NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 30 settembre 2020

Sul truce crimine di Lecce

Sul crimine di Lecce, leggo nel quotidiano “la Repubblica” di oggi 30 settembre 2020: “ai carabinieri ha detto: “io sono solo, io mi sento solo”

L’articolo di Brunella Giovara a pagina 20, è intitolato “La vita segreta del ragazzo che non sapeva sorridere”.

 

La solitudine è la parola chiave per capire. Una solitudine simile a quella di Raskolnikov. Nel caso di Delitto e castigo sono l’emarginazione e l’umiliazione dovute alla povertà che spingono un ragazzo dell’età più o meno di questo Antonio De Marco, un bel ragazzo anche lui, a cercare un’identità forte, napoleonica o cesarea, per cercare di riabilitarsi.

Io non conosco  le condizioni di questo giovane assassino pugliese ma vedo una bella faccia nella fotografia del giornale.  Grandi occhi in un viso  bello, certo smentito dall’orrendo delitto.

La solitudine che ha indotto questo miserando giovane a tanta efferatezza è un male sociale, magari aggravato dal virus ma già presente in Italia e, credo, in gran parte del mondo da tanti anni.

Da quando cioè l’umanità è stata indotta  all’idolatria da una propaganda infernale che spinge all’adorazione del denaro e del consumo e all’indifferenza verso i propri simili.

Questo ragazzo non ha ucciso per il denaro o per la roba come un altro assassino che tanti anni fa ammazzò i genitori per comprare delle scarpe costose. No, Antonio ha stroncato due vite a coltellate, premeditando e preparando il delitto, esattamente come Rodion Raskolnikov per trovare un’identità, la peggiore possibile, ma sua.

La propaganda della pubblicità, che andrebbe vietata, mira a cancellare ad annichilire l’identità delle persone, l’anima umana e tutti i valori umani. Insegna il nichilismo escludendo da questo annientamento solo il consumo smodato e il denaro che lo consente.

La mia identità come tanti giovani della mia generazione, l’ho trovata con lo studio serio, poi con il lavoro che ho fatto per scelta, che mi piaceva e mi piace tuttora, come lo studio. I giovani di ora, per lo più, non hanno una buona scuola che li informi, li educhi e li valorizzi, e non hanno la prospettiva di un lavoro dignitoso, soddisfacente, se si trovano esclusi dalle clientele e dalle raccomandazioni.

Senza identità né prospettive si cade nella disperazione che può portare alle droghe, al suicidio o all’omicidio. Queste sono le cause della disperazione che può arrivare al punto di non sopportare la felicità dei fortunati e felici pochi. Certamente è giusto punire e rieducare questo ragazzo che fa soprattutto pena, ma bisogna anche intervenire sulle cause e rilanciare il verbo della solidarietà tra gli umani, l’idea di base che la vita delle donne e degli uomini è il primo valore, che noi siamo qui sulla terra per aiutarci a vicenda, per rallegrarci l’uno con l’altro, per volerci bene. Spero che la vita ti perdoni ragazzo. Io provo compassione non solo per i due giovani che hai trucidato ma anche e forse soprattutto per te.

Concludo utilizzando una frase del romanzo di Dostoevskij e mi inginocchio "non  davanti a te ma davanti a tutta la sofferenza umana che tu incarni".

gianni      

Debrecen 1979. 47. Il giro nella puszta. Ricordi e progetti. Non omnis moriar, speravo

Hortobágy
Il giorno seguente andai a Hortobágy da solo. Partii alle quattro del pomeriggio dopo avere atteso tutti i passaggi del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia Giulia, aspettando ogni giorno per diverse ore almeno una cartolina della mamma anche lei bella e bruna, pure lei ognora silente . Quel pomeriggio di fine estate il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudirmi: avrei preso per buono finanche un lampo pur quasi impercettibile della sua luce. Io l’avrei notato e ne sarei stato immensamente felice.

