Carracci, Sala del Giasone, Palazzo Fava, Bologna
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Argomenti
Il monosandalismo di Giasone raffigurato nel piano nobile del Palazzo Fava di Bologna dai tre Carracci. La Pitica IV di Pindaro
Giasone con
un solo sandalo arriva al sacrificio che Pelia fa in onore di Poseidone, suo
padre.
Il dio del
mare generò Pelia con Tirò (la prima del catalogo delle eroine dell’XI dell’Odissea)
la quale con Creteo invece generò Esone, il padre di Giasone.
Giasone, il seduttore punito da Medea, si
presentò con un solo sandalo[1],
al sacrificio in onore di Nettuno celebrato dal figlio del dio, (p. 206),
Pelia, lo zio usurpatore, e questo monosandalismo, fa zoppicare in qualche
maniera: “L’arrivo del vendicatore preannunciato da un oracolo e segnato da un
marchio che lo rende riconoscibile alla sua vittima è un tema mitico e
narrativo largamente diffuso nei racconti folklorici: un uomo fatale segnato da
un marchio fu pure Edipo, “l’uomo dai piedi gonfi”, destinato da una profezia a
uccidere il padre (…) Più complesso è il segno di Giasone e il tratto che
distingue la sua missione, vale a dire il monosandalismo: evidentemente il
monosandalismo è una forma simbolica di marchio fisico e una forma attenuata di
zoppia; d’altro lato, l’uso di indossare un solo calzare è un elemento che
s’inserisce in un complesso sistema rituale”[2].
Ma questa parte non riguarda il nostro discorso.
I tre Carracci, i fratelli Agostino e Annibale che con il cugino Ludovico
affrescarono il piano nobile di palazzo Fava a Bologna (1583 - 1584) mettono in
rilievo l’unico piede nudo di Giasone che arriva alle spalle di Pelia il quale
si volta dissimulando a stento l’angoscia.
Pindaro Pitica IV
Anche la IV Pitica di Pindaro racconta l'impresa degli eroi: "che
nessuno rimase dalla madre a smaltire una vita senza rischio"(330).
Una profezia dell’oracolo delfico aveva detto a Pelia che doveva
guardarsi dall’uomo con un solo sandalo (to;n
monokrhvpida, 75)
Giasone disse di essere un allievo di Chirone[3], e che intendeva rivendicare l’onore regale
sottratto al padre Esone, il sovrano legittimo, dall’usurpatore Pelia. Egli era
sparito poiché i genitori spodestati, temendo la prepotenza di un capo
arrogante (uJperfiavlou - aJgemovno~
deivsante~ u{brin, vv. 195 - 196), appena nacque, gli fecero un finto funerale, come se
fosse morto, e lo affidarono a Chirone, la fiera divina (fhvr…qei'o~, v. 211) che lo chiamò
Giasone. Il padre pianse di gioia vedendo il figlio, che era diventato
speciale, il più bello degli uomini (ejxaivreton
- govnon ijdw;n kavlliston ajndrw'n, vv. 217 - 218).
Le vesti erano aderenti alle mirabili membra e i capelli non erano caduti
sotto il taglio del ferro
Ma gli splendevano lungo il dorso (145 - 146)
Gli occhi del padre a vederlo, pullularono di lacrime (219)
Quando lo vide, Pelia gli domandò: “quale umana creatura terrestre ti
buttò fuori dal suo bianco ventre? Non la macchiare di odiose menzogne: di’ la
tua stirpe” (172 - 175)
Il Giasone di Pindaro è diverso da quello di Euripide: si reca nel
palazzo di Pelia e, parlandogli con pacatezza, gli dice che le menti dei
mortali sono più svelte ad approvare un lucro ingannevole che la
giustizia ( qnatw'n frevne~ wjkuvterai
- kevrdo~ aijnh'sai pro; divka~ dovlion, Pitica IV,
vv. 247 - 248) e comunque strisciano verso un amaro giorno dopo la festa. In
fondo Pelia e lui sono consanguinei e dovrebbero eliminare la discordia: le
Moire si allontanano sdegnate, se tra quelli della stessa razza c’è dell’odio
che copre il pudore. Giasone lascerebbe a Pelia le ricchezze, ma vuole lo scettro
da monarca che era di suo padre.
