NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 31 marzo 2021

Introduzione a "I VOLTI DELLA GIUSTIZIA"

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Ciclo audiovisivo di lezioni e letture classiche, a cura del Centro Studi «La Permanenza del Classico» dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

con Massimo Cacciari e letture di Elisabetta Pozzi

Introduzione

 

Nel quotidiano “la Repubblica” di oggi, 31marzo 2021, leggo: “Il latinista Ivano Dionigi presenta un ciclo di lezioni che, saltato lo scorso anno in Santa Lucia causa covid, viene proposto online da domani al 6 aprile. Apre il filosofo Massimo Cacciari con una meditazione sulle rappresentazioni della giustizia (…) La lezione di Cacciari, che parla nella cornice del Palazzo Pubblico di Siena di fronte all’Allegoria del buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, parte da testi di Pindaro, Platone., Aulo Gellio, Dante e Leibniz letti da Elisabetta Pozzi”.

 

Voglio mettere nel mio blog, per i miei lettori, un modesto contributo a questo dibattito.

 

 

Considerazioni sulla Giustizia in alcuni autori classici. Esiodo, Solone, Eschilo, Platone

 

Solone, il legislatore ateniese del VI secolo a. C. è tra i massimi profeti della Giustizia politica, nella polis.

 

La giustizia in Omero era ancora il diritto (qevmi~) di una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare, sono imposte da una classe superiore il cui predominio deriva da un'investitura divina. Ma già nel VII secolo, cominciano gli elogi di una giustizia nuova (la divkh appunto), mostrata a tutti (cfr. deivknumi, lat. dico), tale che comprende l'idea dell'uguaglianza.

 

Esiodo per primo dà voce a questa esigenza.

Egli nel poema più recente (Opere e giorni , vv. 202 e sgg.) ne fa l'apologia raccontando la favola dello sparviero e dell'usignolo. La legge del più forte che annienta il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene raccomandata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike imperversano peste, fame e sterilità. C'è un invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l'ha progettato (Opere , vv.265 - 266).

La giustizia esiodea è una forza solo in parte umana, per molti aspetti sovrannaturale, ma essa già contiene una premessa di isonomìa (uguaglianza davanti alla legge) e moralità, anche se la piena scoperta e valorizzazione del cosmo morale avviene con Socrate, condannato a morte da un tribunale ateniese nel 399.

 

Con Solone l' idea di giustizia progredisce e si politicizza, ossia entra nella costituzione della polis. Così, pur rimanendo alcunché di trascendente nella Giustizia del legislatore ateniese, questa Divkh si storicizza e perde qualche cosa del suo carattere mitico.

Partiamo dai primi versi dall'Elegia così detta alle Muse (fr. 1D, vv. 1 - 16)

 

Ne do la mia traduzione:

Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,

Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:

concedetemi il benessere (o[lbon) da parte degli dei beati, e di avere una buona/

 reputazione (dovxan e[cein ajgaqhvn) da parte di tutti gli uomini sempre;

in modo che così possa essere dolce per gli amici e amaro per i nemici, 5

rispettato dagli uni, temibile a vedersi per gli altri.

Ricchezze desidero averne, ma possederle ingiustamente non voglio:

in ogni caso più tardi è solita arrivare Giustizia (pavntw~ u{steron h\lqe divkh).

La ricchezza che danno gli dèi, è solida

per l'uomo dall'ultimo fondo alla cima;10

quella cui vanno dietro gli uomini spinti dalla prepotenza (uJy j u{brio~), non arriva/

con ordine (kata; kovsmon), ma siccome obbedisce alle azioni ingiuste,

segue di malavoglia, e presto vi si mescola l'acciecamento (ajnamivsgetai a[th).

L'inizio nasce da piccola cosa, come il principio di un incendio,

e dapprima è insignificante, ma l'esito è penoso15;

infatti non durano a lungo le opere della prepotenza - u{brio~ e[rga - per i mortali.

 

L’elegia di Solone forse più nota, e di contenuto in gran parte politico è quella così detta del Buon Governo (fr. 3 D). In questi versi cresce la responsabilità dell'uomo relativamente al proprio destino.

