NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 13 agosto 2022

Euripide Ione XXIII parte. La pazzia di chi ama.


Creusa risponde allo sgarbato ordine di Ione dicendo: “oujk ejn siwph`/ tajmav: mhv me nouqevtei (1397) quanto è mio non va taciuto, e non censurarmi.

I due hanno caratteri simili, di tipo volitivo, come è naturale tra madre e figlio. Quindi Creusa indica a Iom la cesta a[ggo~ dove lo mise brevfo~ e[t j o[nta nhvpion (1399) neonato ancora infante nella grotta di Cecrope alle Makrài.

 

Népios: chi non sa parlare.

Un commento su chi non sa parlare o perché è appena nato oppure perché è idiota o malato.

La parola nhvpio"  significa sia “infante” sia “stolto”[1]. Essa è costituita dal prefisso negativo nh-(simile ad aj-privativo)+ la radice ejp- sulla quale si forma e[po", "parola": dunque corrisponde al latino infans  (formato dal prefisso negativo in- +fans  di fari =parlare). Chi non è capace di parlare è appunto l’infante o lo stupido. Chi non sa parlare è tentato di esprimersi con la violenza. Nhvpioi sono i compagni di Odisseo i quali, per la loro stupida presunzione, divorarono i buoi del Sole  quindi morirono (Odissea, 1, 8-10).

Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[2] (Esiodo, Opere e giorni, vv 130-135).

Invero l'uso egregio della parola è il sapere più alto, il sapere che avvalora tutti gli altri, e questi, senza tale sapienza suprema, equivalgono agli zero non preceduti da un numero:"il molto sapere è un grave male, per chiunque non sia padrone/della lingua (polui>dreivh calepo;n kakovn, o{sti" ajkartei' -glwvssh"): è proprio come per un bambino avere un coltello"[3]. Si può pensare agli eruditi che non sanno parlare, oppure ai relatori, politici, professori, gran dottori che leggono anche le virgole di fogli scritti, forse nemmeno da loro.

 

 

Creusa poi dichiara che lascerà l’altare anche a costo della vita.

Ione nota che la donna ha  fatto un salto via dal suo rifugio come un’invasata qeomanh;~ h[lato 1402 e ordina di legarle le braccia- dei`te  d j wjlevna~ 1403.

 

 Quanto a qeomanhv~ si ricordi che Socrate nel Fedro di Platone sostiene che la pazzia cosistente in un invasamento divino è una forma di sapienza sublime. La follia dell'innamorato è più saggia della saggezza del mondo, come quella della Pizia e dei poeti. C'è una pazzia che è alienazione volgare e porta alla possessività, ma una che è un dono degli dèi ed è una fortuna: “ ejpj eujtuciva/ th`/ megivsth/ para; qew`n hJ toiauvth maniva devdotai” (245c)

C'è una maniva dalla quale ci vengono i beni più grandi.

Platone assimila la follia erotica a quella religiosa:   nel Fedro   ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.

A proposito della follia dei profeti, Cicerone  nel De divinatione  fa derivare divinatioa divis ” e mantikhv  ut Plato interpretatur a furore” (1, 1) secondo la spiegazione di Platone da pazzia, rivendicando la superiorità dei Romani nel denominare quest’arte prestantissima

Il filosofo nel Fedro sostiene che agli uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi, hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro[4]. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c),  l’hanno chiamata mantica.

“Gli antichi-scrive Platone nel Fedro[5] ritenevano la follia tanto superiore alla sapienza in quanto l’una proviene dagli dèi, l’altra dagli uomini. Poco oltre egli distingue quattro forme di follia prodotta da “un divino straniarsi” ( uJpo; qeiva~ ejxallagh`~[6]) dalle normali regole di condotta : quella profetica, regolata da Apollo, che penetra nella mente della Pizia e la rende capace di divinare gli eventi futuri; quella poetica, grazie alla quale gli uomini ottengono dalle Muse il dono dell’ispirazione; quella erotica generata da Afrodite; quella iniziatica (telestikhv) che appartiene al dominio di Dioniso (…) E’ appunto una follia di questo genere, la “follia iniziatica”, che costituisce la trama delle Baccanti di Euripide: essa si può definire come una forma di esaltazione collettiva, ottenuta attraverso un rituale estatico e posta sotto il patrocinio di una divinità.”[7].

Creusa non si ferma e mostra la cesta, la prima culla di Ione, che stringe tra le braccia. Ione si sente trascinato dalle parole di lei rJusiavzomai lovgw/ (1406)

Creusa ribatte: “no, ma sei ritrovato come cara persona da chi ti vuole bene.

Ione la contesta: io ti sono caro? E quindi volevi ammazzarmi di nascosto?

Vero è che amore e odio a volte si toccano.

Quindi la madre rivela a Ione che è nato da lei.

Il ragazzo non le crede: “pau`sai plevkousa-lhyomai s j ejgw;- plokav~ (1410), smetti di ordire, io scoprirò gli intrecci del tessuto di inganni

E’ a questo che miro, figlio- tou`de toxeuvw, tevknon 1411 fa Creusa. La metafora è bellica: tovxon è l’arco. La donna avverte che non si arrenderà.

 

Pesaro 13 agosto 2022 ore 10, 18

giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. p. e. Omero,  Odissea, 1, 8; Esiodo Opere e giorni, 131.

[2] Cfr.  in  53, 3 quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla violenza.

[3] Callimaco (310 ca- 240 ca a. C.), Aitia, fr.75 Pf, vv. 8-9.   .

[4] La mantica.

[5] 244d

[6] Fedro 265. Socrate invero distingue due tipi di mania: una che deriva da malattie umane (th;n me;n uJpo; noshmavtwn ajnqrwpivnwn) e un’altra appunto da una divina alterazione delle consuetudini comuni (uJpo; qeiva~ ejxallagh`~ tw`n eijwqovtwn nomivmwn ). Ndr

[7] Guidorizzi, Euripide, Baccanti, p. 9.

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