Dobbiamo conciliare i nostri impulsi secondo giustizia e tessere
prosperità futura (uJfaivnein loipo;n o[lbon, 251)
Si allontanano le Moire se tra i consanguinei c’è discordia che occulti
il pudore (259 - 260)
Rendimi il trono senza molestia reciproca (274)
Pelia risponde che lui è vecchio mentre nel nipote a[nqo~ h{ba~ a[rti ku - maivnei (vv. 281 - 282),
ribolle - ondeggia - adesso il fiore della giovinezza: dunque sta a lui
compiere l’impresa necessaria di recuperare il vello d’oro. Se ci riuscirà il
giovane avrà il regno.
“L’incontro dei due eroi e i loro discorsi, che si inseriscono nel
racconto nei modi propri dell’epos omerico, mirano a delinearne la
personalità e i caratteri profondamente diversi: l’uno, Giasone, giovane, bello
e regale nell’aspetto e non privo di abilità e saggezza perché educato
nell’antro del centauro Chirone; l’altro, Pelia, il figlio di Posidone, perfido
e subdolo, iniquo usurpatore del trono, ma astuto e sagace nell’esortare il suo
avversario a compiere l’impresa rischiosa della conquista del vello d’oro. Solo
così gli avrebbe ceduto il regno e il potere. Due volti antitetici della
regalità, l’una illegittima perché conquistata con l’inganno e insieme
tirannica, l’altra legittima e giusta perché rispettosa del diritto ereditario”[4].
Giasone dunque convocò e raccolse la schiera degli eroi. Poi viene il
racconto di una parte dell’impresa. La prima grande prova è quella di schivare
il moto furente delle rupi cozzanti (sundrovmwn
kinhqmo;n ajmaimavketon - ejkfugei'n petra'n, v. 370 - 371). Esse erano
vive e gemelle e rotolavano più impetuose che le schiere dei venti dal rombo
cupo e pesante. Ma quel transito di semidei portò la loro fine.
Quando giunsero al Fasi, il Giasone di Pindaro non è più tanto dissimile
da quello di Euripide. Cipride fece un incantesimo d’amore: aggiogò il
torcicollo[5] variopinto ai quattro raggi di una
ruota indissolubile e insegnò al saggio Esonide le preghiere magiche perché
portasse via a Medea il rispetto dei genitori (o[fra Mhdeiva~ tokevwn ajfevloit j aijdw', vv. 388 - 389) e l’amore la scuotesse,
infiammata nell’animo dalla sferza di Peithò.
Giasone era armato non solo
della bellezza, ma anche della sferza della Persuasione. La ragazza gli diede
un rimedio a dolori duri: mescolò antidoti con l’olio perché se ne ungesse.
Apparve Eeta che arava la terra con buoi i quali spiravano dalle mascelle
bionde fiamma di fuoco ardente, e battevano il suolo, a colpi alterni, con
zoccoli di bronzo. Quindi sfidò altri a farlo, chiunque volesse il vello d’oro.
Giasone gettò la sua veste di croco e compì questa prima impresa. Il re Colco,
ammirando la potenza del giovane, urlò pur nel dolore muto (vv. 421 - 422).
