lunedì 19 ottobre 2020

"Argonautiche" di Apollonio Rodio. 4. I canto (330-575)

Flight of the Montgolfier Brothers over the Tuileries (1783)
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Eracle viene indicato come capo ma l’eroe declina l’invito e propone Giasone che accetta. Vincenzo Monti vorrebbe essere l’Orfeo del signore di Montgolfier. Seneca nella sua tragedia Medea condanna la violazione del mare da parte dei navigatori e la confusione dei popoli che ne seguì. Castore e Polluce vengono celebrati da Pindaro nella Nemea X, poi da Teocrito nell’Idillio XXII. Il pio Idmone e il bestemmiatore Ida. Orfeo canta un poema cosmogonico incantando anche i pesci. La nave salpa e Chirone va a salutare gli Argonauti accompagnato dalla concubina che teneva in braccio Achille mostrandolo a Peleo.

 

Giasone tiene un discorso ai compagni (I, 330 ss.). Chiede loro di scegliere un capo sottolineando il carattere collettivo dell’impresa. Tutti indicarono Eracle. Ma l’eroe declina l’invito proponendo Giasone. Il figlio di Esone si alzò contento e accettò. Nel parlare Eracle è autoritario (non si alza), Giasone diplomatico: è l’opposizione tra eroismo arcaico e abilità oratoria capace di sedurre.

Giasone propone un sacrificio ad Apollo e una cena.

Prima però viene messa in mare e ancorata la nave. Tifi venne scelto come Pilota (cfr. Monti)

 

Vincenzo Monti Ode al signore di Montgolfier del 1784

Quando Giason dal Pelio/spinse nel mar gli abeti,/e primo corse a fendere/co’ remi il seno a Teti;//su l’alta poppa intrepido/col fior del sangue acheo/vide la Grecia ascendere il giovinetto Orfeo.//Stendea le dita eburnee/su la materna lira;/e al tracio suon chetavasi/de’venti il fischio e l’ira.//Meravigliando accorsero/di Doride le figlie[1],/Nettuno ai verdi alipedi/lasciò cader le briglie.//Cantava il vate odrisio[2]/d’Argo la gloria intanto/e dolce errar sentivasi/su l’alme greche il canto”[3].

Monti vorrebbe avere la cetra e le capacità poetiche di Orfeo per celebrare il “ della Senna… novello Tifi invitto” (vv. 21 - 22), ossia lo stesso Montgolfier: “Deh! perché al nostro secolo/non diè propizio il fato/d’un altro Orfeo la cetera/se Montgolfier n’ha dato?” (vv. 29 - 32).

 

Contro la navigazione

Non da tutti è celebrata e ben vista l’impresa degli Argonauti

Seneca contrappone l'età preargonautica a quella successiva a Tifi, il pilota della nave Argo:"Ausus Tiphis/pandere vasto carbǎsa ponto/legesque novas scribere ventis" (Medea, vv. 317 - 319), Tifi osò distendere le vele sul vasto mare e dettare leggi nuove ai venti

L' u{bri" di Tifi è simile a quella di Serse che cercò di unificare i mondi separati dell'Asia e dell'Europa gettando un giogo sull'Ellesponto e tentando di sottomettere la Grecia

 

Seneca attraverso questo secondo coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris… " (vv. 301 - 304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti. Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia e perfidia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.

Il terzo coro, con l’ultima strofe saffica, consiglia "vade, qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " ( Medea, vv. 605 - 606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo. 

Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento: "Quisquis audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum " ( Medea, vv. 607 - 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[4]; chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato.

 

Giasone prega Apollo ricordandogli: “ tu stesso sei ejpaivtio~ ajevqlwn (414), causa delle fatiche”. A Pito l’oracolo gli aveva promesso la guida e il successo del viaggio.

 La fiamma del sacrificio splende e l’indovino Idmone ne trae un augurio per un verso propizio. L’impresa avrà successo ma costerà infinite prove e fatiche infinite (ajpeirevsioi a[eqloi, 441, cfr. Odissea I). Idmone sa che dovrà morire ma parte lo stesso. Il banchetto degli altri è lieto, ma Giasone era cupo nel volto ed era ajmhvcano~ (460).

Quindi Ida lo rimprovera, non senza bestemmiare come aveva fatto l’Aiace di Sofocle (Aiace, vv. 768 - 769) . Dice che fino a quando ci sarà Ida tutto andrà a buon fine, anche se un dio si oppone. A me neanche Zeus giova quanto la lancia (468)

 

Di questo bestemmiatore parla anche Pindaro nella Nemea X, la grande ode di Castore e Polluce. Ida trafisse Castore, adirato per i buoi rubati dai Dioscuri. Il fratello di Ida, Linceo, dal Taigeto aveva visto i Dioscuri nascosti nel cavo di una quercia. Aveva l’occhio più acuto tra i mortali. Castore morì, e Polluce ammazzò Linceo. Ida venne folgorato da Zeus.”E bruciarono nella solitudine” (v. 73). E’ dura l’eris con i più forti.

