domenica 18 ottobre 2020

Conferenza su Kafka (Cento, 7 novembre 2020). 4. Conclusione del romanzo "Il Processo"


Argomenti

L’esecuzione di K. Uomini, donne e cani

 

K poi pensò che non faceva nulla di eroico se resisteva. Procurò loro della gioia e un poco ne provò anche lui. K poteva ora scegliere la direzione e seguì una ragazza che assomigliava molto alla signorina Bürstner. Pensò: “l’unica cosa che posso fare è conservare sino alla fine il raziocinio che inquadra tutto con calma. Questi due muti, privi di intelligenza mi hanno insegnato a dirmi da solo quanto mi occorre” (p. 230).

Cfr. la cattiva scuola e i suoi docenti peggioro che non danno agli allievi niente più dei manuali e li costringono a studiarli da soli, spesso a memoria

 

K si ferma a osservare da un ponte l’acqua luccicante e tremula alla luce della luna. 230

Incontrano un poliziotto e K si mette a correre. I due boia si danno a correre con lui. Infatti costituiscono il destino che non ci lascia mai con la sua series causarum.

Giunsero fuori città, a una cava di pietre abbandonata e solitaria sotto una casa dall’aspetto ancora cittadino. Qui si fermarono. Il chiaro di luna illuminava ogni cosa con quella pacata naturalezza che solo la luna possiede (231).

 Si può pensare alla visione della luna da parte di Lucio - asino nell’ultimo capitolo del romanzo di Apuleio. Qui però K non prega.

La luna vede dall’alto e sa come stanno le cose.

 

Viene in mente la luna osservata da un pastore errante dell’Asia del Canto notturno di Leopardi: “E tu certo comprendi - il perché delle cose, e vedi il frutto - del tacito, infinito andar del tempo” (60 - 72).

“Ma tu per certo/giovinetta immortal, conosci il tutto” (98 - 99).

 

I due carnefici “si scambiarono alcune cortesie” per stabilire chi dovesse fare che cosa. Uno dei due comincia a spogliare K il quale rabbrividì. Poi piegò giacca, camicia e panciotto come se gli dovessero servire ancora. Quindi prese K sottobraccio e lo fece passeggiare perché non soffrisse troppo il freddo. Trovato il posto adatto, chiamò l’altro e i due fecero stendere K per terra. Gli fecero appoggiare la testa sopra un macigno. La posizione del condannato però rimase forzata e inverosimile. Uno dei boia estrasse un lungo sottile coltello a due tagli e ne esaminò il filo alla luce

Seguirono “odiose cerimonie”

Questo “odiose” fa venie in mente il sacrificio di Ifigenia esecrato da Lucrezio come uno dei tanti orrori causati dalla superstizione - Tantum religio potuit suadere malorum” a crimini tanto grandi poté indurre la religione, è forse il verso di commento (I, 1OI), uno dei più noti del De rerum natura.

Si passavano l’un l’altro il coltello.

 

I carnefici possono simboleggiare le diverse malattie che prima o poi ci affosseranno.

 

K pensò di dovere usare a quei due la cortesia di pugnalarsi da solo. Pensiero del suicidio, il cupio dissolvi di K.

Non poté dare una buona prova togliendo ogni fatica all’autorità, ma la responsabilità di questo ultimo errore era di colui che gli aveva negato il resto dell’energia occorrente.

 Di nuovo l’ombra gettata sulla vita di Kafka dal padre

K girò la testa verso l’ultimo piano della casa. “Si spalancarono le impronte di una finestra . Un uomo debole e sottile si sporse di colpo e tese le braccia. Chi era? Un amico? Un buon diavolo? Un sostenitore? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? Era ancora possibile ricevere aiuto? C’erano obiezioni dimenticate?

E’ il grande mistero della morte per noi mortali

Certo che c’erano obiezioni. La logica è bensì incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuol vivere” (p. 232)

 

 Ma K non voleva vivere. La vita è anche logos ma non è logica. Tanto meno la morte.

 

C’è una speranza in queste ultime parole di K? 

La speranza non si compie mai e i boia lo uccidono

Max Brod amico, poi editore e biografo di Kafka gli domandò: “c’è ancora speranza?”

Kafka sorrise: “Oh certo, molta speranza, infinita speranza; ma non per noi”. La speranza che fiorisce sempre di nuovo, poi sfiorisce sempre rende il mondo di Kafka tragico e disperato.

Cfr. Il vaso di Pandora: la speranza si trova nell’orcio tra i mali

Kierkegaard: “si deve colpire a morte la speranza terrestre e solo allora ci si salva con la speranza vera”

 

Leggiamo le ultime parole: “dov’era il giudice che egli non aveva mai visto? Dove il supremo tribunale fino al quale non era mai arrivato? Alzò le mani e allargò le dita.