 

Traduco tutto il frammento pervenuto :

La nostra città non andrà mai in rovina per destino

di Zeus e volontà dei beati dèi immortali:

 infatti tale custode magnanima, figlia di padre potente

Pallade Atena le tiene sopra le mani.

 Ma i cittadini stessi con la loro follia vogliono distruggere la grande città sedotti dalle ricchezze,

 e ingiusta è la mente dei capi del popolo, cui è destinato

soffrire molti dolori in seguito alla gran prepotenza:

infatti non sanno trattenere l'avidità né godere

con ordine le gioie presenti nella serenità del convito.10

Ma si arricchiscono fidando in opere ingiuste

 e non risparmiando le proprietà sacre nè in alcun modo le ricchezze/

pubbliche: rubano per arraffare chi da una parte chi dall'altra

né osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,

che, pur mentre tace, conosce il passato e il presente15,

e con il tempo in ogni caso giunge a fare pagare.

Questa piaga ineludibile oramai arriva su tutta la città,

ed essa subito cade nella squallida servitù,

che risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra dormiente,

la quale distrugge l'amabile giovinezza di molti:20

 infatti per opera dei malevoli tosto la città molto amata

si rovina nei partiti cari agli ingiusti.

Questi mali nel popolo si aggirano: e dei poveri

 molti giungono in terra straniera

venduti e legati con ceppi indegni 25

Così il danno comune entra in casa a ciascuno:

né valgono più le porte del cortile a trattenerlo,

 e salta oltre il recinto pur alto, e trova in ogni caso,

anche se uno sia rifugiato nel fondo del talamo.

Questi precetti l'animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi,30

che il Malgoverno procura moltissimi mali alla città, kaka; plei'sta povlei Dusnomivh parevcei

mentre il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata

Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei

e spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:

leviga le asperità, fa cessare l'insolenza, oscura la prepotenza,

dissecca i fiori nascenti dell'acciecamento, 35

raddrizza i giudizi tortuosi, mitiga le azioni

 superbe, e fa cessare le opere della discordia,

e fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui

tutte le cose tra gli uomini armonizzate e assennate.

 

Questi versi dovrebbero indurre a riflettere quanti, passati i Saturnali e il breve allentamento delle catene degli schiavi tornati al rango di cose, cose ordinarie, continuano a fare festa e a sputare sentenze intese a penalizzare la povera gente.

 Ricavo questa immagine dall’ elegantiae arbiter di Nerone: "itaque populus minutus laborat; nam istae maiores maxillae semper Saturnalia agunt" (Satyricon, 44, 3), e così il popolino sta male; infatti questi ganascioni festeggiano sempre.

Solone, si ricorderà, non era stato preso dalla vertigine davanti alle smisurate ricchezze del pacchiano re di Lidia Creso che gliele indicava con immensa volgarità.

  

Eschilo

Nell'Agamennone troviamo l'idea che dalla ricchezza rifugge la Giustizia la quale"brilla nelle case dal povero fumo e onora la vita onesta"( Divka de, lavmpei me;n ejn - duskavpnoiς dwvmasin, - tovn t j ejnavsimon tivei - bivon ( secondo stasimo, vv.773 - 775).

Il terzo stasimo poi suggerisce di gettare dallo scafo, con misurato lancio (sfendovna~ ajp j eujmevtrou , v. 1010), addirittura parte della proprietà acquistata, per salvare la nave, e la casa, dall’affondamento. La dismisura dunque, e non solo quella dei mali, provoca l’inabissamento.

 

Presto sarà necessaria una patrimoniale.

 Pochi versi più avanti il coro indica uno degli effetti della dismisura: una volta caduto a terra, nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?" (vv. 1019 - 1021).

 Nelle Eumenidi , la terza tragedia della trilogia del 458 (la seconda è le Coefore ), le stesse Erinni, nemiche dell'ordine statale e patriarcale, divinizzano la Giustizia ammonendo: "Rispetta l'altare di Dike e non prenderlo a calci con piede ateo, poiché dopo incombe la pena"(vv. 539 - 541).

 

Concludo con Platone 

Nella parte conclusiva del primo libro della Repubblica di Platone il sofista Trasimaco prova a sostenere davanti a Socrate che la giustizia è dabbenaggine vera (gennaiva eujhvqeia, 348c), l’ingiustizia è eujbouliva, avvedutezza.