Polluce cedette parte della propria immortalità a Castore redento da alterna morte.

 

Anche Teocrito (XXII, 210 - 211) ricorda la morte di Ida. Il contempor divom finisce come Capaneo.

L’idillio XXII canta i Dioscuri: Polluce celebrato come pugilatore, Castore come guerriero. Qui Amico non muore come in Apollonio ma con il rispetto dovuto all’avversario. I due figli di Leda salvano gli uomini sul crinale della morte, in guerra o nella navigazione. Sollevano le navi dall’abisso con i naviganti che già si aspettavano la morte. Sono qnhtoi`si bohqovoi (23) cavalieri, citaristi, atleti, aedi.

La nave Argo giunse presso i Bebrici appena sfuggiti alle rocce cozzanti

Uscirono dalla giasonia nave anche Castore e Polluce oijnwpov~ (34) con il volto dal colore del vino epiteto di Dioniso in Edipo re (v. 211). Andarono a una fonte. I ciottoli del fondo scintillavano come cristallo d’argento e c’erano pioppi, platani, cipressi chiomati e fiori odorosi, lavoro gradito per le api vellutate.

Là c’era un uomo immane, deino;~ ijdei`n, tremendo alla vista, con le orecchie spezzate dai pugni, il petto gigantesco, petto e dorso turgidi di carne ferrigna (cfr. D’Annunzio: in ogni muscolo gli fremeva una vita inimitabile) come un colosso battuto col martello (potrebbe essere l’ejkfrasi~ della statua del Pugilista di Apollonio Nestorio del I secolo ma che forse risale a un originale del III secolo. Si trova nel Museo delle Terme di Roma).

I muscoli si levavano come pietre tondeggianti levigate da un fiume vorticoso. Aveva sul dorso una pelle leonina

Sfida Polluce. Arrivano Bebrici e Argonauti come spettatori. Si attrezzarono con le strisce di cuoio spirando reciproca morte fovnon ajllhvloisi pnevonte~ (82)

Il Bebrico era simile a Tizio che in Od. XI 577 è steso per nove plettri (29, 57 metri ciascuno) per avere tentato di violentare Latona.

Ma Polluce lo colpisce più volte fino a renderlo ubriaco di colpi (plhgai`~ mequvwn, 98)

Polluce lo confondeva con finte e infine gli sferrò un pugno al di sopra del naso e gli lacerò la fronte. Amico cadde ma si rialzò e Polluce gli sfigurava il volto.

Il suo corpo diventava minuto per il sudore, mentre Polluce si rinvigoriva e assumeva un colorito migliore.

 

 

Torniamo alle Argonautiche quando Idmone risponde al blasfemo Ida notando che beve vino puro e dice parole stupide e superbe.

Allora il bestemmiatore scoppiò in una risata (ejgevlassen) e stava per malmenarlo ma intervenne Giasone.

 Poi Orfeo prende la cetra e inizia a cantare un poema cosmogonico di stampo empedocleo. La terra, il cielo e il mare, un tempo uniti, vennero divisi dalla discordia funesta (neivkeo~ ejx ojloi`o dievkriqen, 498). Il poema di Orfeo giunge fino a Zeus ancora fanciullo con pensieri infantili quando abitava la grotta Dittea di Creta e non aveva ancora avuto il fulmine dai Ciclopi. Un’allusione alla fine di Ida.

Gli eroi al sentirlo tendevano l’orecchio e allungavano il collo (512). Il canto aveva lasciato in loro fascinazione.

Segue l’imitazione omerica con variatio (Aurora con occhi lucenti, 519).

Poi salpano tra grida del porto e della stessa nave Argo, la figlia del monte Pelio che li incitava a partire. C’era dentro la nave una trave sacra e parlante che Atena ricavò da una quercia di Dodona.

Gli eroi sedettero sui banchi: nel mezzo Eracle sotto il cui peso si abbassò la chiglia.

 Nota realistica, quasi comica (cfr. le Troiane).

Giasone piange. Remavano al suono della lira di Orfeo.

Le armi al sole brillavano come fiamme e la scia della nave biancheggiava (makrai; d j aije;n ejleukaivnonto kevleuqoi, 545) come un sentiero in mezzo alla verde pianura

Dai monti scende Chirone con la concubina paravkoitiς che teneva in braccio il piccolo Achille e lo mostrava a Peleo (557 - 558). Una scena familiare raffigurata in diversi sarcofaghi d’età imperiale. Il vento sonoro piombò sulle vele. Orfeo cantava e i pesci balzavano dal mare profondo sull’umida via. Seguivano la nave come fa il gregge dietro a un pastore (574 - 575).

 

giovanni ghiselli



[1] Le Nereidi.

[2] Tracio.

[3] Ode Al signor di Montgolfier (vv. 1 - 20), del 1784, in quartine di settenari.

[4] Si noti l’oltraggio all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110 - 111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113). Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426 - 428), in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia. L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33,12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14,7 Km all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.

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