IL PROGRAMMA DI UNIONE POPOLARE
Primo capitolo
Ricompensare e rispettare il lavoro
2 Seconda proposta. Lottare per la sicurezza economica e contro la povertà
Rendere nuovamente il contratto a tempo indeterminato la forma contrattuale standard, in primo luogo abolendo il Jobs Act e tutte le leggi che hanno incentivato la precarietà.
Commento
Per diversi anni la precarietà nel lavoro è stata spacciata quale flessibilità che sarebbe stata la via per accrescere le occasioni lavorative.
Si capiva che era una menzogna e un inganno per rendere ricattabili i lavoratori.
Non ci voleva molto a comprenderlo. La mia generazione che ha iniziato a lavorare alla fine degli anni Sessanta, dopo avere conseguito la laurea trovava il lavoro che le corrispondeva quasi subito. Mi sono laureato in Lettere antiche il 24 marzo del 1969 e in ottobre ebbi già l’incarico a tempo indeterminato, in una scuola media invero, ma potevo tenermelo per tutta la vita lavorativa se volevo.
Dopo qualche anno conseguii l’abilitazione in greco e latino ed ebbi il posto fisso nel liceo classico.
Diversi anni più tardi, quando, dopo un altro concorso, mi trovai nella SSIS per insegnare a insegnare ai giovani laureati, mi trovai tra gli aspiranti docenti diversi ultratrentenni che vivevano, magari lontani da casa, di supplenze anche solo mensili o bimestrali.
Questi giovani dunque sono stati pesantemente penalizzati dalla precarietà. Del resto basta il nome: un lavoratore non deve pregare per poter lavorare; anzi ,se ha studiato con serietà, deve avere la certezza del posto di lavoro per il quale si è preparato.
Ora la scuola ha perso parte delle sue funzioni positive, la prima delle quali era informare un ragazzo, formare una persona e preparare un lavoratore con una discreta competenza iniziale.
La scuola non buona, quella che non prepara, diploma il licenziato e il laureato lasciandolo in balìa del datore di lavoro o del burocrate che lo dirige.
Il criterio della non licenziabilità allora rimane quello della forte raccomandazione, vizio invero molto antico qui in Italia.
Il clientelismo fatto di raccomandazione e di favori reciproci, tra padrino e cliente era già istituzionalizzato a Roma nelle leggi delle XII tavole redatte nel 451 a. C.: “ Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto”, il patrono, se ha ordito una frode al cliente, sia maledetto, prescrivevano
“Il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti” ha scritto il latinista Luciano Perelli in un libro intitolato La corruzione politica nell’antica Roma (pagina 31).
La I Bucolica di Virgilio è la storia di una raccomandazione.
Da quando il lavoro è stato precarizzato, la raccomandazione ha esteso il suo potere di penalizzare i giovani sprotetti.
E’ necessario dunque assicurare alla scuola funzioni informative, formative, educative, e ai suoi diplomi il valore sostanziale che hanno perduto via via.
La scuola non svolge più il compito di ascensore sociale e le caste divengono sempre più impermeabili, chiuse e barricate.
Faccio un esempio concreto della non licenziabilità che consente la parresìa, la libertà di parola davanti al burocrate servile da una parte e prepotente dall’altra: quando il 14 dicembre del 1969, poche settimane dopo avere ricevuto l’incarico a tempo indeterminato, dissi in classe che Valpreda era innocente, il preside mi fece chiamare e mi disse che avevo perduto il posto. Dovevo tornare a casa.
Sapevo che colui non aveva tale potere e gli risposi: “è lei, preside che perderà il posto se continuerà a minacciarmi perché io ho avuto l’incarico dal Provveditore dopo la mia laurea in lettere classiche con 110 e lode all’Università di Bologna”. Sicché dovette tacere.
Con la flessibilità, cioè precarietà, il lavoratore è diventato ricattabile dal primo prepotente che vuole toglierli la libertà. Per un insegnante la cellula prima della libertà è la parrhsiva appunto.
Nello Ione[1] di Euripide il protagonista eponimo esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Analogo concetto si trova nelle Fenicie[2] quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
Pesaro 18 agosto 2022 ore 17, 26
giovanni ghiselli
p. s
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