovute a casuale noncuranza ("paroravmata di' ajmevleian eijkh'/") e prodotte distrattamente dalla stessa grandezza dell’autore.
Le nature eccellenti non sono senza difetti. Apollonio e Teocrito sono
senza mende. Ma non preferiresti - domanda retoricamente l’Anonimo - essere
Omero piuttosto che Apollonio? Anche Sofocle ha qualche caduta di tono poetico,
ma nessuno con
un poco di senno scambierebbe il solo Edipo re con tutti i
drammi di Ione di Chio (33).
Contemporaneo di Sofocle Quante
tragedie e drammi satireschi abbia composto ignoriamo: a noi restano circa 80
frammenti, e tutti brevi, da nove tragedie (p. es., Agamennone, Alcmena, Argivi, Laerte,
ecc.), da un dramma satiresco (l'Omfale),
Analoga valutazione estetica si trova nel Prologo dell'Andria dove Terenzio si
difende dall'accusa di contaminatio menzionando i suoi
maestri Nevio, Plauto, Ennio:" quorum aemulari exoptat neclegentiam/potius
quam istorum obscuram diligentiam" (vv. 20 - 21), dei quali
preferisce cercare di eguagliare la negligenza piuttosto che la buia diligenza
di costoro, ossia del malevolo vecchio poeta (vv. 6 - 7) Luscio Lanuvino e
degli altri detrattori.
Leopardi: elogio della negligenza,
critica della diligenza
Sulla “negligenza” dei sommi scrittori, da Omero in avanti, anche Leopardi dà
un giudizio positivo: “Così i poeti antichi non solamente non pensavano al
pericolo in cui erano di errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che ci
fosse, e però franchissimamente si diportavano con quella bellissima
negligenza che accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi,
non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti agli occhi
l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al
pericolo…non ci arrischiamo di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e
dei Classici…ma da quelle regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci
siamo formate in mente, e diamo in voli bassi né mai osiamo alzarci con quella
negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è
necessaria nelle somme opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose
pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle
mediocri…insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini e il
Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” (Zibaldone, 9 - 10).
Più avanti Leopardi sostiene che Ovidio “con quel tanto aggirarsi
intorno agli oggetti…fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è
contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre
agli oggetti imitati, è una bella negligenza e questa è quella che vediamo
negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è
quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec…” (Zibaldone, 21).
Ancora: “Non solo, come ho spiegato altrove, si fa male quello che si
fa con troppa cura, ma se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente
fare, e per giungere a fare bisogna rimettere alquanto della cura e della
intenzione di farlo (24 Agosto 1821)” (Zibaldone, 1854).
Questa di Leopardi è un’idea della poesia contraria a quella di Callimaco,
vicina invece a quella dell’Anonimo Sul sublime.
Nietzsche: “Per gli errori dei grandi uomini occorre avere rispetto perché
sono più fecondi delle verità dei piccoli”[2].
Leopardi è sicuramente uno dei grandi, ma credo che sia errato il giudizio
che dà sui drammi greci, sulla cultura della polis ateniese e su Ovidio.
L’opposto della semplicità è l’affettazione
Leopardi trova grande saggezza
e verità in queste parole: “Grazia del contrasto. Conte Baldessar
Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma avendo io già più volte pensato meco,
onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una
regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose
umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir
quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione;
e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa
sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir
fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai
la grazia” (Zibaldone, 2682).
A proposito dell’affettazione nello
scrivere: “l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò
appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli
atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[3].
Baldassarre Castiglione in Il
cortegiano[4]
prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la ostentazione e lo
impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e
stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare "quanto più si pò, e
come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una
nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura", ossia una
studiata disinvoltura, "che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e
dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che
derivi assai la grazia… " (I, 26).
"Questa virtù adunque contraria
alla affettazione… chiamiamo sprezzatura" (I, 28).
giovanni ghiselli
[1] Trattato, anonimo appunto, generalmente attribuito a un retore della
prima metà del I secolo d. C. Dovrebbe essere un seguace di Teodoro di Gadara
che ebbe tra gli allievi anche l'imperatore Tiberio. La sua scuola sosteneva
l'anomalia e l'elemento patetico che conferisce efficacia persuasiva al
discorso
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