Allora mi venne in mente il pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. C’erano Bruno, Silvano e due tedesche amiche loro. Sei giovani educati, contenti in due automobili. Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Dio allora mi esaudì. Nei cinque anni passati da allora il caro Bruno era morto e gli altri quattro erano andati comunque lontano da me.

Non avevo desinato. Non ne avevo sentito il bisogno. Farlo non mandante fame, senza la richiesta della fame sarebbe stato un abominio.

Mi fermai sul luogo dell’atto magico di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato. Lo ero. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera della festa della conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io la conobbi nel collegio numero due. Nella luce del sole vedevo riflessa donna amata quantum amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo bisogno. Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno caro? Ci bastava una ragazza fine e bellina assai, una per uno certo, se no si litigava. I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egribikavér, un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si era giovani molto e ci si accontentava. Ragazzi ghiribizzosi eravamo. Tu caro amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si avvicinavano ai trenta però e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974 fu forse il limes, o limen se preferisci, da giurisperito qual sei.

 Tu non l’hai oltrepassato quel confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico meglio per te, per carità, non lo dico, però vero è che ti sei risparmiato tanti orrori, tante delusioni, tante faticose miserie che rendono vecchi.

Poi con gli anni , mentre le forze scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia, intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse. Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto. Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove staremo bene come nel collegio di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvo me l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione e anche tu non omnis morieris[2].

Mi ero seduto sul paraurti posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi ripartii e arrivai a Hortobágy. Salii sui gradini - sedili del teatro di legno situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú híd.

Luogo di ricordi e pure di attese di eventi futuri: un anno dopo sul palcoscenico di quel piccolo teatro Ifigenia in scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente, avrebbe alzato le braccia al cielo gridando:

O! for a Muse of fire, that would ascend

The brightest heaven of invention[3]

Intanto Fulvio, l’amico caro e profetico la fotografava.

 

Pesaro 30 settembre 2020 ore 18, 10

 

giovanni ghiselli

 

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[1] Cfr. Odissea, IV, 563ss.

[2] Cfr. Orazio Odi, III, 30, 6

[3] Shakespeare, Enrico V Prologo vv. 12. Oh per una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell’invenzione

Lucano LXI. Pharsalia X. (156-186)

riproduzione di vesti egizie in lino

Argomenti

Nel banchetto lussuoso, pieno di vivande esotiche importate, si mangia non mandante fame. Mangiare senza richiesta della fame è un abominio che rende il corpo deforme e la stravolge la mente. Il lino puro e ieratico: di lino sono le vesti estive e quelle sacerdotali egiziane. D’inverno da noi e in estate dove ci investe la maledettissima aria condizionata non basta. Questa fa bene solo agli agenti patogeni. Cesare interroga il sacerdote Acoreo la cui vecchiezza è segnata positivamente e benevolmente dagli dèi. Gli Egiziani come maestri dei Greci, quindi pure dei Latini. Il metodo comparativo: Euripide, Plauto e Platone. Lo impiegherò nel mio prossimo corso

 

I servi posero sulle mense cibi offerti dalla terra, dall’aria, dal mare, dal Nilo: quello che il luxus furens cercò in tutto il mondo toto quaesivit in orbe per vana ostentazione inani ambitione (156 - 157), non mandante fame (158) senza richiesta della fame. Recipienti di cristallo per dare acqua alle mani e vino Falerno che Meroe un’isola del Nilo nell’alto Egitto importa e cogens spumare, facendolo fermentare, gli conferisce in pochi anni indomitum senium (162 - 163) una vigorosa antichità.

Sui capelli dei convitati auliscono corone di fiori e profumi vari che impregnano l’aria.

Cesare così impara a sprecare le ricchezze del mondo saccheggiato - discit opes Caesar spoliati perdere mundi - 169 et gessisse pudet genero cum paupere bellum (170) si vergogna di avere fatto la guerra con un genero povero, e vuole muovere guerra alle genti di Faro.

