fotografia di Alessandro Denni |
Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura.
“Aiutami Sole, mio dio, a trovare dentro questo lungo travaglio l’idea del Bene di cui tu rendi agli occhi mortali l’immagine visibile.
Dammi la lucidità necessaria per trovare nel dolore la comprensione del mio viaggio terreno, della serie di cause che mi hanno condotto fin qui e mi guideranno fino alla morte di questo involucro. Voglio assecondare il mio fato comunque esso sia. In ogni caso non mi sembra meschino. Ho già educato centinaia di giovani. Vorrei diventare maestro di un popolo intero. Questa sofferenza, se me la sono cercata e la coltivo, vuole dire che è dovuta alla mia crescita, al mio progresso di educatore. Sulla fellona che non mi dà risposte, in verità non mi sono mai creato illusioni. Non risponde perché non mi corrisponde: non è del mio stampo. Mi ha potenziato con il piacere che mi ha offerto, ma ora devo cercare di trarre altro potenziamento dalla intelligenza di questo dolore. Ho sempre imparato dalle sofferenze e dalle ingiustizie subite. Aiutami a capire santa faccia di luce, mente dell’Universo. Aiutami a non impazzire per tanta pena, anzi a diventarne più saggio”.
Dalle canne della palude verde saettavano schiere di rondini verso sinistra, simili a frecce alate.
“Con il tempo - pensai - ho imparato che i segni del cielo sono tutti buoni se sappiamo volgerli al bene. Anche le sventure possono essere provvide. Sono funzionali all’insieme della vita: alla mia come a quella dell’Universo.
Scio sad conservationem Universi pertinere[1]”.
Alle 19,41 il sole vermiglio spariva nella terra nera. “Dai contrasti bellissima armonia - pensai ancora -Augurio di più sereno dì”.
Ritenni che non aveva più senso rimanere là fuori da monaco solitario.
Rischiavo di compiacermi della solitudine fino a diventare un anacoreta demente.
Volevo rivedere la bambina con la madre per cogliere dei segni vocali da loro. Significavano molto parlando. Tornai seduto dov’era stato un quarto d’ora prima. La bella signora e la piccola signorina c’erano ancora.
La bambina mi domandò:
“Dove sei stato Janos?”-
“A pregare, Sarolta”
“Chi, Gesù?”
“No, il Sole che è la sua immagine visibile. Pensa che gli antichi consideravano il Natale come il giorno della nascita del Sole”
“Come mai?”
“Perché nelle giornate più corte pensavano che stesse morendo, poi vedendo che la luce cresceva, credevano che fosse guarito e che rinascesse”
“Quale grazia gli hai chiesto pregandolo?”
“Di mettere al mondo una figlia simile a te”
“Perché simile a me? Io non sono tanto buona”
“Lo diventerai se studierai e farai sport. Molto buona e bella assai, come tua mamma”
Ero riuscito a dire queste semplici frasi in ungherese.
La signora mi fece un sorriso e mi ringraziò.
Poi mi domandò se fossi italiano.
“Sì, risposi dell’Italia centrale. Come ha fatto a capirlo’”
“Dal naso e dalla cortesia usata a noi due”.
“Anche voi siete state carine con me. Ora vi devo salutare: vi auguro il meglio di tutto. Lo meritate”
“Grazie. Questo vale anche per lei”.
Mi alzai e uscii pensando: “missione compiuta. Ho raccolto i segni vocali di cui avevo bisogno”.
Dopo i complimenti di quelle due femmine umane educate potevo essere soddisfatto di me. Mi avevano fatto capire che meritavo una donna migliore di quella che voleva indebolirmi cercando di farmi soffrire.
Sicché tornai in collegio e andai a dormire senza altro dolore.
gianni
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