giovedì 15 ottobre 2020

"Filosofi lungo l'Oglio" V

l'uccisione di Agamennone
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Umano è chi dal dolore impara a non infliggerlo ad altri. La funzione pedagogica della sofferenza. Eschilo nell'Agamennone (v. 177): "tw'/ pavqei mavqo"", attraverso la sofferenza la comprensione

 

 

Il pianto. La dolcezza delle lacrime. Il pianto può sciogliere il dolore e avviarlo a comprendere la sofferenza propria e quella degli altri.

 

Le lacrime manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[1], interessano le situazioni che grondano pianto. Piangere può essere consolatorio: "come sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'" pepragovsi )/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv. 608 - 609).

 

La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere pure piacevole:"avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn)", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (Elettra, vv. 125 - 126).

 

 Nell'Elena di Euripide, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che dolore"(654 - 655).

 

La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà:" - Oh, lasciami bere - io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto"[2].

 

"Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich" (L'uomo senza qualità, di Musil, p.210)

 

Dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.

 Su questo possiamo sentire Proust: "Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere (...) Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[3].

 

 Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la sofferenza ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore (…) la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore (…) quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[4].

 

 

Lo studio dei classici serve ad accrescere la nostra umanità 

Umanistica è la volontà di imparare attraverso "una lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[5].

Il fondamento necessario della nostra civiltà e cultura è la lezione degli antichi a partire dai greci

 

Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli".

Non è questa la nostra risposta. Se e vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza e impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico.

Il greco e il latino servono alle relazioni umane, quindi all’umanità e alla civiltà: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.

Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana piu e meglio di chi non li conosce.

Sa anche pensare piu e meglio di chi non li conosce. Sa volere bene e amare più e meglio di chi non li conosce. Studiando e comprendendo il greco e il latino si diventa più umanisti e più umami. Lumanesimo è prima di tutto amore dellumanità.

Umanesimo è anche parlare e scrivere in maniera perspicua e questa capacità è oggi in forte declino.

 

Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

Non conoscere il latino significa cecità o almeno debolezza di vista linguistica.

 

“L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità. - Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"[6].

 



[1] Cfr. " sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.

[2] L'Innocente.p. 145.

[3] M. Proust, Il tempo ritrovato , pp. 239 e 242.

[4] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.

[5] N. Machiavelli, Il Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.

[6] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.

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