Personae
Corrado Augias, Giovanni Ghiselli e Publio Ovidio Nasone
Leggo nel quotidiano “la Repubblica” di oggi, 19 ottobre 2020, un articolo di Corrado Augias dal titolo “Non chiamatelo lockdown” (pagina 24)
Concordo in pieno con queste parole del giornalista che precedentemente ho criticato, a ragion veduta e spiegata ai lettori.
Il succo del pezzo di oggi è: “mai adottare un termine straniero quando ne esista l’equivalente italiano”. Sono le parole giuste per confutare l’anglomania.
Augias suggerisce clausura usata in senso laico: "spogliata del suo significato ecclesiastico come un buon numero di autori ci autorizza a fare, la parola clausura appare non solo idonea a sostituire lo spigoloso lockdown (su otto lettere sei consonanti e due sole vocali) ma ha anche un bel suono e si giova della sua radice clavis (chiave) quindi portatrice immediata del significato di doversi ritirare in un luogo appartato come misura di prudente salvaguardia”.
Se mancasse la parola italiana corrispondente al termine inglese, caso molto raro, giacché l’inglese è una lingua germanica profondamente latinizzata: “al 75% del suo vocabolario è latina e neolatina”, come rileva il compianto Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni.
Io quindi propongo come eventuale sostituzione del termine inglese, laddove l’italiano non bastasse, una parola della lingua che è madre del nostro parlare ed è nutrice degli idiomi usati dagli anglofoni. Dico ovviamente del latino.
Allora, per non usare lo “spigoloso” lockdown, propongo relegatio che oltretutto era una pena relativamente mite e non comportava la deminutio capitis.
Allego la testimonianza di Ovidio che venne appunto relegato a Tomi, sul Pontus Euxinus, dove si trovava molto male invero.
Il poeta di Sulmona lamenta il suo allontanamento dal cultus dalla dolce vita di Roma, tuttavia chiarisce che il pur duro editto fu mite nel nome siccome egli in quanto punito con l’esclusione dalla patria non viene chiamato exul, bensì relegatus.
“Adde quod edictum, quamvis inmite minaxque
attamen in poenae nomine lene fuit:
quippe relegatus, non exul dicor in illo” (Tristia, II, 135-137).
Voi chiederete: ma per quale colpa noi siamo stati puniti? Quali crimini abbiamo commesso?
Ovidio dice che l’accusa contro di lui è di essere divenuto turpi carmine (v. 211), maestro di impudico adulterio: “arguor obscaeni doctor adulterii” (v. 212)
Al v. 207 il poeta segnala un altro crimen oltre il carmen: un error del quale però deve essere taciuta la colpa.
Ora vi domando: “chi di voi, di noi tutti, non ha commesso errori e non ha scritto o almeno pensato delle oscenità?”. A me questa relegatio era senz’altro dovuta. Del resto ne ho fatto buon uso imparando molte cose.
Forse i neonati sono innocenti: infatti sono quasi tutti risparmiati dal flagello del virus
Bologna 19 ottobre 2020 ore 17, 40
giovanni ghiselli
p. s.
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