Infine la lassata voluptas il piacere stanco impose un limite - modum imposuit - al cibo e al vino e Cesare prolunga la notte interrogando con parole poi ascoltando il sacerdote Acoreo vestito di lino - linigerum placidis compellat Acorea dictis (175).

Il lino puro e ieratico. Veste sacerdotale in Egitto.

 

D’estate vorrei rimanere vestito di lino, invece di indossare la lana per difendermi dal freddo innaturale dell’aria condizionata

Nell’ultimo libro del romanzo di Apuleio Lucio ancora asino si sveglia di notte e vede la luna, immagine di Iside e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (Metamorfosi, 11, 2), rendimi al Lucio che sono.

La dea è chiamata con molti nomi Cerere, Venere Celeste, Diana, Proserpina. Cerere, Venere e Diana sono i tre aspetti luminosi della dea cosmica; Proserpina, nocturnis ululatibus horrenda, è l’aspetto oscuro.

 Poi Nel sonno gli appare una divina figura, una dea con foltissimi, lunghi capelli, con una veste di lino sottile, dal colore cangiante, ora candida, ora gialla come fiore di croco, ora rossa. Era coperta da una sopraveste di un nero splendente.

Il lino

In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F.

Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.

Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).

 

Cesare dunque interroga il sacerdote chiamandolo: o sacris devote senex , quodque arguit aetas, non neglecte deis (176 - 177). O vecchio votato al culto divino, non trascurato dagli dèi, come dimostra la tua vecchiaia. Sarà stata una verde vecchiaia.

 

Euripide nel secondo stasimo dell’Eracle fa dire al coo di vecchi tebani:

“Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza riguardo agli uomini donerebbero una doppia giovinezza divdumon a]n h[ban e[feron come segno evidente di virtù - fanero;n carakth`r j ajreta`" a quanti la posseggono, e una volta morti, di nuovo nella luce del sole, percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita” (661 - 669).

 

 Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis: "itidem divos dispertisse vitam humanam aequom fuit: qui lepide ingeniatus esset, vitam ei longiquam darent, qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito" (vv. 730 - 732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto. 

 

 Cesare chiede chiarimenti sulla geografia dell’Egitto, in particolare il corso del Nilo, e sui costumi degli Egizi, la cultura, la religione, l’astronomia.

Se i tui maiores docuēre sua sacra Cecropium Platona (181 - 182), se i tuoi antenati hanno insegnato all’ateniese Platone i loro riti sacri, quale ospite è più degno di me di ascoltarti e più capace di accogliere il mondo? - quis dignior umquam - hoc fuit auditu mundique capacior hospes? (182 - 183) Anche in mezzo alle battaglie media inter proelia - stellarum caelique plagis superisque vacavi (185 - 186) ho trovato il tempo per le plaghe delle stelle e del cielo e per quanto sta sopra la terra.

 

Gli Egiziani come maestri dei Greci, quindi pure dei Latini

Platone nel Timeo (22 b 4) racconta che un vecchio sacerdote egizio disse a Solone: “voi Greci siete sempre fanciulli e non c’è un Greco vecchio ’W SÒlwnSÒlwn“Ellhnej ¢eˆ pa‹dšj ™stegšrwn d Ellhn oÙk œstin . Non avete ricordo di fatti antichi a causa dei diluvi che periodicamente sconvolgono la civiltà. Gli Egiziani hanno le leggi che aveva Atene 9000 anni prima ma dopo una lotta vittoriosa contro l’Atlantide ci fu una catastrofe finale che ne fece perdere il ricordo.

Allora Solone: Pîj t… toàto lšgeij; f£nai.

Nšoi ™stš,’ e„pe‹n, ‘t¦j yuc¦j p£ntej· oÙdem…an g¦r ™n aÙta‹j œcete di¢rca…an ¢ko¾n tradizione, palai¦n dÒxan oÙd m£qhma crÒnJ poliÕn oÙdšnnessun insegnamento canuto per l’età .

tÕ d toÚtwn ation tÒdepollaˆ kat¦ poll¦ fqoraˆ stermìni gegÒ -

nasin ¢nqrèpwn kaˆ œsontaipurˆ mn kaˆ Ûdati mšgistai,

mur…oij d ¥lloij terai bracÚterai.

