giovedì 3 settembre 2020

Leopardi e i classici 1. Incipit della conferenza di Cento (12 settembre ore 17)

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Necessità della fatica
Incipit della conferenza di Cento (12 settembre ore 17)

Azzeccatissime le parole di Federico Rampini su D di “la Repubblica” del 29 agosto: “Non c’è nulla di “smart” in un mondo dove ogni contatto umano è mediato da uno schermo da un segnale wi - fi” (pagina 56)
Sono molto contento di riprendere le mie conferenze a Cento il 12 settembre alle 17.
Tratterò della presenza degli autori greci e latini nell’opera di Leopardi.
Ho pronte una cinquantina di pagine. Ne copio e incollo alcune nel blog per chi non potrà venire.

Necessità della fatica
Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[1] immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.

Questa è una dichiarazione topica: Esiodo  dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
 Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.

 Nei Memorabili[2] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”   
Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[3].
Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.

 In tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita di Orazio gli fa: " nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4], niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.

 Alessandro Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n povnw/o{ti kai; ta; tou`   JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto[5] con fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una grande impresa.
 Quando, giunti al fiume Ifasi[6], già oltre l’Indo, i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5, 26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a convincere quella gente stremata.

Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2 - 3).

Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1 - 3).

Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
 Il segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi (…) dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che s’appoggia  tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).
La virtus machiavellica si regge su questo fondamento teoretico, altrimenti si dovrebbe sostenere che la Fortuna soltanto tiene l’uomo “sotto el giogo suo” (Lettera al Soderini)

Gli eterni giovani sciocchi
Leopardi trova che nella sua età prevalgano  “creature”, giovani e anziane,  infantilmente insensate: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche[7] preparatorie"[8].

Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[9] (Esiodo, Opere e giorni, vv 130 - 135).

I classici non passano mai di moda. La moda è sorella della morte e dura poco.
Leopardi[10] ebbe a scrivere "Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"[11].
 “Qualunque stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone, 1988).   Il classico non segue le mode.

La moda è infatti la sorella della morte. Nel dialogo di Leopardi, la Moda dice alla Morte: “io sono la moda, tua sorella”. E la Morte: “Mia sorella?” “Sì - risponde la Moda - : non ti ricordi che siamo nate dalla caducità?...e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù…la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi…”[12]. Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere.  
Pesaro 3 settembre 2020, ore 17, 14   giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.
[2] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[3] W. Jaeger, Paideia  1, p. 191.
[4] Sermones, I, 9, 59 - 60 -
[5] Arriano (età di Traiano e di Adriano), Anabasi di Alessandro, 2, 18, 1.
[6] Nell’estate del 326 a. C.
[7] Di nuovo il topos della fatica necessaria (cfr. cap. 3).
[8] Dialogo di Tristano e di un amico (1832).  E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394) .  Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano all’amico.
[9]  Nepios è l’idiota che non sa parlare (nh - e[po"): cfr.   quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla violenza.
[10] 1798 - 1837.
[11]Zibaldone ,  58.
[12]Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte.

2 commenti:

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