 

Socrate invece associa l’ingiustizia all’ignoranza Socrate dunque fa ammettere a Trasimaco che il competente in una materia non vuole soverchiare un altro competente; è l’incompetente fanfarone che vuole soverchiare. L‘ingiusto che vuole soverchiare dunque assomiglia all’incompetente. Trasimaco ammette che il medico bravo non vuole soverchiare gli altri medici. L’ejpisthvmwn è sapiente e buono. L’ajnepisthvmwn è il soverchiatore.

Soverchiatore è il kako;ς te kai; ajmaqhvς, cattivo e ignorante, come lo è l’ingiusto. Trasimaco fa queste concessioni a stento, sudando e arrossendo.

L’ingiustizia dunque è kakiva ajmaqiva (350d). Resta da demolirne la potenza (to; ijscurovn). Trasimaco risponde ad altre domande tranello. Socrate gli fa ammettere che i ladri non hanno successo se commettono ingiustizie reciproche. L’ ingiustizia non è solo ignoranza e malvagità ma anche debolezza poiché genera odio e discordia. Anche se si verifica in una persona sola, l’ingiustizia rende l’ingiusto agitato e discorde con se stesso: “poihvsei stasiavzonta kai; oujc oJmonoou`nta aujto;n eJautw/` (352) e anche nemico di se stesso e dei giusti, e pure nemico degli dèi che sono giusti.

I giusti sono dunatwvteroi pravttein, i più capaci di agire.

Quelli del tutto ingiusti e malvagi sono anche incapaci di agire - “oi[ ge pampovnhroi kai; televw~ a[dikoi eijsi; kai; pravttein ajduvnatoi” (352d).

La funzione di ciascuno e di ciascuna cosa (e[rgon ejkavstou pravgmatoς) è ciò che egli/essa sa fare meglio. La funzione degli occhi è vedere ed è anche la loro ajrethv. Se gli occhi non vedono c’è la kakiva anti; th'ς ajreth'ς. E la kakiva fa funzionare kakw'ς.

Funzioni dell’anima sono: ejpimelei'sqai, prendersi cura, a[rcein, comandare, bouleuvesqai, deliberare kai; ta; toiau'ta pavnta.

Ma la funzione massima è to; zh'n, vivere. Trasimaco lo riconosce. Se la giustizia è virtù dell’anima, l’ingiustizia è il suo difetto. L’anima ingiusta vive male e fa vivere male. A questo punto Trasimaco ammette tutto. Allora, w\ makavrie Trasuvmace, l’ingiustizia non è mai cosa più vantaggiosa della giustizia oujdevpot j lusitelevsteron ajdikiva dikaiosuvnhς.

Socrate ringrazia Trasimaco per la sua generosità, ma si paragona ai livcnoi i ghiottoni (leivcw, lecco, lat. lingo) che divorano tutti i cibi appena serviti senza avere gustato la portata precedente. Dice di essere andato avanti senza avere ancora stabilito che cosa sia mai la giustizia divkaion pot’ ejstivn (354b).

 

Bologna 31 marzo 2021 ore 19, 42

giovanni ghiselli

Viaggio in Grecia, 1981. Capitolo XX. L'ultima pedalata

L'ultima pedalata


Riprendemmo la pedalata contro il vento caldissimo spirato da sud ovest. Ifigenia dopo pochi chilometri già barcollava, sbuffava, soffriva e diceva che non poteva procedere così ostacolata e gravata.

“Adesso dovrò sobbarcarmi di nuovo”, pensai con un po’ di fastidio e anche un poco di orgoglio.

 Subito dopo in effetti mi offrii  di alleviarle la schiena prendendo  anche il suo zaino che dislocai al di sopra del mio, quasi sul collo. Ma nemmeno così alleggerita Ifigenia ce la faceva a pedalare fino a Patrasso. Provai a incoaggiarla, a spingerla anche fisicamente stando alla sua sinistra e impiegando quanta forza avevo nel braccio destro e nella mano aperta appoggiata sulla schiena di lei, ma la mia compagna di viaggio, come un commilitone stremato dagli ordini  atroci di un comandante  implacabile, seppur generoso, a un tratto scostò la mia mano non abbastanza soccorrevole, frenò, fermò la bici e disse che non ce la faceva più in nessuna maniera.