Ora le mani di uno dei signori si posarono sulla gola di K mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e ve lo girava due volte.

Con gli occhi prossimi a spegnersi K fece in tempo a vedere i signori che vicino al suo viso. Guancia contro guancia, osservavano l’esito.

“Come un cane!” disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere”

 

Fine di Il processo

 

Uomini donne e cani

Nel romanzo Il castello viene descritta una copula atroce, da cani, per denunciare l'impossibilità o l'impotenza dell'amore tra K. e Frieda:

"poiché la seggiola era accanto al capezzale, vacillarono e caddero sul letto. E lì giacquero, ma non con l'abbandono di quella prima notte. Lei cercava qualcosa, e lui pure, e ciascuno, furente e col viso contratto, cercava, conficcando il capo nel petto dell'altro: né i loro amplessi né i loro corpi tesi li rendevan dimentichi, ma anzi li richiamavano al dovere di cercare ancora; come i cani raspano disperatamente il terreno, così essi scavavano l'uno il corpo dell'altro, e poi, delusi, smarriti, per trovare un'ultima felicità, si lambivano a volte con la lingua vicendevolmente il viso. Solo la stanchezza li pacificò e li riempì di mutua gratitudine. Poi sopraggiunsero le due serve. "Guarda quei due sul letto" disse l'una, e per compassione li coprì d'un lenzuolo"[1].

 

Il modello è il De rerum natura di Lucrezio

"sic in amore Venus simulacris ludit amantis/nec satiare queunt spectando corpora coram/nec manibus quicquam teneris abradere membris/possunt errantes incerti corpore toto./Denique cum membris collatis flore fruuntur/aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus/atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,/adfigunt avide corpus iunguntque salivas/oris et inspirant pressantes dentibus ora,/nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt/nec penetrare et abire in corpus corpore toto;/nam facere interdum velle et certare videntur:/usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,/ membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt " (IV, vv. 1101 - 1114), così nell'amore Venere con i simulacri beffa gli amanti, né possono saziarsi rimirando i corpi presenti, né con le mani possono raschiare via nulla alle tenere membra, mentre errano incerti per tutto il corpo. Infine, come, congiunte le membra, godono del fiore della giovinezza, quando già il corpo pregusta il piacere e Venere è sul punto di seminare i campi della femmina, inchiodano avidamente il corpo e mescolano le salive della bocca, e ansimano premendo coi denti le labbra, invano poiché di lì non possono raschiare via niente, né penetrare e sparire nel corpo con tutto il corpo, infatti sembrano talvolta volere farlo lottando: a tal punto sono avidamente attaccati nei lacci di Venere, mentre le membra sdilinquite dalla violenza del piacere si struggono

nequiquam (1110) : "la pesante parola, che costituisce un molosso (una sequenza, cioè, di tre sillabe lunghe) ed è collocata nel risalto della sede iniziale davanti a cesura semiternaria, non lascia scampo alle illusioni degli amantes "[2].

La stesso avverbio sesquipedale si ripete al v. 1133. -

in corpus corpore ( 1111): il poliptoto a contatto è espressivo del desiderio simbiotico dei due amanti, ma la simbiosi non è amore:"In contrasto con l'unione simbiotica, l'amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità"[3]. -

certare videntur (1112): la volontà simbiotica include quella di lottare per la sopraffazione poiché ognuno dei due vuole essere l'elemento predominante e un rapporto alla pari non è possibile siccome anche le relazioni erotiche, come tutte quelle umane, se non vengono corrette dalla moralità, sono connotate dalla legge del più forte che sottomette e sfrutta chi è più debole.

 

Abbiamo già sentito Tucidide (V, 105, 2) per la sfera politico - militare, ora diamo la parola a C. Pavese per quella più genericamente umana e più specificamente amorosa:" Tipologia delle donne: quelle che sfruttano e quelle che si lasciano sfruttare... Le prime sono melliflue, urbane, signore. Le seconde sono aspre, maleducate, incapaci di dominio di sé. (Ciò che rende villani e violenti è la sete di tenerezza.) Tutti e due i tipi confermano la impossibilità di comunione umana. Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli"[4]. -

 

 In Veneris compagibus haerent (1113) : l'amore come trappola che allaccia e come rete è denunciato da Cassandra nell'Agamennone di Eschilo: "ajll j a[rku" hJ xuvneuno"" (v. 1116), ma una rete è la compagna di letto.

 

gianni: studente e povero, non come il Duca del Rigoletto.

"Sono studente, povero, commosso mi diceva" (II, 6) Francesco Maria Piave 

 



[1]F. Kafka, Il castello , p. 84.

[2]G. B. Conte, op. e p. citate sopra.

[3]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 35.

[4]Il mestiere di vivere , 15 ottobre 1940.

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