PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUI l'uccisione di Agamennone
Umano è chi dal dolore impara a non infliggerlo ad altri. La funzione
pedagogica della sofferenza. Eschilo nell'Agamennone (v. 177): "tw'/ pavqei
mavqo"", attraverso la sofferenza la comprensione
Il pianto. La dolcezza delle lacrime. Il pianto può sciogliere il dolore
e avviarlo a comprendere la sofferenza propria e quella degli altri.
Le lacrime
manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le
lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al
drammaturgo ateniese, come a Virgilio[1], interessano
le situazioni che grondano pianto. Piangere può essere consolatorio: "come
sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu;
davkrua toi'" kakw'" pepragovsi )/e i
lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv.
608 - 609).
La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere
pure piacevole:"avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che
viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn)", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima
(Elettra, vv. 125 - 126).
Nell'Elena di
Euripide, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e
la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno
più/dolcezza che dolore"(654 - 655).
La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è
reperibile pure in D'Annunzio:
Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di
scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà:" - Oh, lasciami
bere - io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le
bagnai nel suo pianto"[2].
"Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich"
(L'uomo senza qualità, di Musil, p.210)
Dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.
Su
questo possiamo sentire Proust:
"Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire,
trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di
quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo
il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha
fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha
rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto
comprendere (...) Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse
Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un
segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia,
allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal
essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno
di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col
riuscire ben spossante!"[3].
Dal dolore
dei Greci si sviluppa non solo la sofferenza ma anche la bellezza, una sorta
di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore (…)
la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza,
di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza,
dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore (…) quanto dovette soffrire
questo popolo, per poter diventare così bello!"[4].
Lo studio dei classici serve ad accrescere la nostra umanità
Umanistica è
la volontà di imparare attraverso "una lunga esperienza delle cose moderne
et una continua lezione delle antique"[5].
Il
fondamento necessario della nostra civiltà e cultura è la lezione degli antichi
a partire dai greci
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe
chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente;
non sono servi di nessuno; per questo sono belli".
Non è questa la nostra risposta. Se
e vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle
mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza e
impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura
peculiare dell'uomo che è animale linguistico.
Il greco e il latino servono alle relazioni umane,
quindi all’umanità e alla civiltà: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e
di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua
italiana piu e meglio di chi non li conosce.
Sa anche pensare piu e meglio di chi non li conosce.
Sa volere bene e amare più e meglio di chi non li conosce. Studiando e comprendendo il greco e
il latino si diventa più umanisti e più umami. L’umanesimo è prima di tutto amore dell’umanità.
Umanesimo è anche parlare e scrivere in
maniera perspicua e questa capacità è oggi in forte declino.
Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male
nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqi
(…) a[riste
Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to
plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene (…)
ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette
anche del male nelle anime.
Non
conoscere il latino significa cecità o almeno debolezza di vista linguistica.
“L'uomo che
non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il
tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza
solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa
indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano,
attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità. - Il greco o
addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte. Chi non
conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande
virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale
dell'acido di spato di fluoro"[6].
[1] Cfr. " sunt lacrimae
rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono
lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
[2] L'Innocente.p. 145.
[3] M. Proust, Il tempo ritrovato ,
pp. 239 e 242.
[4] F. Nietzsche, La nascita della
tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[5] N.
Machiavelli, Il Principe (del 1513), Dedica al Magnifico
Lorenzo De' Medici.
[6] A.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
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