PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUI Flight of the Montgolfier Brothers over the Tuileries (1783)
Argomenti
Eracle viene indicato come capo ma
l’eroe declina l’invito e propone Giasone che accetta. Vincenzo Monti vorrebbe
essere l’Orfeo del signore di Montgolfier. Seneca nella sua tragedia Medea condanna
la violazione del mare da parte dei navigatori e la confusione dei popoli che
ne seguì. Castore e Polluce vengono celebrati da Pindaro nella Nemea X, poi
da Teocrito nell’Idillio XXII. Il pio Idmone e il bestemmiatore Ida. Orfeo
canta un poema cosmogonico incantando anche i pesci. La nave salpa e Chirone va
a salutare gli Argonauti accompagnato dalla concubina che teneva in braccio
Achille mostrandolo a Peleo.
Giasone tiene un discorso ai
compagni (I, 330 ss.). Chiede loro di scegliere un capo sottolineando il
carattere collettivo dell’impresa. Tutti indicarono Eracle. Ma l’eroe declina
l’invito proponendo Giasone. Il figlio di Esone si alzò contento e accettò. Nel
parlare Eracle è autoritario (non si alza), Giasone diplomatico: è
l’opposizione tra eroismo arcaico e abilità oratoria capace di sedurre.
Giasone propone un sacrificio ad
Apollo e una cena.
Prima però viene messa in mare e
ancorata la nave. Tifi venne scelto come Pilota (cfr. Monti)
Vincenzo Monti Ode al signore di
Montgolfier del
1784
Quando Giason dal Pelio/spinse nel
mar gli abeti,/e primo corse a fendere/co’ remi il seno a Teti;//su l’alta
poppa intrepido/col fior del sangue acheo/vide la Grecia ascendere il
giovinetto Orfeo.//Stendea le dita eburnee/su la materna lira;/e al tracio suon
chetavasi/de’venti il fischio e l’ira.//Meravigliando accorsero/di Doride le
figlie[1],/Nettuno ai verdi alipedi/lasciò cader le
briglie.//Cantava il vate odrisio[2]/d’Argo la gloria intanto/e dolce errar
sentivasi/su l’alme greche il canto”[3].
Monti vorrebbe avere la cetra e le
capacità poetiche di Orfeo per celebrare il “ della Senna… novello Tifi
invitto” (vv. 21 - 22), ossia lo stesso Montgolfier: “Deh! perché al nostro
secolo/non diè propizio il fato/d’un altro Orfeo la cetera/se Montgolfier n’ha
dato?” (vv. 29 - 32).
Contro la navigazione
Non da tutti è celebrata e ben vista
l’impresa degli Argonauti
Seneca contrappone l'età
preargonautica a quella successiva a Tifi, il pilota della nave Argo:"Ausus
Tiphis/pandere vasto carbǎsa ponto/legesque novas scribere ventis" (Medea,
vv. 317 - 319), Tifi osò distendere le vele sul vasto mare e dettare leggi
nuove ai venti
L' u{bri" di Tifi è
simile a quella di Serse che cercò di unificare i mondi separati dell'Asia e
dell'Europa gettando un giogo sull'Ellesponto e tentando di sottomettere la
Grecia
Seneca attraverso questo secondo
coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo
audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam
fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit
auris… " (vv. 301 - 304), Audace troppo chi per primo ruppe con
la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra
affidò la vita ai venti incostanti. Il primo a violare il mare è stato Giasone
la cui audacia e perfidia ha trovato degni antagonisti nei freta
perfida.
Il terzo coro, con l’ultima strofe
saffica, consiglia "vade, qua tutum
populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " ( Medea, vv. 605 - 606), procedi per dove il
cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le
sacrosante regole del mondo.
Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento: "Quisquis
audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit
umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi
labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro
temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum "
( Medea, vv. 607 - 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi
della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[4];
chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli del mare,
gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro
straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio
il mare provocato.
Giasone prega Apollo ricordandogli:
“ tu stesso sei ejpaivtio~ ajevqlwn (414), causa delle fatiche”. A Pito l’oracolo
gli aveva promesso la guida e il successo del viaggio.
La fiamma del sacrificio splende e l’indovino
Idmone ne trae un augurio per un verso propizio. L’impresa avrà successo ma
costerà infinite prove e fatiche infinite (ajpeirevsioi a[eqloi, 441, cfr. Odissea I).
Idmone sa che dovrà morire ma parte lo stesso. Il banchetto degli altri è
lieto, ma Giasone era cupo nel volto ed era ajmhvcano~ (460).
Quindi Ida lo rimprovera, non senza
bestemmiare come aveva fatto l’Aiace di Sofocle (Aiace, vv. 768 - 769) .
Dice che fino a quando ci sarà Ida tutto andrà a buon fine, anche se un dio si
oppone. A me neanche Zeus giova quanto la lancia (468)
Di questo bestemmiatore parla anche
Pindaro nella Nemea X, la grande ode di Castore e Polluce. Ida
trafisse Castore, adirato per i buoi rubati dai Dioscuri. Il fratello di Ida,
Linceo, dal Taigeto aveva visto i Dioscuri nascosti nel cavo di una quercia.
Aveva l’occhio più acuto tra i mortali. Castore morì, e Polluce ammazzò Linceo.
Ida venne folgorato da Zeus.”E bruciarono nella solitudine” (v. 73). E’ dura
l’eris con i più forti.
