giovedì 3 ottobre 2024

Ifigenia CLVII. La prova di coraggio del bambino nel bosco. La notte di Sorte.


 

Con il calare del buio che toglieva i colori alle cose la pena recrudescente non veniva domata da pensieri lieti che pure avrei potuto nutrire nell'anima partendo dai fatti.

 A Moena potevo riposarmi per diversi giorni deliziandomi nel notare la crescita dell'altezza del sole e dei minuti di luce; a Bologna mi aspettava pur sempre un'amante bella e giovane, un lavoro che mi motivava, e una collega che mi piaceva. Ma l'angoscia mi impediva di goderne. Non riuscivo a pensare con ottimismo. Un intermittente acciecamento mentale non mi lasciava la perspicacia necessaria per capire il bene.

 Mi fasciava gli occhi uno straccio che mortificava la santa natura.

 Le rupi non più toccate dal sole, caduto del tutto, avevano cambiato aspetto: grigie com'erano, aguzze in cima e corrose nei lati parevano denti cariati; le piccole alture tonde, spelacchiate e divise da solchi sembravano  gobbe di vecchie megere o crani spaccati a randellate da crudeli sicari, l'erba dei prati fangosa e giallastra era il crine di un'anziana cartomante tosata dopo che aveva previsto sciagure. La punizione doveva significare che aveva letto solo la propria sciagura. La notte mi deformava ogni cosa. Il senso di colpa mi segnalava ogni aspetto triste. Ifigenia aveva ancora bisogno del mio appoggio ma io non mi sentivo di essere la colonna in grado di darglielo. Per giunta stavo alimentando una passione sciagurata diretta a un'altra donna che mi adulava per il poprio utile. Andai all'albergo La Campagnola dove avevo prenotato una stanza. Si trova sulla strada del passo San Pellegrino. Dalla finestra vedevo la valle di Fassa con le luci già accese: sembravano tanti lumini cimiteriali. Mi lavai, rilessi alcune battute  del mio dramma sulla scuola, traendone qualche conforto, poi cenai frugalmente. Dovevo comunque fare del moto. Quindi uscìi per una passeggiata nottuna. Scesi nel paese, passai sul ponte sopra l'Avisio,  quindi iniziai l'ascesa dell' opposto pendio, l'occidentale, dove si trovano disseminate via via  la chiesa, il cimitero, le case della frazione di Sorte, e dopo un chilometro la Malga Panna. Di lì  inizia il grande bosco che arriva fino al passo di Costalunga e al lago Carezza dove si specchia la mole turrita del Latemar. Un percorso che mi era noto fin da bambino.

Sfuggito alle zie, arrivavo da solo al limite della selva che mi faceva paura: la trovavo inquietante per la varietà delle luci e dei colori: ombre giganti si alternavano a chiazze di luce che potevano coprirsi o scoprirsi secondo i capricci del vento. Pensavo alle donne irrequiete di casa mia. Quindi mi veniva in mente che a loro tenevo testa, e mi azzardavo a muovere alcuni passi nel bosco. Sul margine coglievo alcuni lamponi e li mettevo in bocca: succosi erano sotto la vellutata secchezza. Più avanti vedevo dei funghi ma questi non osavo assaggiarli: mi avevano avvertito che potevo morirne. Non procedevo subito: immaginavo la cupa foresta  brulicante di fastidiose formiche punzecchiatrici, con gli alberi attraversati da lesti, graziosi scoliattoli, i sentieri insidiati da serpi, da lupi affamati, da orsi ghiotti, bestie avide di cibo e assetate di sangue. Poi però prendevo coraggio osservando gli uccelli: questi erano liberi e volevo esserlo anch'io. Per questo dovevo disobbedire alle zie imperiose e rischiare. Mi addentravo tra le ombre fitte, rabbrividendo, eppure dicendomi che non dovevo cedere. Mettermi alla prova dovevo e vincere la paura. Quando giungevo a una radura, mi fermavo un momento per salutare il sole, poi tornavo indietro, di corsa, graffiandomi con i rovi irti o con i rami penduli, con i trochi scagliosi; ferendomi se cadevo sui sassi. Fuggivo immaginando di essere inseguito da chissà quale mostro.

Quando sbucavo fuori da quell'intrico periglioso gridavo: " Ce l'ho fatta!"

Avrei ripetuto azzardi siffatti nei campi vitali dell'amore e del lavoro diverse volte in vita mia. Fino a oggi me la sono cavata.

Il 24 febbraio del 1980 dunque salivo di nuovo per il pendio di Sorte: passai accanto alla chiesa, di fianco al cimitero posto al margine del prato, salutai i vecchi Moenesi conosciuti da bambino che riposavano lì, poi mi incamminai verso Sorte, pensando che non avrei calpestato gli asfodeli se ci fossero stati. Così trasognato giunsi al paesino. Proseguivo percorrendo l’unica via in direzione della Malga panna. Era tutto buio e come sentìi abbaiare un cagnaccio infuriato da dentro una stalla trasecolai e fui tentato di fuggire retrogrado giù per la discesa. Ma compresi che la belva era assatanata per il fatto di essere rinchiusa e probabilmente incatenata. Superato dunque il terrore dello sbranamento, l’orrenda morte per cane temuta fin da bambino, ogni tanto mi voltavo indietro non più per il sospetto di essere inseguito da quel mostro furente, bensì per vedere se dai monti orientali del San Pellegrino o del Lusia spuntava la luna.

Il cielo era tutto sereno: le stelle brillavano come diamanti sul collo di una bellissima donna bruna. Mi diede conforto il ricordo delle creature belle, fini e miti che avevo incontrato. Magnifiche borse di studio. Helena dai capelli corvini dal seno ubertoso, materno.

 Speravo che la grande foresta già palestra del mio coraggio puerile e la luna vicina a spuntare da tacita selva, a gettare la propria luce sui boschi e sui prati, mi avrebbero dato un aiuto risolutivo della pena residua. Chiedevo soccorso alla natura sollevando la testa, osservando la purezza del cielo, i suoi lumi che gli alberi mi indicavano con le cime appuntite che li vellicavano quando un soffio leggero di vento le faceva ondeggiare.

Seguivo i segni di quelle dita giganti cercando risposte ai miei dubbi. Le stelle più basse apparivano e sparivano tra gli abeti e i larici come le lucciole in mezzo alle spighe del grano ancora più verdi che gialle.

Recitavo e citavo sperando che la mia erudizione sofferta si trasfigurasse, che la congerie di nozioni diventasse educazione e bontà, che sul mucchio di parole imparate si elevasse finalmente un’immagine di bellezza e di forza che confutasse per sempre la mia insicurezza, la mia infelicità non ancora debellata. Infatti riprendeva sempre la guerra.

 

Pesaro 3 ottobre 2024  ore 12, 08 giovanni ghiselli

 

p. s.

 

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