Necessità della fatica
Incipit della conferenza di Cento (12 settembre ore 17)
Azzeccatissime
le parole di Federico Rampini su D di “la Repubblica” del 29
agosto: “Non c’è nulla di “smart” in un mondo dove ogni
contatto umano è mediato da uno schermo da un segnale wi - fi”
(pagina 56)
Sono
molto contento di riprendere le mie conferenze a Cento il 12
settembre alle 17.
Tratterò
della presenza degli autori greci e latini nell’opera di Leopardi.
Ho
pronte una cinquantina di pagine. Ne copio e incollo alcune nel blog
per chi non potrà venire.
Necessità
della fatica
Leopardi nell’Operetta
morale Il
Parini ovvero della gloria[1] immagina
che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore
incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli
dica che pochi sono capaci di intendere “che e quale sia
propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non
può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”.
La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si
riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper
lodarli degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili,
sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e
perfetta”.
Questa
è una dichiarazione topica: Esiodo dice
che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'"
d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"
(Opere,
289).
Nell'Elettra di Sofocle la
protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra,
povnou toi cwri;" oujde;n
eujtucei'''"
(v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[2] di Senofonte la
donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che
gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e
impegno:"tw'n
ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai;
ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi""
(II, 1, 28).
così
Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano
gli disse o{ti oJ
povno~ ajgaqovn, lui raggiante
di gioia esclamò: “ai{mato~
ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei
di buon sangue, ragazzo mio!”
Si
assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche
altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta
coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e
superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[3].
Sappiamo
che la cultura greca non si limita ai Greci.
In
tutt'altro contesto, il garrulus che
attenta alla vita di Orazio gli fa: " nihil
sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4],
niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.
Alessandro
Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si
preparava ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle
stesso lo introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò
la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n
povnw/…o{ti
kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/
ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva
ejfainevto”[5] con
fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con
fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una
grande impresa.
Quando,
giunti al fiume Ifasi[6],
già oltre l’Indo, i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di
attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone,
per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati
dicendo:
“Pevra~
de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh;
aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin”
(Anabasi
di Alessandro,
5, 26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo
siano altro che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi
imprese”. Ma non riuscì a convincere quella gente stremata.
Alessandro
Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e,
ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti:
Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di
partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò
giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo
nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava
continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le
gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai
poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2 - 3).
Dante mette
in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa
della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo
e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso,
XXV, 1 - 3).
Machiavelli nota
che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella
vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare
molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
Il
segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el
nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che
la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora
lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La
Fortuna come certi “fiumi rovinosi (…) dimostra la sua potenzia
dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua
impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a
tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel
principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina,
come quella varia” (Il
principe,
25).
La virtus machiavellica
si regge su questo fondamento teoretico, altrimenti si dovrebbe
sostenere che la Fortuna soltanto tiene l’uomo “sotto el giogo
suo” (Lettera al Soderini)
Gli
eterni giovani sciocchi
Leopardi trova
che nella sua età prevalgano “creature”, giovani e
anziane, infantilmente insensate: "Amico mio, questo
secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono,
si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che
camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono
fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli
uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre
fatiche[7] preparatorie"[8].
Mevga nhvpio~ è
l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn)
dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in
casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un
tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non
potevano astenersi da un’insolente prepotenza
reciproca[9] (Esiodo, Opere
e giorni,
vv 130 - 135).
I
classici non passano mai di moda. La moda è sorella della morte e
dura poco.
“Qualunque
stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di
antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e
volgarmente non piace” (Zibaldone,
1988). Il classico non segue le mode.
La
moda è infatti la sorella della morte. Nel dialogo di Leopardi, la
Moda dice alla Morte: “io sono la moda, tua sorella”. E la
Morte: “Mia sorella?” “Sì - risponde la Moda - : non ti
ricordi che siamo nate dalla caducità?...e so che l’una e l’altra
tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di
quaggiù…la nostra natura e usanza comune è di rinnovare
continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle
persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei
capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali.
Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare
parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare
quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole
che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini
con istampe roventi…”[12].
Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze
del genere.
Pesaro
3 settembre 2020, ore 17, 14 giovanni ghiselli
p.
s.
|
|
[1] Scritta
nel 1824, pubblicata nel 1827.
[2] Scritto
socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo
probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida
guida morale nella vita pratica
[3] W.
Jaeger, Paideia 1,
p. 191.
[4] Sermones,
I, 9, 59 - 60 -
[5] Arriano
(età di Traiano e di Adriano), Anabasi
di Alessandro,
2, 18, 1.
[6] Nell’estate
del 326 a. C.
[7] Di
nuovo il topos della fatica necessaria (cfr. cap. 3).
[8] Dialogo
di Tristano e di un amico (1832). E’
una delle Operette
morali delle
quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria,
e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne'
dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone ,
1394) . Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano
all’amico.
[9] Nepios
è l’idiota che non sa parlare (nh
- e[po"): cfr. quanto
scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla violenza.
[10] 1798
- 1837.
[11]Zibaldone , 58.
[12]Operette
morali, Dialogo
della Moda e della Morte.
Ottimo! Margherita
RispondiEliminaveramente bellissimo
RispondiElimina