 

giovanni ghiselli

 

martedì 29 settembre 2020

Scarseggia il rispetto per la vita umana

Due ragazze adolescenti uccise, falciate come erba o come grano maturo mentre camminavano,  da un tale con l’automobile lanciata a una velocità doppia risetto a quella consentita, probabilmente anche stordito da alcol o da stupefacenti, e nessuno che abbia gridato al femminiciduio perché non c’era di mezzo il sesso diabolico, bensì la sacrosanta automobile. Molti la usano come arma letale,

Ieri una donna distratta ha urtato una ruota della mia bicicletta facendomi cadere. Non mi sono fatto male però la maleaccorta signora si è scusata tanto da commuovermi talmente è rara tale forma di educazione.

Oggi invece mentre pedalavo tutto sulla destra un tale sfrecciando troppo vicino  ha colpito il mio gomito sinistro con uno specchietto e ha tirato dritto. Anche oggi per fortuna non mi sono fatto tanto male. Qualcuno mi protegge e mi ama evidentemente. Una volta, parecchio tempo fa, guidavo l’automobile per 30 mila chilometri l’anno. Ora ne faccio mille in macchina, circa 18 mila in bicicletta e 1800 a piedi, correndo.

Osservo e vedo poco riguardo per la vita umana. L’ecologia non si occupa mai delle automobili assassine, il massimo e il peggio della antiecologia. Se è quasi ammessa la licenza di uccidere con l’automobile guidandola mentre si guarda il telefonino o a velocità da autodromo o ubriachi o drogati fradici, che senso ha allarmarsi ogni giorno per un gradi di temperatura in più o per un orso polare che dimagrisce troppo?

La vita umana è messa in pericolo prima di tutto dalla disattenzione degli uomini e delle donne nei confronti del prossimo, anzi di ogni essere umano. So che non schivo io certi automobilisti, loro non risparmiano me. Questa attenzione che devo sempre impiegare come un allarme per non essere danneggiato, mi toglie letizia, mi sottrae energie e inficia, se non la mia volontà, certo la capacità di fare del bene.

Baci

Gianni

Bologna 29 settembre ore 21, 25

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Lucano LX. Pharsalia X. (vv. 85-153)


Argomenti

Cleopatra lusinga Cesare. La notte “nefanda” trascorsa dai due amanti. Confronto con la Cleopatra della commedia di Bernard Shaw. Il lusso smodato, ancora sconosciuto ai Romani, di un banchetto pacchiano. Anche la bellezza nociva di Cleopatra è truccata fuor di misura. Elogi del senso della misura ( Solone in Plutarco) e della povertà (il console Fabrizio esemplare nel Purgatorio di Dante)

Seneca citando Epicuro denuncia l’innaturalezza e la miseria del lusso.

 

Quindi Cleopatra parla: “o maxime Caesar - gli fa, se vale qualche cosa la nobiltà del mio sangue, io discendo da Lago (Tolomeo I Sotér uno dei compagni poi diadochi di Alessandro Magno) e sono stata cacciata dal trono, ebbene: “si tua restituit veteri me dextera fato - se la tua destra mi restituisce al destino regale, complector regina pedes” (88 - 89) io pur da regina abbraccio i tuoi piedi.

Tutt’altro approccio di Cleopatra a Cesare leggiamo nella commedia di Bernard Shaw Cesare e Cleopatra (del 1901) dove la principessa ancora adolescente in questo testo emerge da una Sfinge: “Ehi, vecchio signore (…) vecchio signore! Non scappare!”

Cesare: “Non scappare? Vecchio signore? A Giulio Cesare questo?!”

La giovinetta (insistendo) “vecchio signore!” (…)

Cesare: (stupefatto) “Chi sei tu?”