Urgeva dunque trovare un rifugio dove passare la notte, però l’autostrada dove eravamo entrati a Egion senza essere ostacolati  era recintata da una rete di ferro e per uscirne saremmo dovuti arrivare al casello di Patrasso ancora lontana almeno venti chiometri. Ci si trovava perciò in una prigione, fiammeggiante per giunta come una fornace, con l’acqua delle borracce esaurita oltre tutto. La ragazza infatti sudava assai poi beveva più di una spugna.

Allora andai un po’ avanti, un po’ indietro scrutando la rete ferrigna, finché vi trovai un buco abbastanza grande per la nostra evasione. Usciti da quel carcere, percorremmo una stradina sterrata in discesa fino a un borgo non senza una torre sulla riva del mare: Psathopirgos si chiama. Trovammo una stanza con terrazza affacciata sul piccolo porto. Nel nostro squlibrio questa fu un’altra serata di pace. Eravamo entrambi contenti per la collaborazione che c’era stata tra noi nell’ultimo tratto quando l’avevo aiutata senza rimproverala né insistere troppo  e Ifigenia mi era grata per il mio comportamento nei suoi confronti, sicché aveva deciso di porre fine alle querimonie e di sospendere il  rancore accumulato per anni contro di me.

Una tregua malsicura e precaria. Dormimmo per l’ultima volta insieme sulla riva del mare. Il giorno seguente, dopo avere pedalato insieme per l’ultima volta, giungemmo a Patrasso.

Se ce l’hai fatta a seguirci fin qui, lettore, senza stancarti né annoiarti, vieni ancora avanti con noi, complicemente: laetaberis.

Prenotammo la cabina sul traghetto del ritorno che salpava il 28, per Brindisi. Nella nave diretta ad Ancona non c’era più posto nemmeno sul ponte.

Ifigenia si immusonì e cominciò a protestare dicendo che tutto si complicava siccome  a Brindisi avremmo dovuto trovare un treno lei per Bologna, io per Pesaro.

“ Dichiarazione di guerra e correlativo geografico del nostro discidium” pensai.

Ma non lo dissi. Volli sdrammatizzare, sicché la guardai in faccia citando Francesco Redi

Su voghiamo,
       navighiamo,
       navighiamo infino a Brindisi:
       Arianna, brindis, brindisi.
       Passavoga, arranca, arranca,
        ché la ciurma non si stanca,
       anzi lieta si rinfranca
       quando arranca inverso Brindisi:
       Arianna, brindis, brindisi.
       E se a te brindisi io fo,
        perché a me faccia il buon pro,
       Ariannuccia vaguccia, belluccia,
       cantami un poco, e ricantami tu
       sulla mandola la cuccurucù,
       la cuccurucù
       la cuccurucù,
       sulla mandola la cuccurucù.

“Sei il buffone di sempre, fece lei”. Non le servivo più.

 

Poi prendemmo una stanza, girammo per la città, quindi cenammo e andammo a dormire senza tante storie.


Bologna 31marzo 2021 ore 18, 27

giovanni ghiselli


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La presenza degli autori classici nelle tragedie di Shakespeare. XIX. Il fascino di Cleopatra. Antonio sottomesso. Medea incute paura

William Wetmore Story, Cleopatra
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Il fascino di Cleopatra. Antonio sottomesso. Medea incute paura 

Enobarbo risponde ad Antonio magnificando Cleopatra : “O, sir, you had then left unseen a wonderful piece of work, which not to have been blest withal would have discredited your travel ( Antonio e Cleopatra, I, 1,151-152),  allora avreste perduto lo spettacolo di un’opera meravigliosa e non esserne stato beatificato avrebbe screditato il vostro viaggio.
 
A proposito della tattica usata da Cleopatra per affascinare, all’inizio della terza scena del I atto, la regina dice a Carmiana: vedi dov’è e cosa fa: I did not send you: if you find him sad, say I am dancing, if in mirth (merry), report that I am sudden sick: quick and return” (I, 3, 1-5), io però non ti ho mandata. Se lo trovi triste, digli che sto danzando; se lieto, riferiscigli che mi sono improvvisamente ammalata. Presto e ritorna.
 