Seguirono gli applausi dei compagni, poi la seconda prova imposta dal figlio
del sole. Il vello d’oro era tenuto stretto dalle avide mascelle di un drago
più grande di una nave da cinquanta remi. Pindaro si affretta verso la
conclusione: lunga via è per me tornare sulla carreggiata, dice, l’ora mi tocca
e conosco un sentiero breve (vv. 339 - 341). Sicché il poeta conclude
rapidamente la storia del vello d’oro: “ktei'ne
me;n glaukw'pa tevcnai~ poikilovnwton o[fin” (v. 444), uccise con
artifici il serpente dall’occhio splendente, dal dorso variopinto[6], poi rapì Medea che fu consenziente e
diverrà l’assassina di Pelia. Preso il vello d’oro gli Argonauti tornarono a
Lemno dove giacquero con le donne e fu piantata la stirpe di Eufemo[7] (v. 456).
“Qui il poeta, nel modo che gli è proprio, interrompe il
racconto…si è scostato troppo dalla strada maestra, egli dice, ma non importa,
poiché conosce vie più brevi per tornarvi…Preme al poeta, poiché il momento
opportuno lo incalza, di esporre in tratti rapidissimi le vicende essenziali
del ritorno degli Argonauti. Varcarono l’oceano e il mare Rosso, giunsero
nell’isola di Lemno, qui nacquero i discendenti di Eufemo che migrarono a
Sparta e poi a Tera (l’antica Calliste[8]) e di lì Apollo concesse loro di raggiungere
la Libia per governare la città di Cirene. Si conchiude così, con struttura
circolare, la seconda parte dell’ode che riconduce il discorso all’attualità…”[9].
Tra gli Argonauti c’era Orfeo molto lodato, Zete e Calais, eroi con il
brivido sul dorso, dalle ali purpurèe, sollecitati dal padre Borea
Era accendeva nei semidèi il desiderio della nave perché nessuno restasse
presso la madre a smaltire una vita senza rischi ( ajkivndunon para; matri; mevnein aijw`na pevssont j, 330 - 332)
L’indovino Mopso traeva auspici con animo propizio.
Iniziò un remigare insaziabile dalle rapide mani.
Precipitando nel baratro del rischio (ej~ de;
kivndunon baqu;n iJevmenoi, 367) pregarono di schivare l’indomito moto
delle rocce cozzanti. Erano vive e gemelle e rotolavano più rapide dei venti ma
quel transito di semidèi recò loro la morte.
Fine della Pitica IV di Pindaro
[1] Cfr. Pindaro, Pitica IV e
Igino, Miti, 12 e 13.
[2] Giulio Guidorizzi, a cura di Igino,
Miti, p. 200.
[3] Era nato, secondo Apollonio Rodio,
dall’unione di Crono e Filira. La sua natura era semiequina poiché il dio per
celarsi a Rea aveva assunto la forma di un cavallo dalla lunga criniera. Rea
però li sorprese e Crono fuggì. L’oceanina Filira, per vergogna, andò a
nascondersi nelle grandi montagne pelasghe dove diede alla luce il mostruoso
Chirone, in parte dio, in parte cavallo (Argonautiche, 2, vv. 1231 sgg).
[4] Bruno Gentili, Paola Angeli
Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini (a cura di), Pindaro Le
Pitiche, p. 105,
[5] Un uccello simile al picchio.
[6] Cfr La Sfinge dal canto variopinto (Edipo
re, v. 130) di cui ho detto dopo il v. 300 e dirò altro dopo il v. 936.
[7] Uno degli Argonauti, quello che lanciò
la colomba tra le Simplegadi (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, v.
562) per vedere, secondo le istruzioni di Fineo, se l’uccello sopravviveva e se
potevano tentare la prova anche loro. Durante il passaggio periglioso Eufemo
incitava i compagni a remare con tutta la forza (v, 588 - 589) Da lui sarebbe
disceso il committente dell’ode. Eufemo, discendente di Poseidone, era un
esperto pilota e un possibile successore di Tifi dopo la morte del timoniere,
ma gli venne preferito Anceo.
[8] La moderna Santorini (ndr)
[9] Bruno Gentili, Paola Angeli
Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini (a cura di), Pindaro Le
Pitiche, pp. 106 - 107.
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