La giovinetta: “Cleopatra, regina d’Egitto!”

Cesare: “Ma che regina d’Egitto!” (Atto primo. Quadro secondo)

 

La Cleopatra di Lucano tende piuttosto a blandire Cesare.

Sei aequum sidus una stella favorevole gentibus nostris.

Nullo discrimine sexus, qui non c’è distinzione di sesso e una donna può stare al vertice del potere: reginam scit ferre Pharos, Faro sa portare avanti una regina.

Mio padre ha lasciato eredi del regno e del talamo me e mio fratello. Ma Tolomeo “habet sub iure Pothini - affectus enseseque suos” (95 - 96).

La ragazza chiede quindi a Cesare di eliminare Potino. Per sé non vuole nulla: regem iube regnare (99) comanda al re di regnare.

Lo schiavo Potìno (famulus) si è montata la testa. 

Ha decapitato Magno e ora minaccia te - sed procul hoc avertant fata (101)

Le parole non sarebbero bastate. “vultus adest precibus faciesque incesta perorat” 105 il volto sta accanto alle preghiere e tutto l’aspetto impuro tiene la perorazione.

Quindi Cleopatra exigit infandam noctem corrupto iudice - 106 - dopo avere corrotto il giudice trascorre la notte nefanda.

Poi Cesare comprò la pace con grandi doni (Cipro concessa ad Arsinoe sorella di Cleopatra) e seguì un banchetto epulae nella grande confusione del quale (magno tumultu) Cleopatra explicuit “nondum translatos Romana in saecula luxus” 110, esibì i grandi lussi non ancora trasferiti ai Romani.

 

Un lusso smodato e pacchiano c’era in quel palazzo, tempio della corruzione. Dappertutto materiali costosissimi: laqueata tecta (112), soffitti a cassettoni, l’oro nascondeva le travi, trabes absconderat aurum (113), pareti di marmo, colonne di agata e di porpora. Si camminava sull’onice, l’ebano rivestiva le porte ed era sostegno, non abbellimento del palazzo - auxilium, non forma domus (119)

Poi ebur atria vestit, l’avorio riveste gli atri, testudinis Indae terga, dorsi di tartarughe dell’India, distinta crebro smaragdo screziati di frequenti smeraldi e dipinti a mano sono inseriti nelle porte foribus sedent.

Fulget gemma toris sui letti brillano gemme, strata micant, lampeggiano i tappeti impregnati di porpora di Tiro, altri tappeti lanciano scintille di luce da scaglie d’oro. Tum famulae numerus turbae populusque minister (127), poi il numero della folla dei servi, un popolo intero asservito con pelli e capelli di vario colore - nec non infelix ferro mollita iuventus - atque execta virum 133 - 134 non manca l’infelice gioventù rammollita ed evirata dal ferro.

I due re e, maiorque potestas Caesar, si sono sdraiati discubuēre: Cleopatra è immodice formam fucata nocentem (137) imbellettata fuor di misura nella sua bellezza colpevole.

 Non si accontenta dello scettro, del fratello - marito.

E’ affaticata dagli ornamenti cultu laborat (140).

Candida pectora perlucent Sidonio filo, mammelle candide si brillano attraverso il filo del velo di Sidione. Hanno posto tavoli tondi tagliati nei boschi di Atlante su zanne d’avorio.

Tutto per il furore cieco e pazzo di voler apparire - Pro caecus et amens - ambitione furor (146 - 147), civilia bella gerenti –divitias aperire suas, mettere in mostra le proprie ricchezze a chi conduce una guerra civile.

 

 Cfr. il Creso di Plutarco nella Vita di Solone

Il legislatore ateniese disse al re di Lidia che gli aveva esibito le proprie ricchezze credendo che lo avrebbe elogiato e si sarebbe congratulato per la sua felivìcità"Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein) in tutto, e, per questa misuratezza (uJpovmetriovthto" ) ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida "( Vita , 27).

 Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una volta sconfitto da Ciro e finito sul rogo, gridò tre volte "O Solone", poiché aveva capito che la sua felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza.

Innaturalezza e miseria del lusso

Una sentenza di Epicuro tradotta e citata da Seneca (Ep. 27, 8): “divitiae sunt ad legem naturae composita paupertas”, la povertà conforme alla legge di natura è una ricchezza.

 

Lucano ricorda per contrasto Fabricios Curiosque graves e il sordidus Etruscis abductus consul [1]aratris (153).

Fabrizio, console nel 282 a. C., viene elogiato da Dante per la sua scelta della povertà: “Seguentemente intesi: “o buon Fabrizio,/con povertà volesti anzi virtute/che gran ricchezza posseder con vizio” Esempio di povertà per avari e prodighi Canto XX del Purgatorio V cornice.

 

 

Bologna 29 settembre 2020 ore 18,50

giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] Cincinnato che fu console nel 460 a.C. e due volte dittatore, nel 458 a.C. e nel 439 a.C.

Tra due settimane inizierà il mio corso sulle figure femminili nei poemi epici greci e latini

Mi ha telefonato il direttore dei corsi della Primo Levi dicendomi che fino a oggi ho 9 iscritti. Mi ha detto che è un numero lusinghiero dato  il  momento non facile.

Ora la partenza e l’effettuazione del corso è sicura. Ne sono molto contento.

Mancano del resto ancora due settimane e i miei “allievi” possono ancora aumentare. Mi piacerebbe  perché la qualità di quanto sto preparando è buona e vorrei che potessero avvalersene molte persone. Le mie fatiche umanamente spese ricevono quasi sempre questo compenso che ravviva le mie forze e il mio impegno.

Sono disponibili altri 6 posti.

Ripropongo, dopo qualche ritocco,  la presentazione già pubblicata qualche settimana fa. Nel frattempo continuerò a mettere nel blog e in facebook le riflessioni che mi suggeriscono le letture, gli spettacoli e i fatti della vita politica e personale.

 

Presentazione del corso di 10 incontri che terrò nell’Università Primo Levi ogni martedì  dal 13 ottobre  (orario 18 -  20)

 

Le donne presenti nella letteratura antica possono essere figure secondarie oppure protagoniste o comprimarie.

Nei poemi greci vedremo che dove prevale la guerra, cioè nell’Iliade,  tre figure femminili hanno la funzione di sostenere, consolare, moderare la furia bellicosa degli uomini quali mogli (Andromaca) o madri (Tetide, Ecuba).

Elena, l’amante, tende invece a biasimare Paride che schiva la guerra.

 

Nei poemi di avventura (Odissea e Argonautiche) le donne sono predominanti con la loro autorevolezza come Arete con Alcinoo o  per lo meno rispettate come Anticlea da Laerte, oppure sono risolutive con le arti magiche come Circe e Medea.

Calipso tiene prigioniero Ulisse “lui solo, che bramava il ritorno e la sposa,/la veneranda ninfa Calipso tratteneva, splendida tra le dee,/in spelonche profonde, agognando che fosse suo sposo” (Odissea, I, 13-15) però, ricevuto l’ordine supremo di lasciarlo partire, non solo obbedì ma gli fornì un aiuto per il viaggio pericoloso.

La “nasconditrice solitaria” dunque è il tipo della dea abbandonata da un mortale.

 

Per quanto riguarda i poemi latini, analizzeremo a fondo il quarto libro dell’Eneide con la storia di Didone fatta innamorare da Venere e morire dalla spietatezza del “pio” Enea, poi prenderemo in considerazione altri tipi di donne in altri poemi: le mogli (Cornelia e Giulia), l’amante (Cleopatra) e la strega (Erichto) del poema Pharsalia di Lucano;  quindi Antigone, Giocasta, Evadne, e pure la Sfinge della Tebaide di Stazio.

Le  confronteremo con le medesime figure o prefigurazioni presenti in molte tragedie.