Antonio è soggiogato
A proposito di Eracle e Onfale, Antonio nell’andare a Roma  dopo l’annuncio della morte di Fulvia dice a Cleopatra che si lamenta per quella partenza. “I go from hence-thy soldier, servant, making peace or war-as thou affect’ st  (I, 3, 69-71) me ne vado di qui, come vostro soldato, servo, per fare pace o guerra, secondo la tua disposizione.
Allora la regina d’Egitto dice a Carmiana: “ cut my lace, Charmian, taglia i miei nodi, come se stesse male, poi però la ferma (But let it be) dicendo : I  am quickly ill and well; So Antony loves ( I, 3, 71-73) io passo in fretta dallo stare male allo stare bene, così Antonio ama
 
E’ il topos della fede degli amanti non più reale dell’araba fenice
 
Vediamo un breve excursus
I giuramenti d'amore non sono credibili.
 L'inaffidabilità riguarda tanto gli uomini quanto le donne.  
Lo afferma pure Sofocle in un  frammento (811 Pearson):" o{rkon d j ejgw; gunaiko;" eij"  u{dwr gravfw", giuramento di donna io lo scrivo sull'acqua.
 
E se tali solenni promesse penetrano da qualche parte, certo non dentro gli orecchi degli immortali, sostiene Callimaco in un epigramma:" ajlla; levgousin ajlhqeva, tou;" ejn e[rwti-oJvrkou" mh; duvnein ou[at& ej" ajqanavtwn" (A. P.  V 6), ma dicono il vero che i giuramenti in amore non entrano negli orecchi degli immortali. 
 
 Ovidio echeggia questo motivo, sia per quanto riguarda Arianna tradita e la scarsa tenuta della parola dei maschi, sia per la non credibilità della femmina umana che è una creatura varia e sempre mutevole,"varium et mutabile semper/femina ", come  aveva già detto Virgilio [1].
 
L'Arianna dei Fasti[2] toglie fiducia a tutti gli uomini:"dicebam, memini, " periure et perfide Theseu" :/ille abiit; eadem crimina Bacchus habet : /nunc quoque "nullo viro" clamabo " femina credat " (Fasti , III, 475-477, dicevo, ricordo, "Teseo spergiuro e traditore": / quello è andato via; Bacco commette lo stesso delitto:/ anche ora esclamerò:"nessuna donna si fidi più di un uomo".
 
Per quanto riguarda l'instabilità e l'inaffidabilità delle giovani donne, il poeta  di Sulmona negli Amores è più comprensivo: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono:" Esse deos credamne? Fidem iurata fefellit,/et facies illi quae fuit ante manet (...) Longa decensque fuit: longa decensque manet./Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli,/per quos mentita est perfida saepe mihi./Scilicet aeterni falsum iurare puellis/di quoque concedunt, formaque numen habet " (Amores , III, 3, 1-2 e 8-12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data,/eppure le rimane l'aspetto che aveva prima...Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane./Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi,/con i quali spesso la perfida mi ha ingannato./Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze/di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
 
 Ovidio conclude dicendo che dio è un nome senza sostanza, oppure, se esiste, ama le belle fanciulle e certamente ordina che solo loro abbiano tutto il potere:"si quis deus est, teneras amat ille puellas:/nimirum solas omnia posse iubet " (Amores , III, 3, 25-26).
 
