L’Italia di cui abbiamo
bisogno.
IL PROGRAMMA DI UNIONE POPOLARE
È stato scritto dalla società civile insieme al contributo di tanti esperti, e si compone di 120 proposte organizzate in 12 capitoli.
Primo capitolo
Ricompensare e rispettare il lavoro
Prima proposta
1. Introduzione di un salario minimo legale di almeno 10 euro lordi l’ora (1600 euro al mese) rivalutato annualmente, per mettere fine al lavoro povero e utilizzare il rialzo di tutti i salari anche come mezzo di politica industriale, per spingere le imprese verso produzioni a più alto
valore aggiunto.
Riduzione degli orari di lavoro anche per garantire la cura dei diritti plurimi delle persone: lavorare tutti e lavorare meno.
Commento
Il mio commento a questa proposta riguarda la dignità del lavoratore, non solo, ma anche quella del datore di lavoro. Chi guadagna meno di 1600 euro al mese lavorando per giunta tutto il giorno non può vivere una vita da uomo libero, bensì quella del dipendente semischiavizzato, e chi paga meno di 10 euro all’ora un lavoratore dipendente, nel senso che la vita di questo dipende da lui, si degrada a sua volta da uomo a sfruttatore aguzzino. Chi è uomo umano sa che tutto quanto è umano lo riguarda. Dopo questa allusione a Terenzio[1], leggiamo qualche parola di altri autori classici su questo argomento
Partiamo da Omero (VIII secolo a. C.)
Credo sia opportuno aggiungere ai tecnicismi a volte anche oscuri che girano ovunque a proposito del lavoro, di chi non lo trova, di chi lo perde, di chi è flessibile come una canna al vento, di chi, con termine orrendo, è “esodato”, qualche parola chiara sul significato culturale e umano dell’idea, e della parola bella, “lavoro”.
Il lavoro costituisce una parte non piccola dell’identità dell’uomo, della sua dignità e, quando è fatto bene, con cura, con amore, il lavoratore-artista attribuisce pure alle cose da lui formate forti significati, se non anche armonia e bellezza.
Da Odisseo che costruisce con le proprie mani la zattera per tornare da Penelope e il letto nuziale, per giacervi con lei, l’uomo è animale polyméchanos, industrioso, e non può rimanere a lungo inattivo senza ammalarsi, in certi casi addirittura senza morire.
Ulisse nell’isola di Ogigia poteva avere tutto quanto gli procurava l’amante Calipso, eternamente giovane, bella e innamorata di lui, ma non aveva il lavoro, né contraccambiava l’amore, sicché andava a piangere sulla riva del mare, guardando l’orizzonte poiché quella vita inattiva, simile alla morte lo annientava, e la ninfa immortale, non gli piaceva più[2].
Sono parole del V canto dell’Odissea di Omero che con questo episodio ci dà uno dei suoi insegnamenti più grandi.
Ulisse che non può rimanere a fare niente, e piange, è il paradigma mitico degli uomini che si disperano, in casi estremi si uccidono, poiché hanno perduto il lavoro e con tale perdita, smarriscono spesso la stima, perfino il rispetto di se stessi..
Ma colei che ha in mano la vita di Odisseo, Calipso, lo ama, e non si comporta come chi getta i lavoratori in mezzo a una strada, o in un fiume in pien, facendone degli esodati, neologismo orribile, inventato per confondere, un vocabolo che con bisticcio non troppo arbitrario evoca la parola “inondati”. Calipso dunque, pur soffrendo il distacco, voluto solo dall’amante, lo aiuta a partire, con cuore amico, in modo che Odisseo possa cavarsela nella difficile traversata marina. “Ti procuro quello che a me stessa procurerei, perché ho mente giusta e nel mio petto non c’è un cuore di ferro, ma compassionevole ”, dice all’uomo in fuga, siccome non vuole che muoia tra le onde. Consiglio la lettura di questo episodio a donne e uomini che hanno in mano destini di altre persone.
Arrivato a Itaca, Ulisse, seduto davanti alla moglie, le descrive il loro letto nuziale, un oggetto particolare che lo sposo aveva costruito con le sue mani su un tronco d’olivo con le salde radici fissate nel suolo, mettendoci perizia, ingegnosità e amore. Quel letto costituisce “un segno sicuro ” di riconoscimento e assume il significato di un simbolo, quello dell’intesa profonda tra un uomo e una donna. E’ il segno inoppugnabile del quale la sposa si fida. Tale è l’oggetto del lavoro e tale dovrebbe essere il lavoro stesso, una certezza di cui potersi fidare, per mettere su una casa, permettersi “il lusso” di una famiglia con dei figli. Chi non è assicurato da un impiego sicuro, saldamente radicato in un terreno solido, è in balia delle onde in un mare di inquietudini e tormenti, un pelago terribile che talvolta fa naufragare la nave dell’identità e inghiotte il naufrago, per sempre.
Passiamo a Esiodo (VIII-VII secolo)
Nel poema Opere e Giorni l’autore afferma che gli dei e gli uomini odiano l' individuo inoperoso, simile per indole ai fuchi (v. 303), mentre l'uomo che lavora è assai più caro agli immortali (v.309). Infatti non il lavoro è vergognoso, ma l'ozio (v.311).
Il valore del lavoro prende il posto di quello militare celebrato dall’Iliade da Omero. In questo poema di Esiodo non c'è il duello dell'eroe cavalleresco con l'avversario che lo osteggia in campo, ma la lotta silenziosa e tenace del lavoratore contadino con la dura terra per strappargli l'estremo prodotto possibile. Anche in questa battaglia c'è dell'eroismo. Il lavoro non esclude la competizione (e[ri~), la buona eris, ben distinta da quella cattiva che fa crescere la guerra (v14).
L’emulazione dei lavoratori infatti sta alla base del progresso umano: essa sveglia anche l'ozioso. Per lei il vasaio gareggia con il vasaio, il mendico con il mendico, e l'aedo con l'aedo (26).
Contro la dismisura ingiusta e violenta delle differenze retributive.
Contro le enormi sperequazioni retributive cito le Leggi di Platone dove il personaggio Ateniese dice che quando in una comunità sunoikiva/ non convivono né ricchezza né povertà- mhvte plou'to" sunoikh'/ mhvte peniva, al suo interno sorgono nobilissime inclinazioni-gennaiovtata h[qh- e non ci sono dismisura violenta u[bri", né ingiustizia ou{t j ajdikiva, né gelosie zh'loi, né invidie fqovnoi (679 b-c).
Concludo questa prima parte citando un moderno Thomas Mann che suggerisce almeno un poco di coscienza anche agli affaristi.
Johann Buddenbrook aveva fondato il commercio di granaglie poi esercitato dalla famiglia per alcune generazioni e aveva registrato vari fatti in un suo diario dove “alle notizie aveva aggiunto parecchie buone esortazioni ai discendenti, e tra queste emergeva in grosse lettere gotiche, accuratamente miniate e incorniciate, questa sentenza: “figlio mio, dedicati con ardore agli affari durante il giorno, ma combina soltanto quelli che ti consentano di dormire tranquillamente di notte” (I Buddenbrook[3], parte seconda).
Il lavoratore e pure l’imprenditore sono uomini, perciò e tutto quanto è umano li riguarda.
Pesaro 18 agosto 2022 ore 10, 40
giovanni ghiselli
p. s.
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