 Nell’altro poema di Stazio, l’ Achilleide, vedremo la madre di Achille che cerca invano di tenere il figlio lontano la guerra di Troia , poi ricorderemo Deidamia che entra nella categoria delle donne abbandonate.

 

Giovanni ghiselli. Bologna 29 settembre 2020

Il film Miss Marx di Susanna Nicchiarelli

Friedrich Engels sul matrimonio monogamico in un suo scritto e nell’ottimo film Miss Marx di Susanna Nicchiarelli

Secondo Engels la famiglia monogamica “si fonda sul dominio dell’uomo, con lo scopo manifesto di generare figli di paternità indiscussa, paternità richiesta in quanto questi figli possano, in qualità di eredi naturali, entrare in possesso del patrimonio paterno (…) La nuova forma familiare ci si presenta in tutta la sua severità tra i Greci. Mentre, come osserva Marx, il posto delle dèe nella mitologia ci riporta a un periodo precedente, in cui le donne avevano ancora una posizione di maggiore libertà e rispetto, nell’epoca eroica vediamo la donna già avvilita dal predominio dell’uomo e dalla concorrenza delle schiave. Si legga nell’Odissea, in quale maniera Telemaco richiami la madre al silenzio. In Omero, le giovani donne fatte prigioniere sottostanno alle voglie sessuali dei vincitori; i comandanti si scelgono, secondo il rango e l’ordine gerarchico, le più belle; l’intera Iliade , come si sa, verte intorno alla lite tra Achille e Agamennone dovuta ad una tale schiava (…) Queste ragazze vengono anche portate con sé in patria e nella casa coniugale, come, in Eschilo, Cassandra da Agamennone (…) Dalla moglie si pretende che sopporti tutto, ma che essa stessa osservi rigidamente la castità e fedeltà coniugale (…) Sono l’esistenza della monogamia, la presenza di giovani belle schiave, che sono proprietà dell’uomo con tutto  quello che hanno, ad imprimere alla monogamia, fin dall’inizio, il suo carattere specifico, di essere cioè monogamia solo per la donna, ma non per l’uomo. E questo carattere lo conserva ancora oggi[1]

 

Nell’ottimo film Miss Marx  di Susanna Nicchiarelli (2020) riferito a Eleanor Marx (1855-1898), l’ultima figlia del filosofo, la più giovane , la più simile al padre, la più amata da lui, la protagonista dice “il matrimonio è un’istituzione obsoleta”, e l’attore che recita la parte di Friedrich Engels ribatte: “lo dici a noi?”.

 “Noi” comprende lui stesso e la nutrice della ragazza presente nella scena. Di questa donna l’amico, coautore e mecenate di Marx passava per essere amante e pure padre di un loro figlio senza che si fossero mai sposati. Di fatto poi  Engels dichiara che il figlio della collaboratrice di Karl Marx non era suo e in fin di vita confessa  a Eleanor che il padre vero era lo stesso Karl gettando nella disperazione la figlia di Marx che aveva creduto suo padre un marito innamorato di sua madre dall’adolescenza alla morte e a lei sempre fedele.

Il film è molto bello. L’ho visto ieri sera per la seconda volta in una settimana. Mi ha spinto a riprendere in mano tanto Engels quanto Marx e a interessarmi di questa figlia del filosofo che ebbe una vita piena di eventi personali e storici importantissimi, eppure profondamente infelice e terminata con un suicidio.

Probabilmente ombreggiata e schiacciata dalla grandezza culturale e prepotentemente affettiva di tanto padre.

Il flm presenta anche gli eventi storici che hanno fatto epoca: dalla Comune di Parigi allo sfruttamento inumano del proletariato durante la rivoluzione industriale. Le musiche che accompagnano diverse scene vi si confanno. L’attrice Romola Garai è di un’espressività stupefacente. Recita soprattutto con gli occhi, in maniera meravigliosa.

giovanni ghiselli  



[1]” (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, IV edizione del 1891, trad italiana Newton compton, Roma, 1974, pp. 86-87)