 Tutto il potere alle donne dunque.
La donna imperiosa (Fulvia) o tremenda (Medea) e l’uomo sottomesso (Antonio) o spaventato (Creonte re di Corinto)
Plutarco scrive che Antonio in seguito alla limitazione che Cesare imponeva ai suoi modi rozzi e alla sua dissolutezza,  si indirizzò al matrimonio e sposò Fulvia: un tipo di donna che non pensava  a filare la lana né a curare la casa ma a governare i governanti e comandare i comandanti –   ajll j a[rconto" a[rcein kai; strategou`nto" strathgei`n” (Plutarco, Vita, 10, 5)
l’Antonio di Shakespeare riferendosi a Fulvia dice a Ottaviano the third of the world is yours, il terzo del mondo è vostro e potreste guidarlo facilmente with a snaffle con un morso come un cavallo, but not such a wife (II, 2, 67-68), ma non una tale moglie. Quindi per scusarsi della guerra di Perugia (II, 2, 98-99)  aggiunge: “Truth is that Fulvia-to have me out of Egypt, made wars here”, è vero che Fulvia per farmi tronare dall’Egitto suscitò una guerra qui.
Fulvia lo dominò al punto che Cleopatra le fu debitrice delle lezioni di   sottomissione di Antonio al potere femminile (th`"   jAntwnivou gunaikokrasiva"- . Infatti quando finì in pugno a Cleopatra quell'uomo era già stato domato del tutto  e ammaestrato a obbedire alle donne. (Plutarco, Vita di Antonio,  10, 6-7).
Fulvia sposò Clodio ucciso da Milone nel 52, poi Curione morto in Africa nel 49, poi Antonio. Contribuì a scatenare la guerra di Perugia 42-40. Morì nel 40.
Nelle prime battute dell’Antonio e Cleopatra  la regina rinfaccia al triumviro di essere vassallo homager  del collega Ottaviano  e sottomesso ai rimproveri della linguacciuta (shrill-tongued)  petulante Fulvia  che si permette di sgridarlo (scold) facendolo arrossire  (I, 1, 31-32).
 
Fulvia insomma è il tipo della donna deinhv, tremenda come la nutrice di Medea qualifica la donna abbandonata da Giasone e così la descrive:
“Temo di lei che progetti qualcosa di inaudito;
infatti violento è il suo animo, e non tollererà di subire
l'oltraggio: io la conosco, e ho paura di lei
che affilata spinga la spada nel fegato,
salita in silenzio alla casa dove è steso il letto,
o pure che ammazzi il tiranno e quello che ha preso moglie
e quindi si tiri addosso una sventura più grande. 
Siccome è tremenda (deinh; gavr) : nessuno certo che abbia stretto
 odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria” (Euripide, Medea, 39-45)
 
   Sentiamo ora, nella stessa tragedia,  Creonte il re prossimo suocero di Giasone che ha paura di Medea,  vuole cacciarla e le dice:
“A te che sei torva e infuriata con lo sposo,
Medea, ho detto che devi andare fuori da questa terra
esule, dopo avere preso con te i due figli,
e di non indugiare neanche un poco kai; mhv ti mevllein: poiché io sono l'arbitro di questa
sentenza, e non  tornerò indietro nella reggia
prima di averti cacciata fuori dai confini della regione. (271- 277)
 
Medea prova a impietosirlo mentre ha gà approntato un piano per ucciderlo con la figlia
“Ahimé disgraziata, completamente distrutta vado in rovina;
i nemici infatti allentano ogni gomena,
e non c'è un approdo accessibile fuori dalla sciagura.
Pur oppressa dalla sventura-kai; kakw`" pavscous j-, in ogni modo ti farò una domanda:
perché mi mandi via da questa terra, Creonte?  (278-281)
 
Creonte risponde:
“Ho paura di te-devdoikav s j-, non c'è nessun bisogno di parlare copertamente,
che tu faccia a mia figlia un immedicabile male.
Molte indicazioni contribuiscono a questo timore:
tu sei per natura sapiente ed esperta di molti malefici,
-sofh; pevfuka" kai; kakw`n pollw`n i[dri"-
e per giunta sei in pena perché privata del letto dell'uomo
luph`/ de; levktrwn ajndro;" ejsterhmevnh .
Poi sento dire che tu minacci, a quanto mi riferiscono,
di fare qualcosa di male a chi ha dato , a chi ha preso la sposa
e alla sposata. Pertanto io prima di subire questi danni mi metterò in guardia.
E' meglio per me ora divenire odioso a te, donna,
che piangere dopo avere agito fiaccamente (282-291).
 