Polluce cedette parte della propria
immortalità a Castore redento da alterna morte.
Anche Teocrito (XXII, 210
- 211) ricorda la morte di Ida. Il contempor divom finisce
come Capaneo.
L’idillio XXII canta i Dioscuri: Polluce
celebrato come pugilatore, Castore come guerriero. Qui Amico non muore come in
Apollonio ma con il rispetto dovuto all’avversario. I due figli di Leda salvano
gli uomini sul crinale della morte, in guerra o nella navigazione. Sollevano le
navi dall’abisso con i naviganti che già si aspettavano la morte. Sono qnhtoi`si
bohqovoi (23)
cavalieri, citaristi, atleti, aedi.
La nave Argo giunse presso i Bebrici
appena sfuggiti alle rocce cozzanti
Uscirono dalla giasonia nave anche
Castore e Polluce oijnwpov~ (34) con il volto dal colore del vino epiteto di
Dioniso in Edipo re (v. 211). Andarono a una fonte. I ciottoli
del fondo scintillavano come cristallo d’argento e c’erano pioppi, platani,
cipressi chiomati e fiori odorosi, lavoro gradito per le api vellutate.
Là c’era un uomo immane, deino;~ ijdei`n, tremendo alla vista, con le
orecchie spezzate dai pugni, il petto gigantesco, petto e dorso turgidi di
carne ferrigna (cfr. D’Annunzio: in ogni muscolo gli fremeva una vita
inimitabile) come un colosso battuto col martello (potrebbe essere l’ejkfrasi~ della statua del Pugilista di
Apollonio Nestorio del I secolo ma che forse risale a un originale del III
secolo. Si trova nel Museo delle Terme di Roma).
I muscoli si levavano come pietre
tondeggianti levigate da un fiume vorticoso. Aveva sul dorso una pelle leonina
Sfida Polluce. Arrivano Bebrici e
Argonauti come spettatori. Si attrezzarono con le strisce di cuoio spirando
reciproca morte fovnon ajllhvloisi pnevonte~ (82)
Il Bebrico era simile a Tizio che
in Od. XI 577 è steso per nove plettri (29, 57 metri ciascuno)
per avere tentato di violentare Latona.
Ma Polluce lo colpisce più volte
fino a renderlo ubriaco di colpi (plhgai`~ mequvwn, 98)
Polluce lo confondeva con finte e
infine gli sferrò un pugno al di sopra del naso e gli lacerò la fronte. Amico
cadde ma si rialzò e Polluce gli sfigurava il volto.
Il suo corpo diventava minuto per il
sudore, mentre Polluce si rinvigoriva e assumeva un colorito migliore.
Torniamo alle Argonautiche quando
Idmone risponde al blasfemo Ida notando che beve vino puro e dice parole
stupide e superbe.
Allora il bestemmiatore scoppiò in
una risata (ejgevlassen) e stava per malmenarlo ma intervenne Giasone.
Poi Orfeo prende la cetra e
inizia a cantare un poema cosmogonico di stampo empedocleo. La terra, il cielo
e il mare, un tempo uniti, vennero divisi dalla discordia funesta (neivkeo~ ejx
ojloi`o dievkriqen, 498). Il
poema di Orfeo giunge fino a Zeus ancora fanciullo con pensieri infantili
quando abitava la grotta Dittea di Creta e non aveva ancora avuto il fulmine
dai Ciclopi. Un’allusione alla fine di Ida.
Gli eroi al sentirlo tendevano
l’orecchio e allungavano il collo (512). Il canto aveva lasciato in loro
fascinazione.
Segue l’imitazione omerica con variatio (Aurora
con occhi lucenti, 519).
Poi salpano tra grida del porto e
della stessa nave Argo, la figlia del monte Pelio che li incitava a partire.
C’era dentro la nave una trave sacra e parlante che Atena ricavò da una quercia
di Dodona.
Gli eroi sedettero sui banchi: nel
mezzo Eracle sotto il cui peso si abbassò la chiglia.
Nota realistica, quasi comica
(cfr. le Troiane).
Giasone piange. Remavano al suono
della lira di Orfeo.
Le armi al sole brillavano come
fiamme e la scia della nave biancheggiava (makrai; d j aije;n
ejleukaivnonto kevleuqoi, 545) come
un sentiero in mezzo alla verde pianura
Dai monti scende Chirone con la
concubina paravkoitiς che teneva in braccio il
piccolo Achille e lo mostrava a Peleo (557 - 558). Una scena familiare
raffigurata in diversi sarcofaghi d’età imperiale. Il vento sonoro piombò sulle
vele. Orfeo cantava e i pesci balzavano dal mare profondo sull’umida via.
Seguivano la nave come fa il gregge dietro a un pastore (574 - 575).
giovanni ghiselli
[1] Le Nereidi.
[2] Tracio.
[3] Ode Al signor di Montgolfier (vv.
1 - 20), del 1784, in quartine di settenari.
[4] Si noti l’oltraggio
all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio la
terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per
il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne
piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta
(arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro
riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110 - 111),
mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec
amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113). Nell’Achilleide Stazio
ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia
spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres:
minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426 - 428),
in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto
Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia. L’Otris
è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che
sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33,12) in
bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14,7 Km all’ora.
All’età di 62 anni e 8 mesi.
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