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Calipso
Fin
dal primo canto dell’Odissea,
Atena dice a Zeus che Ulisse si trova su un'isola in mezzo alle onde , “dov'è
l'ombelico del mare” - o{qi t j ojmfalov" ejsti qalsvssh", v. 50 - e vi abita una dea la
quale cerca di incantarlo con dolci e seducenti parole perché dimentichi Itaca,
ma egli, per il desiderio di scorgere anche solo il fumo che balza dalla sua
terra, agogna morire (" iJevmeno" kai; kapno;n
ajpoqrwv/skonta noh'sai - h|" gaivh", qanevein iJmeivretai", I, vv. 58 - 59).
Nel V canto Atena
intercede di nuovo per il rientro a Itaca del suo protetto. Ricorda a Zeus che
Odisseo giace soffrendo dure pene nell’isola dove Calipso lo tiene per forza
( h{ min ajnavgkh/ - i[scei, vv. 14 - 15). Il padre degli dèi si convince e manda Ermes a Ogigia
perché ordini a Calipso di lasciar partire Ulisse.
Ermes si
recò nell’isola a volo (pevteto, v. 49), poi entrò nella grande spelonca (mevga spevo~, v. 57), dove abitava la ninfa
dai bei riccioli: la trovò, ma con lei non c’era Odisseo il quale piangeva
seduto sulla riva ( o{ g j ejp j ajkth`~ klai`e kaqhvmeno~, v. 82) , lacerandosi l'anima con
lamenti e dolori, e lanciava lo sguardo sul mare infecondo versando lacrime.
Calipso
chiese a Ermes la causa della sua venuta, non senza offrirgli il pranzo
ospitale e permettergli di desinare prima di rispondere.
Ermes riferì
alla ninfa il volere di Zeus.
Allora
rabbrividì (rJivghsen) Calipso, luminosa tra le dèe (v. 116), poi si mise a
parlare. Rinfacciò agli dèi la loro invidia della felicità sessuale delle dèe
con i mortali ricordando i casi di Aurora e
del cacciatore Orione, che fu ucciso da Artemide[1], e di Demetra con Iasìone che venne fulminato da Zeus.
Ora
l'invidia degli dèi colpisce Calipso e gli vuole strappare Odisseo che ella
aveva salvato dopo il naufragio causato dal fulmine abbagliante di Zeus. Non è
giusto, ma se questa è la volontà del Cronide, ella obbedirà: lascerà partire
Ulisse, e, pur se non potrà soccorrerlo, gli darà volentieri consigli e non gli
nasconderà il modo di tornare sano e salvo nella sua terra (vv. 143 - 144).
Infine Ermes
ripartì e Calipso andò in cerca del magnanimo Ulisse.
Quindi “lo trovò
seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva
la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la
ninfa" (ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh, V, 151 - 153).
Quattro parole
per spiegare un fatto naturale colto nella sua essenzialità.
Non c’è
bisogno di chiacchiere per spiegare il calo o la mancanza del desiderio.
Calipso gli
dice che lo lascia partire, che, anzi, lo aiuterà a partire dandogli il
viatico: pane, acqua, vino rosso (si`ton kai; u{dwr kai; oi\non ejruqrovn, v. 265) e vesti (ei{mata, v. 167). Odisseo è, come sempre,
diffidente, ma Calipso giura sulla terra, sul cielo e sullo Stige, il
giuramento più grande e terribile, che lo aiuterà con lo stesso impegno con il
quale provvederebbe a se stessa poiché, dice, sono giusta e nel mio petto non
c’è un cuore di ferro ma compassionevole ( oujde; moi
aujth`/ - qumo;~ ejni; sthvqessi sidhvreo~, ajll j ejlehvmwn, vv. 190 - 191)
La nobiltà di Calipso.
E' nobile
questa reazione della persona abbandonata la quale capisce le ragioni del
distacco e aiuta l'amante che se ne va. Poiché quando un uomo e una donna si
scambiano aiuto e piacere, se davvero sono un uomo e una donna e non due
caricature di esseri umani, non può non rimanere la riconoscenza per quanto si
è ricevuto e la soddisfazione per ciò che si è dato.
Segnalo,
viceversa, il peccato che il Giobbe di J. Roth attribuisce a se stesso e alla moglie morta:"
Piena di travaglio e senza senso è stata la tua vita. Nella giovinezza ho goduto della tua carne,
più tardi l'ho sdegnata. Forse è stato questo il nostro peccato. Perché
non c'era in noi il calore dell'amore, ma fra noi il gelo dell'abitudine, tutto
è morto intorno a noi, tutto è intristito e si è rovinato"[2].
Vediamo
l’ingratitudine e la spietatezza del “pius Aeneas” (Eneide, IV,
393) denunciate dall’abbandonata Didone
Quando Enea
prepara la fuga da Cartagine, la Fama, impia , porta la brutta
notizia alla donna già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia
di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi
totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300 - 301, ella
infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.
Quindi la
disgraziata regina affronta Enea al grido di "perfide "
(305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[3] , prima lo aggredisce
rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la propria morte,
invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di impietosirlo:" Dissimulare
etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec
te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere
Dido? " (vv. 305 - 308), hai sperato, perfido persino di
dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza
dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né
Didone pronta a morire di morte crudele? A proposito della data dextera si
ricorderanno della Medea di Euripide i già citati vv. 21 - 22:
"ajnakalei' de; dexia'" - pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della
mano destra.
Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos
hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum,
miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue
mentem "
(vv. 316 - 319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben
meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di
una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche
posto per le preghiere. Anche questi contengono e suscitano echi . Il primo
"è un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed conubia nostra,
sed optatos hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche
di gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di
parola, cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con
tutte le preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più
"tragico"[4].
Enea le
risponde: "Desine meque tuis incendere teque querellis - Italiam non
sponte sequor" (360 - 361). E' uno degli aspetti dell'empia pietas di
Enea denunciata recentemente da Gustavo
Zagrebelsky[5]
giovanni
ghiselli
[1] Poi mutato in costellazione: Cfr
“Quando Orїon dal cielo/declinando imperversa,” l’incipit dell’Ode La caduta del
Parini
[2]J. Roth, Giobbe , p. 141.
[3]64, 133.
[4]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p. 425.
[5] La pia
ipocrisia di Enea eroe di regime
Una rilettura del personaggio virgiliano
dall’abbandono di Didone al mito di Augusto
di Gustavo Zagrebelsky “la Repubblica” 14.5.15
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