Anche il Creonte della Medea di Seneca  vorrebbe liberare se stesso e la sua terra dal terrore di Medea: “cui parcet illa quemve securum sinet?” (v. 182), chi risparmierà colei e chi lascerà senza timore?
Quindi: “ Concessa vita est, liberet fines metu” (185) le ho concesso la vita ma liberi questa terra dalla paura.
Medea si avvicina e l’uomo spaventato odina:
arcete, famuli, tactu et arcessu procul,
iubete sileat” (187-188), tenetela a distanza servi impeditele di toccarmi e di avvicinarsi, ingiungetele di tacere
Ma la donna tremenda si avvicina e Creonte le fa: “vade veloci via-mostrumque saevum horribilem iamdudum avehe” ( 190-191), vattene via di corsa e  porta via senza indugio il mostro feroce e orrendo che sei!
 
 
Bologna 31 marzo 2021 ore 11, 31 
giovanni ghiselli

p. s.
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[1]Eneide , IV, 569-570. 
[2] Un calendario in distici composto fra il tre e l'otto d. C. quando fu interrotto, dall'esilio, al sesto libro di dodici che dovevano essere. Dovevano illustrare  gli antichi miti e costumi latini.

martedì 30 marzo 2021

Viaggio in Grecia, 1981. Capitolo XIX. La riva inquinata

La mattina seguente volgemmo i manubri, le prue delle bici, di nuovo verso occidente per arrivare a San Nicolas dove avremmo preso il traghetto del ritorno a Egion. Il vento soffiava ancora da ovest e ostacolava il nostro proedere. Non sarebbe stato un problema serio, ma Ifigenia lo rendeva addiruttura tragico. Colei, lo ribadisco, quando incontrava ostacoli (problhvmata appunto)  anche sormontabili con poca pena non cercava un aiuto nella propria forza mentale ma si lasciava travolgere da un sentimento confuso, ottuso, cattivo e diventava aggressiva, furiosa, odiosa per me.

Finalmente giungemmo: era circa il meriggio. Aspettammo seduti sulla riva del mare.

Ricordai la prima volta che giunsi in quel luogo ameno con Fulvio e la  mia costola incrinata dolorante nel petto, a sinistra. L’amico mi rallegrò dicendo. “questo è il paradiso!”.

Ifigenia invece disse che in quel posto c’era un caldo da bolgia infernale.

“L’inferno ce l’hai dentro - pensai - hic Acherusia fit stultorum denique vita[1].

 Traghettati nel Peloponneso e sbarcati sul molo del porto di Egion, andammo di nuovo a sederci sulla riva marina. Appariva bianca di piccoli sassi che però, sotto la nostra pur leggera pressione, affondavano nel terriccio ungendosi di un liquido denso e scuro.

Poco dopo ci accorgemmo di avere i calzoncini, le gambe, le mani appiccicose, nere e imbrattate di sugna, tenace poco meno del masticione che mi aveva impiastricciato le mani e la faccia nel ’78, quando giravo la Grecia da solo e non me la passavo peggio tutto sommato. Ci alzammo e camminammo un poco sulla riva sconciata. Ifigenia con tristezza e paura disse di avere un ritardo mestruale di tre settimane.

Cercai di parlarne ma la presunta pregnante non volle aggiungere altro. Eravamo afflitti. Dalla strada un kou`ro", un ragazzo, facendo gesti nervosi gridò: “Pollution! Don’t sit there! Don’t touch water!”

Ci allontanammo da quel luogo inameno senza provarne sollievo: sentivamo che c’era del marcio anche dentro di noi. Mi vennero in mente le cerimonie inquinate, i grandi adulteri e gli scogli macchiati da

 tragi delle Historiae di Tacito.

 Pollutae caerimoniae, magna adulteria, infecti caedibus scopuli [2]ripetei tra me

Anche il nostro che era stato per lo meno vigoroso e vitale, era ormai diventato un rapporto fiacco e corrotto: nn’adulterazione della grande passione iniziale. Non c’era equilibrio, né chiarezza, né fiducia, tra noi: la  libidine grande, continua, dei festosi tripudi remoti si avviava alla fine con piccoli passi  strascicati, senili, appoggiati a un bastone.


Bologna 30 marzo 2021 ore 19, 45

giovanni ghiselli


p. s

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[1] Lucrezio, De rerum natura, III, 1023, qui dopo tutto diventa davvero infernale la vita degli stolti.

[2]8pollutae cerimoniae, magna adulteria, plenum exiliis mare, infecti caedibus scopulis”  (Ttacito, Historiae, I, 2).